Perché il Mediterraneo?

logoPerché l’Osservatorio Mediterraneo di Geopolitica e Antropologia ha ispirato la sua denominazione e rivolto la sua attività al Mediterraneo? Perché il suo periodico telematico parla solo dei fatti del Mediterraneo? Perché il suo Centro Studi Analisi e Produzione approfondisce ed analizza esclusivamente gli eventi politici, economici e del vivere umano del Mediterraneo? E perché, infine, OMeGA dedica tante energie all’organizzazione di eventi “antropogeopolitici” e culturali ispirati al Mediterraneo?

La risposta – banale, se vogliamo – sarebbe molto semplice: per amore e per l’estrazione culturale dei suoi soci. E sarebbe già una spiegazione plausibile.

In effetti, questo amore ha indotto i suoi soci a studiare al microscopio la regione e a convincersi oltre ogni banale affermazione di principio o alla moda del ruolo preminente che questo mare ha avuto nell’evoluzione del pensiero, dello stile di vita e dell’economia dell’intero mondo occidentale. Non c’è stata un’epoca nella quale il pensiero mediterraneo non sia stato uno dei principali propulsori dell’economia occidentale e motore del suo sviluppo politico e culturale.

Un po’ di storia antica

Il legame tra Europa e Mediterraneo è stato in ogni epoca fortissimo, ed è ovvio come non possa essere diversamente vista la geografia di questi due luoghi. Eppure, nonostante tale imprescindibile contiguità, il rapporto tra le sponde europee e non europee del bacino mediterraneo non è sempre stato facile. Per motivi storici ben noti.

Ad esempio, nel tanto vituperato e sconosciuto Medio Evo si assiste ad una profonda dicotomia. Da un lato l’Europa continentale, tornata dopo la dominazione romana quasi ad un’economia di sussistenza e con ridottissimi scambi commerciali; dall’altro il florido Mediterraneo.

L’Europa continentale nei tre secoli seguiti all’avvento dell’Islam soffre della chiusura del Mediterraneo nella sua direzione e dei suoi traffici e del blocco dei suoi sbocchi a Sud, Marsiglia Arles e Narbona. I territori prospicienti la costa meridionale franca e quella occidentale della penisola italiana, dal Golfo del Leone alle foci del Tevere, soggetta a guerre persistenti, flagellata dalle incursioni dei pirati, cadono in un profondo stato di regresso economico, soffocate dall’assenza di flotte e di commercio marittimo. Per queste regioni il mare è interdetto ed il commercio sparito; ci troviamo in presenza di ricchezza unicamente terriera e di circolazione dei beni mobili ridotta al minimo. Le regioni della Gallia, sino a qualche decennio prima molto fiorenti, ora sono le più povere. Il decadimento del benessere dei tempi dei Merovingi sembra irreversibile e la navigazione di imbarcazioni appartenenti all’Europa continentale è ridotta quasi a niente. Nella successiva epoca carolingia la moneta aurea è sparita, il prestito su interesse è vietato, non esiste più una classe di mercanti di professione, l’importazione dei prodotti orientali (papiro, spezie, seta) è cessata, la circolazione monetaria è ridotta al minimo, il saper leggere e scrivere è sparito nel ceto dei laici, non si trova più un’organizzazione fiscale, le città sono diventate non altro che fortezze, la civiltà è regredita a quello stadio puramente agricolo che non ha più bisogno di un commercio, di credito e di scambi regolari per la conservazione della società; la sola importazione che si possa constatare in Spagna è quella degli schiavi, portati senza dubbio da pirati o da Ebrei di Verdun. Il grande commercio è morto dall’inizio dell’VIII secolo, è possibile mantenere solo il commercio di oggetti preziosi provenienti dall’Oriente, esercitato da mercanti ambulanti ebrei. Forse si mantenne un certo traffico fra Bordeaux e la Gran Bretagna, ma certo in proporzioni molto ristrette; desolante immagine di un mondo al lumicino, prossimo a rientrare nelle tenebre da cui era uscito qualche secolo avanti. Quell’Europa nella quale «… i secoli prima dell’anno Mille erano alquanto scuri perché le invasioni barbariche … avevano a poco a poco distrutto la civiltà romana: le città si erano spopolate o erano andate in rovina, le grandi strade non venivano più curate e sparivano fra gli sterpi, erano state dimenticate tecniche fondamentali come quelle dell’estrazione dei metalli e della pietra, si erano abbandonate le culture e … interi territori erano ritornati foresta»; e ancora «… il Medioevo prima del Mille era certamente un periodo di indigenza, di fame, di insicurezza», «… La fame aveva reso tutti smunti, poveri e ricchi, e – quando non erano più restati animali da mangiare – ci si era cibati di ogni tipo di carogne e “di altre cose che destano ribrezzo al solo parlarne”, sino a che alcuni si erano ridotti a mangiare carne umana. I viandanti venivano aggrediti, uccisi a pezzi e messi a cuocere, e coloro che si mettevano in viaggio nella speranza di sfuggire alla carestia, durante la notte venivano sgozzati e divorati da chi li aveva ospitati. C’era chi attirava i bambini mostrando un frutto o un uovo per poterli scannare e cibarsene. In molti posti si mangiavano cadaveri disseppelliti …». E infine, «La popolazione, sempre meno numerosa e meno robusta, era falciata da malattie endemiche (tubercolosi, lebbra, ulcere, eczemi, tumori) e da epidemie tremende come la peste. … secondo alcuni l’Europa, che nel III secolo poteva contare tra i 30 e i 40 milioni di abitanti, nel VII secolo si era ridotta a 14 o 16 milioni. Poca gente che coltivava poca terra, poca terra coltivata che nutriva poca gente»[1].

