Medio Oriente, si continua a morire

La costa orientale del Mediterraneo ha confermato durante l’ultima crisi di essere uno dei principali focus della pace mondiale, uno dei palcoscenici preferiti di chi voglia adoprarsi in favore della stessa, uno degli scenari principali per chi voglia semplicemente regolare problematiche contigue.

Fra gli attori principali di quest’ultima rappresentazione, a parte i due protagonisti stretti, Hamas e Israele, annoveriamo in un ordine di merito per quello che hanno fatto e per il ruolo che hanno avuto nella risoluzione della crisi, Egitto e Stati Uniti avanti a tutti; e poi il Qatar; marginale e puramente di facciata il ruolo di Autorità Palestinese e Turchia. Assolutamente irrilevante quello di Olp, Siria e Iran. Inesistente quello dell’Europa. A latere, in aggiunta al ruolo delle Nazioni, da segnalare anche il ruolo di talune <problematiche>: la primavera araba, che riprende vigore in Egitto a causa dei provvedimenti di politica interna adottati dal ringalluzzito Presidente Morsi; il Congresso americano e la solidarietà più volte espressa nei confronti di Israele; i trattati internazionali riguardanti il Sinai, infranti dall’Egitto con il benestare della controparte (Israele), che da questo abuso ha tratto giovamento; le armi iraniane (razzi Fajr 5)

impiegate da Hamas, nonostante la smentita da fonti governative di Teheran di averle fornite, successivamente ritrattate dal presidente del parlamento iraniano Ali Larijani, che afferma che i suo Paese ha fornito assistenza militare ad Hamas a Gaza. Sullo sfondo, a fare da scenario, in primis le risoluzioni delle NN.UU., mai applicate da Israele, riguardanti la restituzione dei territori, che lo stato ebraico, al contrario, ha progressivamente colonizzato e, a seguire, ma non meno importante, la richiesta della Palestina di essere riconosciuta dalle NN.UU. come entità statuale, visto che come Nazione esiste da millenni, e l’ondivago atteggiamento dell’Amministrazione americana.

Questo, al di là degli episodi cronaca, è ciò che è accaduto in Medio Oriente, tra Israele e Gaza, nel periodo tra il 14 e il 21 novembre. Le principali conclusioni che se ne possono trarre, molte già emerse nelle analisi dei commentatori e di seguito riportate, a meno di dimenticanze, dovrebbero essere le seguenti:

–           «l’ascesa del sunnismo in Nord Africa e nel Levante rinsalda i legami con il Golfo e crea un esteso fronte d’intesa politica volto a bilanciare e smorzare l’ascesa dell’Iran e dei suoi alleati nella regione; … l’aspettativa è che i sunniti, dai Fratelli musulmani in Egitto alle monarchie del Golfo, in cambio dell’appoggio politico e dell’integrazione nel circuito economico-finanziario del capitalismo internazionale, si facciano carico di mantenere l’essenziale del sistema di sicurezza di Camp David; … grossa sfida diplomatica che punta ad un cambiamento ordinato e consensuale dell’assetto regionale ma richiede, come condizione della sua realizzazione, un rinnovato e maggiore sforzo da parte degli Stati Uniti per dare una soluzione definitiva e soddisfacente al conflitto arabo-israeliano; … la politica di Morsi sembra voler favorire (con cautela) una maggiore apertura del passaggio di Rafah tra la striscia di Gaza e l’Egitto, e ostacolare invece l’influenza dell’Iran e dei jihadisti su Hamas (e quindi controllare il Sinai) e aspettare il momento giusto per prendere un’iniziativa diplomatica verso il conflitto nel suo insieme condizionatamente ai rapporti con gli Usa. La preoccupazione anti iraniana è condivisa dai regimi sunniti del Golfo. La solidarietà dei regimi sunniti verso Gaza è sincera, ma è anche mossa dalla necessità di competere con l’influenza iraniana. In questo quadro, l’emiro del Qatar ha visitato ufficialmente Gaza qualche settimana fa lasciando una sovvenzione di 400 milioni di dollari. È possibile che l’intervento diplomatico di medio periodo, cui si è accennato, finisca per essere arabo e non solo egiziano» (Aliboni, IAI, 18/11);

