Il generale Jovan Divijak

Caro direttore,
se lo spazio del giornale lo consente, vorrei raccontare in poche righe di un incontro della mia vita, con una persona davvero speciale.

Ho avuto il piacere di conoscere il generale Jovan Divjak a Sarajevo a cavallo dell’anno 2000. Mi fu presentato da un’amica che avevamo in comune, Nadira Sehovic.
Divjak ci ricevette nel suo piccolo studio, ove gestiva un’organizzazione che aiutava gli orfani di guerra. Era fiero di quello che stava facendo e del fatto che il suo obiettivo fosse dare un po’ di serenità a ragazzi che la guerra aveva lasciato orfani non solo dei genitori, ma anche delle aspettative di vita. Dialogammo in francese e con quel po’ di serbo- croato (ora si chiamerebbe bosniaco) che stavo imparando, anche se dovetti spesso ricorrere all’aiuto di Nadira; comprendere una lingua è avvicinarsi all’anima di un popolo. Il Generale cercava attraverso piccole cose, di incoraggiare gli orfani ad affrontare un futuro che ai loro occhi appariva terribile. Chi sia stato in quella splendida città che era ed è Sarajevo, e ne abbia conosciuto gli abitanti, la cultura e la serenità, particolarmente negli anni in cui gli accordi di Dayton cercavano di produrre degli effetti, non potrà scordarsi gli orfani. Ne ho avvicinato diversi, di tutte le etnie, accomunati da una tragedia comune, e passati attraverso esperienze terribili.

Jovan Diviak cercava di fare del suo meglio per riportare questi ragazzi alla normalità. Era stimato da tutti, a Sarajevo, per la sua umanità, cultura e aspirazione ad una Bosnia multietnica e multiculturale. Era stato fra i militari di origine serba della Jugoslovenska Narodna Armija (JNA), come allora si chiamava, a transitare nelle fila dell’esercito bosniaco. Era famoso, tra l’altro, per due motivi: aver dato della scimmia a Mladic[1] ed aver restituito i gradi all’allora presidente della Repubblica di Bosnia, Alija Izetbegović, accusandolo di non adottare politiche equanimi all’interno della neonata repubblica.

Ho avuto l’impressione di un uomo che tentava di creare una repubblica multietnica e libera, in cui le compagini nazionaliste che si contendevano il potere perdessero consensi. In Bosnia i tentativi del consesso internazionale non hanno sortito i risultati sperati. La privatizzazione forzata, vista come panacea di tutti i mali, ha di fatto permesso a grosse industrie europee di impossessarsi di risorse a basso costo, non favorendo in alcun modo lo sviluppo economico nazionale. I tentativi di ricreare un tessuto multietnico in alcune zone ove le evictions avevano di fatto creato territori uniformi sotto il profilo etnico non hanno funzionato. Hanno resistito quelle aree ove il sentimento comune di appartenenza ad una società più che ad un’etnia si è rivelato molto forte, come Tuzla. Numerosi sono stati i tentativi di persone con impostazione liberale e multiculturale di far superare i drammatici momenti e solchi scavatasi da una guerra tremenda, fratricida, troppo presto scomparsa dalla memoria collettiva europea perché si potesse costruire una società nuova. Spesso tali idee sono state frustrate da un nazionalismo parossistico, in cui si riconoscono le identità etniche.

Vengo ora a sapere che è stato arrestato in Austria[2] a seguito di ordine di cattura emesso dalla magistratura serba, in quanto si sarebbe macchiato di crimini di guerra nel 1992 a Sarajevo.
Non so se Jovan Divjak sia veramente colpevole di quanto accusato. In assenza di elementi per poter esprimere un giudizio, e sino a prova contraria, rimango convinto dell’onestà morale ed intellettuale dell’Uomo e della sua innocenza.
Sono gli immancabili strascichi di ogni guerra. E non posso fare a meno di pensare al dramma di quella guerra visibile, nella Sarajevo conosciuta all’epoca, nel paesaggio stesso e nei lugubri segni rossi di pittura sui marciapiedi a significare il luogo di alcune tra le più tragiche stragi e i morti di quella guerra; nella Mostar separata da un muro fisico costituito dai fabbricati crivellati di colpi lungo le rive della Neretva o nell’impressione drammatica del famoso ponte distrutto alla cui vista le lacrime salivano agli occhi di chi come me è abituato a pensare ai ponti come a strutture che uniscono. Ed in tanti altri luoghi di questa splendida terra in cui parte del mio cuore è rimasto.
Non posso non pensare agli sguardi di quei bambini orfani ed all’amore dei loro insegnanti e assistenti. Ed all’espressione felice e determinata di Jovan Divjak quando pensava a quello che aveva fatto e a quello che aveva in animo di fare per loro.

Spero che Lei sia in grado di uscire da questa storia a testa alta, come ha sempre fatto, generale Divjak.

Guido Monno


[1] Fatto riportato anche nella prefazione scritta dal giornalista e scrittore Paolo Rumiz al libro “Sarajevo mon amour” di Jovan Divjak

[2] http://www.repubblica.it/esteri/2011/03/04/news/divjak_arresto-13184793/

http://www.repubblica.it/esteri/2011/03/07/news/divjak_no_estradizione-13290994/