Negli stessi secoli le scorribande islamiche stimolano l’attività marinara nel Mediterraneo. Dopo le molte ondate barbariche dal Nord Est e l’espansione della cultura araba, sospinta dalla forza della nuova religione, che porta in un mondo decadente e corrotto una ventata di fresca voglia di rinnovamento, cambia lo scenario e viene stimolato il commercio con l’Oriente, più o meno lontano. Il commercio vuol dire navi e navigazione, circostanza che favorisce le città costiere indipendenti (de iure o de facto), economicamente autonome, per tradizione, politica e cultura interessate alla navigazione e ai traffici marittimi, in possesso di una propria flotta e di possedimenti e rappresentanze consolari nelle principali città mediterranee, battenti una propria moneta accettata in tutto il Mediterraneo, con proprie leggi marittime, proprie rappresentanze armate nelle Crociate e ruolo attivo nella repressione della pirateria. A partire dall’XI secolo, a seguito dell’azione di stimolo esercitata anche dalla chiesa di Roma attraverso le crociate, la marineria dell’area costiera del Mediterraneo, già attiva a sostegno dei traffici commerciali, che la sostenevano a loro volta, diviene di gran lunga quella predominante e dà vita a fenomeni di grande progresso e civiltà. Le Repubbliche Marinare ne furono l’espressione sublime. In nessun’altra epoca, né precedente, né successiva, il Mediterraneo sarà più fiorente e denso di navigazione. Commerciale, bellica, d’ogni genere. Lo splendore delle Repubbliche marinare e le spedizioni dell’Europa in Medio Oriente, meglio conosciute come “Crociate”, cui parteciparono anche rappresentanze delle città italiane, segnarono l’apoteosi del Mare Nostrum, conferendogli un ruolo di raccordo e di cerniera che non avrebbe più avuto. Che, al contrario, diverrà sempre più nei secoli successivi una frontiera ed una cortina impermeabile. Quanto alle spedizioni europee con pretesto religioso, esse furono dense di significati e di obiettivi. Tra l’altro, nel presente contesto, piace ricordare che furono il tentativo di rivincita di Carlomagno contro Maometto, il ritorno in Mediterraneo dell’Europa continentale, la conquista dei mercati orientali. E tante altre motivazioni minori, non escluse talune regolazioni di conti domestici, esportati in Palestina. Un bagno di sangue per tutti i contendenti, che ha regolato molte più cose in campo laico e nei Paesi “sending”, di quanto sia riuscito a risolverne in Terra Santa. Visto con occhi postumi, l’epoca delle Crociate fu il tentativo riuscito dei nuovi Stati mitteleuropei di penetrare nel Mediterraneo e di esercitare la propria influenza sui suoi Paesi rivieraschi. Scrive Braudel: «dopo il 1568 … Genova: la città di San Giorgio diventa il centro finanziario dell’intera Europa: una bella rivincita del Mediterraneo. ….. fiere di Piacenza nate a partire dal 1579 ….. “secolo dei genovesi”, che comincerebbe nel 1557 e finirebbe verso il 1622-1627. ….. nel primo ventennio del Seicento … rallentamento dei traffici e degli scambi a lunga distanza del Mediterraneo. ….. Il Mediterraneo è stato da un lato aggredito direttamente, e dall’altro aggirato per sottrarre agli abitanti delle sue sponde i traffici più redditizi. E a questi ultimi, da allora, il mare non è mai stato restituito». Sono gli ultimi fremiti di un mondo in piena decadenza.

