Covid-19: un monito per il cittadino del mondo. Della serie “Egoismo consumistico e finta disinformazione”

di Angelo De Giuli

Tre eventi particolari, saliti alla ribalta negli ultimi mesi, hanno richiamato l’attenzione generale sulla vulnerabilità dell’esistenza umana relativamente al sistema di interdipendenza che regola le nostre società e l’economia mondiale. I picchi di calore e la media crescente della temperatura atmosferica e degli oceani, gli immensi incendi in diverse regioni del mondo, la peste suina ed il Covid-19 (più noto come Coronavirus): ecco i tre eventi che hanno avuto, ed hanno tuttora, manifestazioni locali ed effetti globali. Al loro verificarsi, queste sciagure hanno catalizzato l’attenzione degli organi di informazione di tutto il mondo. Il Covid-19, però, ha sfrattato dai mass media tutti gli altri argomenti, sia di cronaca sia di politica interna che estera, ed ha spianato il campo alla discussione critica in merito ai temi inerenti all’organizzazione economica mondiale e allo sfruttamento delle risorse naturali. La pericolosità di questo virus è tale che gli organi di informazione ci inondano quotidianamente di dati numerici che possiamo suddividere in due precise categorie: quelli che misurano il rischio per la nostra incolumità fisica e quelli che indicano gli effetti dei disastri sull’economia e sul nostro tenore di vita. Però, nel corso degli ultimi 8 mesi, gli scienziati hanno segnalato con forza anche altre situazioni molto pericolose per l’Uomo: la drastica riduzione del numero di api, il livello crescente sia dell’inquinamento nelle aree urbane sia del numero di morti ad esso collegate, l’accelerazione della riduzione della biodiversità in numerose aree del mondo, e tante altre. Ebbene, solo alcune catastrofi sono seguite con sistematicità ed approfondimenti quotidiani, mentre altre sono degne giusto di un articolo, e poi dimenticate. Le api, ad esempio. Un articolo su La Stampa, datato 03 Settembre 2019, titola “Le api stanno morendo, una tragedia per l’umanità”. (1) L’argomento non ha avuto un seguito particolare: chi si ricorda di questa notizia? Quale livello di attenzione ha prodotto nella opinione pubblica? Nessuno se la ricorda e certo non si è sviluppato alcun tipo di riflessione o discussione sui mass media e presso l’opinione pubblica, sebbene questo insetto sia fondamentale per l’impollinazione dei fiori, quindi per la produzione di frutta e verdura. In definitiva, le api sono essenziali per ottenere gran parte del cibo di cui ci nutriamo. Per il problema dell’inquinamento atmosferico delle aree metropolitane ed a maggior concentrazione di attività umane vi è stato un eguale disinteresse generale, nonostante esso sia indicato come la causa di decine di migliaia di morti ogni anno solo in Italia. Il diffondersi anche in Europa ed in USA del Covid-19, certamente una seria minaccia per il genere umano, da settimane occupa il 95% degli spazi di informazione (non fu così per l’epidemia di Ebola in Congo negli anni 2018 – 2019). E’ evidente ed innegabile il diverso trattamento mediatico dei vari pericoli per la nostra specie, sebbene tutti essi siano potenziale fonte di disgrazia per l’Uomo. Soprattutto risalta, agli occhi di un attento osservatore, la differente attenzione ed apprensione dell’opinione pubblica verso questi argomenti. In maniera naturale viene da chiedersi: perché queste diverse sensibilità verso le varie minacce alla nostra esistenza? Qual è la scala di valutazione, per le singole persone, dei pericoli che incombono su tutti noi e sulle generazioni future? La risposta non è semplice né lineare; numerosi sono i fattori che influiscono sulla percezione del pericolo da parte delle persone, e di conseguenza sulle loro reazioni. Però si può individuare un ristretto insieme di elementi caratterizzanti la forma mentis dell’uomo contemporaneo ed uno schema di ragionamento che lo conducono su un piano di sicurezza tale per cui questi eventi nefasti sono relegati alla categoria di momentanei fastidi nella corsa per lo sviluppo. Si potrebbero definire “i danni collaterali”, inevitabili, connessi