–           «Hamas l’ha iniziato con il lancio di missili, una pioggia continua. Uccidendo Ahmed al-Jabari, il capo della sua ala militare [Jabari voleva la fine delle violenze e cercava un accordo, per questo è stato ucciso, NdR], Netanyahu ha indicato che stroncherà questa minaccia a qualsiasi prezzo e che punterà sui bersagli più importanti. Se Israele non avesse commesso lo sbaglio di ritirare le sue truppe da Gaza, Hamas non sarebbe stato in grado di attaccare. Ma le ha ritirate, e l’Iran e altri Paesi ne hanno approfittato per armare Hamas. Israele si è così trovata in una situazione insostenibile, deve fare pulizia a Gaza» (Richard Perle, Corriere 18/11, Informare x Resistere-Fait-23/11);

–           per fronteggiare la nuova situazione «parrebbe ora necessario o consentire all’Egitto una presenza militare nella “Zona C” (che non sarebbe accettata da Israele) o affidare alla Mfo compiti di contrasto (che l’Egitto considererebbe una violazione della propria sovranità). La verità è che la complessa architettura dell’Accordo è quanto mai solida e funzionale sia agli interessi di Egitto ed Israele, sia alla volontà Usa di assumersi la responsabilità di preservare l’equilibrio da essi faticosamente raggiunto» (Caffio, IAI, 24/11);

–           «é una grande vittoria per Hamas, ma deve essere sfruttata da tutto il popolo palestinese, altrimenti ci sarà una divisione profonda fra Gaza e la Cisgiordania”. Ad affermarlo all’ANSA è Hassan Nafaa, professore di Scienze politiche all’Università del Cairo, noto analista che ha una rubrica di commenti quotidiana sul giornale Masri el Youm la tregua a Gaza rappresenta in fin dei conti anche un’occasione per l’altra fazione palestinese: quella, apparentemente indebolita in questa fase, che fa capo al presidente moderato dell’Autorità nazionale Abu Mazen. “E’ arrivato il momento che anche lui riconosca questo cambiamento per trarne vantaggio il 29 novembre, quando presenterà la richiesta di riconoscimento dello status di paese non-membro alle Nazioni Unite”. “In quell’occasione Abu Mazen deve parlare a nome di tutti i palestinesi e della Palestina intera per godere dell’appoggio e del sostegno di tutti, evitando così il rischio di rimanere isolato” “Per approfittare della vittoria di Hamas – spiega – Abu Mazen deve lavorare per la riconciliazione fra le maggiori fazioni palestinesi”, Fatah e Hamas» (ANSA, DanilaClegg, 22/11);

–           fonti internazionali riferiscono di 5 vittime israeliane e di un numero incerto di feriti, compreso tra le 30 e le 50 unità; il ministero della Sanità palestinese di Gaza ha affermato che durante la recente crisi, le vittime  palestinesi  sono state 175 e i feriti circa 1400. Il servizio di informazione del ministero della Salute, nella sua relazione finale sulle vittime, ha reso noto che il numero totale di vittime ufficialmente registrato presso il Ministero è di 175 e 1399 quello dei feriti. Ha aggiunto che tra le vittime ci sono 34 bambini, tra cui 16 minori di cinque anni, 11 donne e 19 anziani. Secondo il rapporto, tra i 1399 feriti, i bambini sono 465, di cui 141 al di sotto dei 5 anni; 254 donne; 91 anziani. 27 feriti sono in gravi condizioni. Tra il personale medico ci sono stati due morti e cinque feriti. Gli attacchi israeliani hanno danneggiato 10 centri medici, tra cui due ospedali, due centri di cure primarie, e l’Archivio centrale del ministero e il Dipartimento della Commissione Medica nel complesso governativo di Abu Khadra;

–           secondo quanto pubblicato il 24/11 su Facebook da Amin Nabulsi del Co-Mai (Comunità del Mondo Arabo in Italia), «Israele ha detenuto dal 1967 circa 750.000 palestinesi in 45 anni di occupazione, tra cui circa 12.000 donne e decine di migliaia di bambini. PCB ha detto che Israele detiene attualmente circa 6.000 palestinesi nelle carceri, tra cui 35 donne e 285 bambini. Inoltre, uno o più membri di quasi ogni famiglia palestinese sono stati arrestati dalla polizia israeliana. PCB ulteriormente ha detto che più di 200 detenuti sono stati uccisi dal 1967 a causa di negligenza medica, la tortura o l’omicidio da parte dei soldati israeliani e guardie carcerarie»;