La storia moderna

La scoperta delle nuove terre, il loro sfruttamento intensivo da parte delle grandi monarchie europee, la colonizzazione diffusa del mondo esterno all’Europa e le enormi ricchezze sottratte a quei popoli incapaci di opporsi cambiarono lo scenario. Il Mediterraneo divenne terra di conquista, mentre le grandi potenze europee, oltre a colonizzare il mondo, ne fecero quello che vollero e ne disposero a piacimento. L’apertura del calale di Suez ridette al bacino una certa rilevanza, ma solo in termini di rotte est/ovest e nord/sud più brevi e di scali più convenienti.

Da allora il Mediterraneo ha smesso di avere peso politico, economico, culturale, ha subito gli influssi europei e ne è divenuto succube. Molti dei suoi Paesi hanno perso la libertà e la possibilità di elaborare propri percorsi verso la maturazione democratica, che ora viene loro imposta a suon di missili intelligenti e “drones” evoluti. Anche le risorse petrolifere di taluni tra essi, unica risorsa economica in un contesto di grande desolazione industriale ed agricola, sono detenute da “companies” straniere, americane o degli ex colonizzatori. Le grandi potenze europee hanno rifatto i confini, hanno creato Stati privi di giustificazione antropologica, non hanno tenuto conto della distribuzione etnica delle popolazioni, hanno nella generalità dei casi posto confini smembrando la distribuzione tribale, hanno disseminato la regione di molti presupposti alle future guerre, di nome Gibilterra, Sahara Occidentale, Ceuta e Melilla, confini Marocco/Algeria, unità libica, Nazione curda, Israele, Cipro, contenzioso Grecia/Turchia, e certamente alcune altre. Ma il vero capolavoro l’Europa, con la complicità della nascente potenza degli Stati Uniti, l’ha compiuta in Medio Oriente. I problemi dell’area vengono da molto lontano e sono legati alle peregrinazioni del popolo ebraico ed alla sua ferma determinazione di non lasciare più, a nessun costo, la terra promessa.

Strana questa pretesa appartenenza, questa rivendicazione datata 2000 anni. Per molto meno Saddam Hussein perse la vita. Le analoghe dietrologie della Russia in Ucraina stanno facendo decine di vittime. Di quelle di tanti altri, come – per esempio – quella del Marocco riferite a Ceuta e Melilla, non parla nessuno e non risulta che le stesse siano nell’agenda di alcun organismo internazionale, a cominciare dalle NN. UU. Bisogna, pertanto, arguirne che è solo una questione di forza militare e non del tanto sbandierato diritto di autodeterminazione dei popoli! Sarebbe ora che questi ultimi e gli Stati si convincessero che la storia va sempre avanti e non la si può “resettare” con la forza delle armi. Non si può pretendere di ridisegnare i confini ad ogni cambio dei rapporti di forza o ad ogni generazione. E figurarsi dopo 2000 anni! E non basta. Si sente ripetere che la presenza di propri conterranei attribuisca diritti territoriali ai Paesi di provenienza, tipo la famosa affermazione «Germania è dove si parla tedesco», o, per similitudine, «dove si parla russo c’è Russia». E’ aberrante tutto ciò! Ma lo si sente ripetere ormai tanto spesso da qualche tempo che varrebbe quasi la pena di espellere urgente ed irreversibilmente gli appartenenti alle comunità straniere più numerose, no fosse altro che per evitare che un domani si possano contendere pezzi d’Italia la Russia, l’Ucraina, il Marocco, la Romania, il Pakistan, ecc. Con buona pace dello spirito di solidarietà.