all’espansione economica necessaria per conquistare sempre più elevati standard qualitativi di vita. In termini più semplici e diretti: questi danni sono, per le nostre società sviluppate, il prezzo che “si può pagare” per il progresso dell’umanità. Esattamente quanto l’Omologazione, senza dichiararlo apertamente, ha instillato nel subconscio del cittadino del mondo. Un progresso che va inteso, così come traspare dai dibattiti pubblici, nell’aumento del PIL e nella cieca fede in nuove tecnologie che “nel prossimo futuro” risolveranno questi problemi contingenti. Un progresso che, come tutti sanno, è comunque solo per una parte minoritaria della popolazione mondiale. Il raggiungimento della (presunta) garanzia della sicurezza alimentare e l’acritica certezza che il progresso tecnologico consentirà di sciogliere ogni vincolo per un futuro strabiliante, alimentano nell’animo del cittadino del mondo quel senso di onnipotenza sulla Natura (anche sulla natura dell’Uomo!) che lo allontana dalle evidenze della realtà esistente appena oltre la porta di casa sua. (2) A mio avviso, è questo il punto di partenza per tentare una comprensione delle differenti reazioni a situazioni negative foriere della stessa minaccia. L’Omologazione, in relazione a questo argomento, ha prodotto due effetti tra loro complementari, specifici delle società e nazioni economicamente più sviluppate. Il primo effetto attiene alla generale sensazione di sicurezza degli approvvigionamenti, il secondo invece consiste nel progressivo distacco cognitivo che va instaurandosi tra il consumatore ed il produttore. Due effetti strettamente interconnessi: inizialmente il primo ha contribuito a generare il secondo, ed ora il secondo sostiene e rafforza il primo. Il superamento dei confini statali, fisici ed amministrativi, dell’azione economica e finanziaria ha determinato la specializzazione e l’interdipendenza delle economie nazionali di cui si è già scritto a lungo negli articoli precedenti. I volumi di produzione, sfruttando le economie di scala specifiche per settore ed area, sono aumentati enormemente e si riversano sui mercati di consumo generando un’abbondanza e, soprattutto, una continuità di fornitura mai visti in tutta la storia precedente dell’umanità. E’ stato superato il limite naturale della stagionalità dei prodotti agricoli, ricorrendo alla diversificazione degli approvvigionamenti in molteplici aree del mondo. Similmente, la maggior parte dei servizi sono forniti senza vincolo di territorialità. Si pensi ad esempio ai call center, che rispondono ai clienti in Italia ma sono ubicati in Est Europa o Nord Africa, oppure ai servizi di investimento offerti ai risparmiatori italiani ed erogati da società e consulenti residenti in Irlanda, od ancora ai servizi informatici ed ai software venduti in Germania ma prodotti in India e Stati limitrofi. Durante gli ultimi decenni di relativa stabilità politica nelle principali aree economiche del mondo la globalizzazione ha reso costante nel tempo e nei volumi la disponibilità di qualsiasi prodotto e servizio, di qualunque natura essi siano. L’attore di mercato che opera questo “miracolo della modernità” è la Grande Distribuzione Organizzata (in seguito: GDO). In altri scritti si sono già approfonditi i temi inerenti la capacità della GDO di attrarre e condizionare la stragrande maggioranza dei consumatori ed i meccanismi psicologici esercitati su questi ultimi. E’ però necessario, in questa occasione, evidenziare due importanti dinamiche sottostanti l’operare della GDO. La prima è rappresentata dalla forza finanziaria che sostiene il sistema GDO. Gli enormi capitali di cui dispone (o meglio, che la controllano) le consentono di acquistare ingenti quantità di prodotti, tali da rendere convenienti le spese di trasporto da qualsiasi angolo del mondo e da spuntare prezzi d’acquisto particolarmente ribassati. Questa forza finanziaria è la principale leva che la GDO ha utilizzato per conquistare e monopolizzare lo sbocco dei prodotti sul mercato, consentendole di garantire ai suoi clienti un ampio assortimento