–           «durante l’operazione Piombo Fuso di fine 2008 e inizio 2009, … compiuta con le stesse scuse e gli stessi fini, sono stati uccisi almeno 1400 palestinesi, secondo il rapporto delle Nazioni Unite, a fronte dei 15 morti israeliani provocati in otto anni (!) dai razzi di Hamas. Un rapporto di circa 241 cento a uno, dunque: dieci volte superiore a quello della strage delle Fosse Ardeatine. Naturalmente, l’eccidio di quattro anni fa non è che uno dei tanti perpetrati dal governo e dall’esercito di occupazione israeliani nei territori palestinesi», Repubblica – Blog-Odifreddi – 18/11;

–           secondo molti osservatori, l’atteggiamento israeliano rientra in una logica di pulizia etnica, oltre la colonizzazione: il Muro; la sottrazione di terre e acque; la demolizione delle case e del raccolto; il taglio degli alberi (olivi e frutteti, più di un milione di alberi tagliati); l’espansione; l’annessione della terra palestinese con più bassa presenza araba e la contestuale distruzione di villaggi di questi ultimi; l’istituzione di centinaia di check-poits che ostacolano l’economia, i servizi sanitari, le scuole, le università e il movimento delle persone e delle merci tra le città ed i villaggi palestinesi, tra territori occupati palestinesi e il mondo; gli oltre 1400 km di strade in Cisgiordania, riservate ai soli coloni, strade che collegano le colonie stesse con Israele; l’assedio da 6 anni della striscia Gaza; gli assassinii; i bombardamenti indiscriminati contro quartieri densamente popolati; le punizioni collettive; l’uso di armi proibite dal diritto internazionale (fosforo bianco e bombe al tungsteno); la mancata applicazione di molte risoluzioni delle NN. UU.

Sin qui i fatti all’osso e i più significativi commenti sugli stessi.

Sembra il caso di sottolineare tre aspetti poco enfatizzati dalle cronache e dai commenti: il ruolo dell’Europa, quello degli organi di informazione e un insopportabile aspetto di natura etica.

Quanto al ruolo dell’Europa, se vi è stato, è stato poco visibile e appariscente, tant’è che non ne è rimasta traccia sui media. E le dichiarazioni che sono state registrate sono di imparzialità e profondità simili a quella rilasciata dal nostro ministro Terzi all’indomani dell’attentato di Hamas che ha causato il ferimento di 23 persone in un pullman nella mattinata del 21, a tregua già operante, con 170 vittime palestinesi ancora a terra: «A Tel Aviv atto barbaro di terrorismo»…

Quanto all’atteggiamento degli organi di informazione, la copertura mediatica occidentale è stata parziale e di parte, probabilmente troppo condizionata da influenze filo ebraiche e da avversione preconcetta nei confronti del mondo arabo, palestinese in particolare. E questa scarsa copertura altro non è se non il proseguimento degli episodi Kafr Kassem, Deir Yassine, Sabra e Chatila, Cana, Beyrouth.

Per finire, una considerazione molto amara, che ci demoralizza, in quanto indice del disumano trend della natura umana: l’abitudine, ormai consolidata da parte dei Paesi-guerrieri, di eseguire assassinii mirati. E’ stata un’esecuzione premeditata e programmata negli USA quella di Saddam Hussein; è stata un’esecuzione quella di Oussama Ben Laden. La ricerca e l’abbattimento di entrambi è costata molte vite, troppe: certamente un numero superiore a quello che loro hanno provocato o che avrebbero potuto causare in futuro, se giudicati e sicuramente imprigionati, come civiltà avrebbe imposto! L’assassinio mirato di Ahmad Jabari ha causato “solo” 180 vite umane!

Crediamo fermamente che gli assassini mirati siano delle vere e proprie esecuzioni, e questo oggi non è ammissibile in un mondo civile!

In un mondo civile, appunto…