Tornando agli Ebrei, e scusandoci per la lunga divagazione, ancorché doverosa e legittima, nella storia del Mediterraneo si incontra[2] per la prima volta questo popolo sotto il nome di “aramei”, mescolati ad un gruppo composto di semiti, hurriti e gente di origine indoeuropea, costituenti tutti insieme la «casa di Giuseppe», sicuramente con una lunga storia errabonda alle spalle. E’ il 1570 a.C. e sono stati appena scacciati dalla zona del delta del Nilo dal faraone Ahmose insieme ai loro protettori hiksos. Imprigionati dagli Egizi e chiamati col nome dispregiativo di “aperu”, casta sociale molto bassa, che nella Bibbia diviene “ebrei”. Scappano dall’Egitto diretti alle terre da dove provenivano i loro antenati, venuti verso occidente per unirsi agli hiksos; si ha traccia dell’attraversamento del Mar Rosso intorno al 1500 a.C. e li si ritrova verso il 1100 sulle colline ad ovest del lago di Genezareth e del Mar Morto. Qui avviene il contatto con i Fenici (libanesi) del settentrione ed avvengono anche matrimoni che ne rafforzano i legami. Si ha traccia di uno stato ebraico nel 950, che poi si spezza in due, Giuda a sud, Israele a nord.[3] Nel 133 d. C. l’imperatore Adriano li scaccia dalla Palestina a seguito di due sanguinose rivolte contro Roma.[4] Con il 1917-18, dopo la sottrazione della Palestina ai Turchi ad opera dei Britannici, cominciano a tornare nella terra promessa non senza scontri sanguinosi. «Il Medio Oriente è diventato ciò che è oggi perché le potenze europee vollero ridisegnarlo, e nel contempo Francia e Gran Bretagna non seppero garantire la durata delle dinastie, degli stati e dei sistemi politici da esse instaurati. Durante e subito dopo il primo conflitto mondiale Gran Bretagna e Francia distrussero irrevocabilmente il vecchio ordine della regione; il dominio turco del Medio Oriente arabo subì un colpo dal quale non avrebbe più potuto riprendersi. Per riempire il vuoto che ne seguì crearono nazioni, formarono governi, misero sul trono monarchi, tracciarono frontiere e insomma cercarono di formare un sistema di stati come ve ne sono in tante parti del mondo, ma non tennero nel debito conto le molte forme di opposizione locale a tali decisioni».[5]

L’attualità

Nel 1948 l’insediamento ebraico e sionista diviene Stato segnando la conclusione di una diaspora durata duemila anni. L’esistenza di tale stato è però osteggiata e combattuta in tutta la regione e considerata come l’inserimento forzoso di un corpo estraneo. Oggi la situazione è quella di un Paese che rivendica il diritto all’esistenza, di una comunità indigena preesistente gradualmente spogliata delle proprie terre, che invoca semplicemente la parità di dignità nella propria terra. Tutto il resto è demagogia, mistificazione e lotta di potere. Ma il capolavoro dell’intrusione coloniale occidentale nel Mediterraneo e in zone ad esso strettamente connesse si è consumato negli ultimi anni. Dopo la distruzione delle “torri gemelle” l’amministrazione americana decide di disfarsi di entrambe le creature allevate ed ex alleate durante il periodo della guerra fredda. Invade parte dell’Afghanistan e l’Irak, elimina Saddam il 30 dicembre 2006 e Oussama Ben Laden il 2 maggio 2011; distrugge l’ordinamento interno di entrambi i Paesi, favorendo l’elezione-burla di governi e parlamenti invisi e non rappresentativi e rendendoli, di fatto, due laboratori molto dinamici ed efficaci dell’internazionale del terrorismo islamico, fra loro intimamente correlati e capaci di proselitismo e simpatie in tutto il mondo mediorientale ed occidentale. Le crisi sono l’ovvio innesco dell’esplosione della situazione siro-libanese creatasi all’epoca. L’assassinio del premier libanese Rafiq al-Hariri, le successive elezioni politiche del marzo 2005 e l’affermazione della coalizione antisiriana guidata dal fratello di al-Hariri, Saad, lo smantellamento degli insediamenti della striscia di Gaza e l’uscita di scena del premier A. Sharon, la morte di Arafat e l’elezione di Abu Mazen quale presidente dell’ANP, la vittoria elettorale dei fondamentalisti di Hamas nel 2006 e la ripresa dello scontro militare con Israele segnano l’escalation della tensione nell’area israelo-palestinese. Che dire, poi, dell’ambigua politica sia americana, sia europea, nei confronti delle devastanti crisi egiziana e libica, che hanno portato alla destituzione della vecchia classe dirigente non si sa ancora in favore di chi, se non del caos sovrano. Prossima tappa nei piani americani, dettati nella fattispecie dall’alleato israeliano, è l’eliminazione del fiero avversario iraniano.