di articoli, continuità temporale e standardizzazione qualitativa dell’offerta al consumatore, prezzi ribassati. La seconda dinamica è quella di poter assorbire interamente la produzione di molte imprese, rendendole completamente dipendenti da essa in quanto unico canale di accesso al mercato. A questo proposito è illuminante il libro di S. Liberti e F. Ciconte “Il grande carrello. Chi decide cosa mangiamo”: in esso è disvelato il meccanismo che ha creato ed accentua continuamente lo squilibrio tra settore produttivo e quello distributivo. Rimando a questo libro il lettore interessato ad approfondire gli effetti della posizione dominante della GDO rispetto al mondo produttivo. Dunque possiamo riassumere il primo effetto del combinato globalizzazione – GDO in questi termini: gli aumenti delle produzioni che sfruttano le opportunità offerte dalla globalizzazione consentono di approvvigionare i mercati indipendentemente dai ritmi produttivi della natura; la GDO, con la sua forza finanziaria e la sua posizione di mercato dominante, garantisce la continuità temporale della disponibilità al consumo di un vasto assortimento di prodotti, rispetto ai quali opera una costante azione di omologazione qualitativa e di pressione al ribasso sul prezzo. Dal punto di vista del consumatore tutto ciò appare come la conquista della libertà di consumo, finalmente affrancato da ogni tipo di incertezza riguardante la presenza degli articoli sugli scaffali, in termini quantitativi, qualitativi e temporali. Ma proprio da questa sensazione di sicurezza di approvvigionamento deriva il secondo effetto sociale dell’Omologazione. Il cittadino del mondo, di cui si è scritto nell’articolo (http://www.omeganews.info/?p=4313), entrando in un qualsiasi centro commerciale ha la convinzione di avere il mondo a distanza di braccio: può disporre di prodotti fabbricati in ogni parte del globo ed in qualsiasi istante. In questo modo i confini, le distanze ed il tempo sono annullati. Non ci sono più limiti alla sua libertà di mangiare messicano, acquistare tecnologia cinese, calzare scarpe inglesi, oppure cambiare stili e acquisti, se così decide il giorno successivo. E’ tutto a sua disposizione in una dimensione temporale istantanea nella quale l’origine (e la storia produttiva) del prodotto o del servizio è ininfluente, senza più alcun significato. L’importante è che ciò che il consumatore cittadino del mondo desidera sia lì, sempre immediatamente disponibile ed abbondante. Nell’ombra della certezza che tutto è sempre disponibile ovunque si cela il lavorio incessante dell’Omologazione teso a scindere, separare l’utilità intrinseca del prodotto da consumare dal valore economico e sociale della sua produzione. Il Marketing, la comunicazione e la moda sono agenti formidabili nello scavare il fossato tra la “idea” del prodotto acquistato ed il “valore” dello stesso. E’ così che un marchio simbolo del famoso cibo italiano, Barilla, può permettersi il lusso di proporre, sullo stesso scaffale, una linea di pasta prodotta con cereali coltivati in Paesi UE ed extra UE (nelle classiche confezioni blu, quelle che siamo abituati a vedere da decenni), ed una gamma di pasta ricavata da cereali di sola origine italiana (con un confezionamento diverso, di colore azzurro). Due prodotti derivati da materie prime di origini diverse sotto un marchio conosciuto a livello mondiale quale garanzia di “Italian food”. In pratica il logo “Prodotto Italiano” è giusto un marchio, di notevole valore sotto il profilo pubblicitario e di segmentazione di mercato, ma depotenziato nel significato (valore) concreto e sostanziale di stretto riferimento ad un territorio ed alle sue tradizioni. Anche il settore auto presenta lo stesso trucco dal momento che le maggiori marche tedesche, che della precisione ed affidabilità meccanica fanno il loro punto di forza, assemblano nei loro modelli componenti meccaniche prodotte in Italia da metalli indiani e cinesi. Identica dinamica per il settore abbigliamento e alta moda. Famose firme della moda italiana, che della qualità sartoriale e della tessitura nazionale fanno gran vanto, portano sui mercati al dettaglio abiti ed accessori concepiti dal design italiano e prodotti con tessuti e manifatture dell’Estremo Oriente. Si potrebbe continuare a lungo con esempi simili. Ma ciò che si intende evidenziare è la potenza del Marketing e la sua forza nell’omologare i comportamenti di consumo. Non è importante ciò che “fisicamente” compro, quanto la “percezione” di ciò che acquisto. La reputazione della marca, l’attualità della moda, questo è il valore che è percepito dal consumatore contemporaneo. La marca è ritenuta sinonimo di qualità, a prescindere da tutto. Rispetto alla marca ed alla moda del momento, perdono di valore la reale provenienza delle materie prime, le caratteristiche manifatturiere e, soprattutto, le condizioni lavorative ed ambientali del processo produttivo. Come scritto in precedenza, la disponibilità continua (in termini temporali, quantitativi e geografici) dei prodotti richiesti dal consumatore fa sì che esso percepisca un mondo scevro da ogni possibile carenza. La nostra società, quella dei Paesi sviluppati, è ormai abituata a disporre di qualunque cosa in ogni momento, per il semplice fatto che “se non si produce qui, qualcuno da qualche altra parte lo produce di sicuro”. Il grano, la frutta, il televisore, il cotone … non mancheranno mai nei nostri negozi e centri commerciali. Negli ultimi due decenni lo sviluppo dell’Omologazione ha esasperato questa idea di sicurezza, portandola al punto che il cittadino del mondo dà per scontato che qualunque prodotto esistente sulla Terra sia per lui disponibile; e se non è reperibile al supermercato, sicuramente lo è tramite internet. Come descritto nell’articolo http://www.omeganews.info/?p=4313, nel tempo questa sicurezza nella perenne e costante disponibilità di ogni articolo o servizio si è trasformato in un diritto acquisito, inviolabile e garantito dall’ammaliante propaganda del consumismo e della globalizzazione. E’ in questo momento che si realizza la separazione tra il “percepito” dal consumatore e la realtà della produzione; è così che il mercato diventa virtuale. E’ questo il meccanismo che progressivamente trasforma ogni prodotto in merce, ossia rende ogni articolo un pezzo di acciaio, minuti di conversazione sulla banda telefonica. E come questi, non interessa dove e come sia prodotto, è sufficiente che abbia determinate specifiche tecniche, costi il meno possibile ed abbia un marchio che funga da garanzia. I processi economici dell’Omologazione e le dinamiche commerciali accentuano tutto ciò, così che un chilogrammo di riso deve avere un’etichetta italiana, tenere la cottura e costare il meno possibile, risultando secondario il fatto che sia prodotto in Italia o in Cambogia, ossia che le normative stringenti sull’uso dei pesticidi e di tutela dei diritti dei lavoratori siano rispettate in modo rigoroso oppure in gran parte non applicate. La distanza tra il luogo di produzione e quello di consumo è un formidabile ostacolo all’informazione del consumatore. Ma anche una comoda scusante per la quiete della sua coscienza… Il cittadino del mondo, quando compra una smart Tv, un IPad, un capo di abbigliamento di marca, non si preoccupa del fatto che dietro a quegli oggetti vi sia il lavoro minorile nelle cave di cobalto in Congo pagato neanche 5 € al giorno, oppure operai tessili o sarti pagati un quarto di quelli europei per lavorare 12 o 14 ore al giorno tutti i giorni, tutti lavoratori senza un minimo di diritti e tutele. Lui, il cittadino del mondo che vive in Europa, negli USA, in Giappone, come può sapere tutto questo? Ma la scusa del “non lo so” non regge. Libri, giornalisti di inchiesta, reportage televisivi, organizzazioni internazionali di ogni tipo denunciano da anni tutte queste situazioni di ingiustizia e sfruttamento: tutti sanno quali sono le condizioni di lavoro ed ambientali in tanti Paesi di provenienza dei prodotti più diffusi nelle nostre città. Così come tutti si immergono nella rete per seguire i piccoli interessi individuali (social, lavorativi, di svago …), altrettanto potrebbero dedicare una frazione del loro tempo per conoscere cosa succede ad altri. Ma, essendo queste situazioni lontane dal consumatore, esse non lo toccano personalmente, così che quasi sempre si rifugia nel pilatesco “cosa ne posso sapere? Sarà vero, o è la solita invenzione dei contestatori di turno?”. Eccoci dunque al punto! Ciò che di negativo esiste in aree remote del pianeta non coinvolgono personalmente il cittadino del mondo. Apparentemente se ne rammarica, certo, ma in realtà non sono per lui importanti (e quindi se ne disinteressa) perché questi problemi non minacciano direttamente il suo quieto vivere. Ed è così che non si turba minimamente se la popolazione di api, insetti necessari ad impollinare oltre il 70% dei tipi di frutta e verdura necessari all’alimentazione umana, abbiano subito una riduzione del 60, 70% in vaste aree d’Europa e USA. Non fa notizia: miele, frutta e verdura saranno prodotti in altre zone e da lì saranno importate. Al supermercato non mancheranno di sicuro! Non c’è grande allarme nell’opinione pubblica se gli scienziati dichiarano che in Italia ogni anno, decine di migliaia di morti sono dovute all’inquinamento atmosferico: il cittadino evoluto ed i suoi amici stanno bene, è il solito allarmismo di sovversivi e contestatori servi degli interessi dei poteri forti! In Congo, da decenni, bambini di 8 – 10 anni lavorano in condizione di schiavitù nelle miniere di cobalto, ma sui giornali e televisioni se ne parla una volta l’anno, giusto quando non si sa come riempire uno spazio rimasto vuoto. Certo, sebbene sia terribile, ormai le nostre evolute economie non possono fare a meno dei telefonini e dei vari gadgets elettronici. E, comunque sia, presi come siamo dalle nostre vite agiate e frenetiche, ed essendo il Congo un Paese lontano e povero, ce ne dimentichiamo (colpevolmente) subito. E’ così che tutto ciò che non ci tocca nelle tasche e non ci minaccia da vicino non è degno della ribalta e delle attenzioni continue di giornali, televisioni, internet e social media. Con il Covid-19, invece, le cose si presentano diversamente. In Europa, nelle ultime 3 settimane (non negli ultimi 4 mesi, quando era una faccenda della sola Cina!) giornali, televisioni e tutto ciò che trasmetta informazioni, dedicano il 95% degli spazi informativi al Covid-19. Certamente questo virus rappresenta una minaccia per l’Uomo, come le situazioni negli esempi precedenti. Ma questa volta, cittadino del mondo, il pericolo ti sta guardando negli occhi! Il virus è in casa tua, non lo puoi pagare per fermarsi, non fa alcuna distinzione tra le categorie sociali e per lui siamo tutti uguali. Accidenti, è una minaccia veramente democratica e incorruttibile! Un pericolo che ti condiziona, limita le tue libertà, che può essere scongiurato solo con i sacrifici dell’isolamento così come la Cina e la zona rossa nel lodigiano ne hanno dato esempio. E non sai nemmeno se per scacciarlo sia sufficiente rinunciare a cene, aperitivi, viaggi e sport, shopping e meeting aziendali! E sì, caro cittadino del mondo, ora tocca anche a te fare i conti con la sfortuna! Il pericolo ora non è più solo per gli sfortunati delle aree maledette e dimenticate della Terra: è entrato in casa tua, anche se ancora fai fatica a crederlo! Fino a un mese e mezzo fa, i vari problemi dell’umanità non erano parte della tua vita, riguardavano altri, lontani, poveri esseri inutili per la tua piena e frenetica esistenza. Caro cittadino del mondo, non hai mai speso più di una frase di circostanza (di solito quella più urlata sui social) per le grandi problematiche dei nostri tempi. Un primo caso. Milioni di persone scappano da carestie e guerre. La risposta tua (tramite i rappresentanti che eleggi all’uopo) è semplice e veloce: pago qualcuno che li tenga lontani da casa mia. Per ingannare la tua coscienza reciti qualche frase di solidarietà, magari aumenti l’offerta in Chiesa, ma l’importante è che questi disperati stiano lontani dalla tua vita (ed ecco perché l’Unione Europea ha pagato miliardi di Euro alla Turchia affinché trattenesse i rifugiati nel suo territorio; l’Italia pagò la Libia di Gheddafi per non far arrivare sulle coste mediterranee i disperati del Centro Africa. E si potrebbe continuare a lungo). Un altro esempio. I tuoi strumenti elettronici, molto trendy e costosi, ormai sono fondamentali per la tua vita interconnessa. Tuo figlio di 10 anni non può più farne a meno. Però ti giri dall’altra parte quando coraggiosi giornalisti pubblicano le foto ed i video di bimbi congolesi dell’età di tuo figlio ridotti in schiavitù, pagati meno di 5 euro per 12 ore di lavoro al giorno, senza protezioni alcune, sotto al sole o alle intemperie, carponi nei cunicoli delle miniere per estrarre il cobalto che finisce nei tuoi “indispensabili” apparecchi elettronici. Ti indigni, strilli qualche generica accusa all’indirizzo delle avide multinazionali, magari doni qualche soldo ad una ONG che tutela i minori, e così tranquillizzi la tua coscienza; ma appena la pubblicità ti comunica l’uscita dell’ultimissimo modello di smart phone ti precipiti a comprarlo. D’altronde in cuor tuo echeggia il leit motiv delle nostre evolute civiltà: il progresso non si ferma, non può fermarsi. Vero! Però consentimi una domanda: perché non partecipi all’evoluzione di questa nostra civiltà del benessere facendo produrre un po’ di cobalto al tuo figliolo? Una sorta di breve Erasmus minerario in Congo, diciamo per un mese, il tempo di estrarre il cobalto necessario per costruire il suo IPhone da centinaia di Euro. Sicuramente l’idea non ti alletta, ed hai ragione. Pensi forse che ai bimbi congolesi invece piaccia quella vita? Vedi, caro cittadino del mondo, esistono posti di cui sicuramente non vuoi far parte, che non consideri quale parte di quel mondo “aperto, progredito e slanciato verso il futuro” di cui ti illudi di essere partecipe. Ci sono persone che hanno avuto la sfortuna di nascere in posti dove la carne è un alimento da ricchi e le scuole un sogno, dove vivere a volte è una condanna. Ora una di queste sfortune è arrivata da te: la (non solo) tua sfortuna si chiama pandemia da Covid-19, aleggia intorno a te obbligandoti ad una vita di “enormi” sacrifici come rinunciare ad aperitivi in centro, alla palestra, allo sport in TV, ai week-end da turista, alle nottate in discoteca. Il virus imporrà due o tre mesi di chiusura di scuole, negozi, luoghi di cultura e divertimento … ti priva dello shopping e degli eventi cool. Ti ha stravolto la vita! … e ancora non hai idea di come cambierà l’economia e la finanza quando il Covid-19 toglierà il disturbo! Ebbene, caro cittadino del mondo, oggi puoi ben dire che il mondo intero, e questa volta veramente tutto il mondo, è la tua patria! L’insicurezza e le grandi, insopportabili privazioni che sperimenti oggi e probabilmente per alcuni mesi a venire, ti rendono partecipe di tutto ciò che hai sempre evitato di considerare: la parte sfortunata della Terra. E la cosa bella, caro cittadino del mondo, sai qual è? Che il Covid-19 lo devi fronteggiare anche tu, non puoi pagare nessuno affinché lo tenga lontano da te, non c’è alcun servizio di rimozione virus da prenotare con un click. Sei al pari dei siriani, che non possono pagare nessuno per evitare che bombardino le loro case, e stai tremando come i bimbi congolesi, che non hanno alternativa alla schiavitù se non la fuga o la morte. Caro cittadino del mondo, il crollo del Pil in Occidente del -1 o -3% nel 2020 e le (per te) catastrofiche conseguenze, dovrebbero farti riflettere su come il tuo stile di vita influisce su tanti altri esseri umani e sul nostro ambiente, perché le privazioni che stai soffrendo ora sono solo un assaggio (neanche tanto amaro, peraltro) di cosa significa essere un cittadino di tutto il mondo, inclusa quella parte sfortunata di esso che hai sempre snobbato e relegato in un angolo remoto della tua mente.

Angelo De Giuli

(1) https://www.lastampa.it/tuttogreen/2019/09/03/news/le-api-stanno-morendo-una-tragedia-per-l-umanita-1.37403768                                               (2) La separazione tra aspettative e realtà riporta al concetto dei “diritti acquisiti” dei consumatori incontrato nell’articolo di cui alla nota (1).