Oggi il Mediterraneo è flagellato dalla piaga dei migranti, che scappano da tutti gli sconvolgimenti di una costa per approdare in quella antistante: un fenomeno considerato come assolutamente interno e privato, che lascia indifferente quella stessa Europa che di tanta miseria e di tanti guasti è stata la principale artefice o ispiratrice e che pretende di assorbire solo quella parte di disperati che può essere utile al mantenimento del suo benessere: braccia per l’agricoltura e l’edilizia ed esperienza tecnica specializzata per l’industria. Che giunge persino a permettersi di giudicare, restandone al di fuori, se chi soccorre quei disgraziati lo faccia in modo conveniente e corretto!

Nonostante la complessità della situazione, l’articolazione delle problematiche, la cattiva volontà e la rigidità di taluni tra i contendenti, la difficoltà obiettiva di appianare dispute datate anche diversi secoli, i soci di OMeGA sono convinti che siano preponderanti i fattori che uniscono rispetto a quelli che dividono e vogliono impegnarsi a fondo nel rinforzare l’esistente ed ancora esigua comunità mediterranea impegnata a far prevalere la ragione, corroborando lo sforzo di chi auspica la costituzione di forme federative o, quanto meno, di una comunità economica.

Grazie all’attività dei suoi due strumenti operativi (il periodico telematico “omeganews.info” ed il “Centro Studi Analisi e Produzione” denominato <L’Alpha e Omega>), OMeGA intende fare opera di sensibilizzazione in favore della promozione dell’idea fondamentale del “Mediterraneo-cerniera”, unendo le proprie forze a quelle di associazioni/formazioni/movimenti/organizzazioni che perseguano il medesimo obiettivo di avvicinare le coste opposte, facendo del “mare interno” una cerniera che unisce le sue sponde, abbandonando il vecchio stereotipo di barriera che divide i troppi mondi apparentemente diversi tra loro, avversari, incompatibili. Accoglierà tra le sue fila tutti coloro che avranno voglia di impegnarsi in questa impresa così intensamente da farne un ideale, una ragione di vita, il fine ultimo dell’esistenza dell’Associazione, del giornale e del Cento Studi e Analisi. Non saranno firme affermate e famose, che si concedono solo alle grandi testate, ma probabilmente studiosi più appassionati e più entusiasti.

Il contesto lavorativo di OMeGA

Ad una qualche forma di consociativismo i Paesi mediterranei dovranno prima o poi pervenire se vorranno evitare che potenze estranee al bacino vi vengano a loro piacimento e vi schierino tutte le navi da guerra che loro aggrada onde poter esercitare le pressioni politico-militari che riterranno necessarie ai propri interessi. Se vorranno, altresì, preservare le risorse residue, negoziare tra loro, e solo tra loro, la spartizione dello sfruttamento delle risorse della piattaforma continentale, regolamentare il traffico marittimo al suo interno, concertare regole ferree alla base dello stesso, disciplinare politiche comuni di ripopolamento del mare e di consumo moderato delle risorse ittiche con il definitivo allontanamento delle numerose ed agguerrite flotte pescherecce orientali che continuano a farne scempio. Disciplinare l’edificazione di tutte quelle infrastrutture la cui costruzione intensiva danneggia i Paesi del bacino o l’ecosistema marino, l’assetto idrico nei territori, come accaduto con il Canale di Suez, la diga di Aswan e le dighe lungo il corso dei maggiori fiumi dell’Est e del Sud. L’idea di Federazione è forse radicale e prematura, ma sufficientemente consistente per divenire un obiettivo.

Pil – Probabilmente un’utopia. Senz’altro un modello irrealizzabile, finché l’umanità sarà analizzata e catalogata secondo parametri che privilegiano lo sviluppo economico, le rendite fiscali, la produttività, lo sviluppo industriale, la ricchezza individuale e collettiva, il benessere, i consumi, la distribuzione globale, la salute intesa come eliminazione della sofferenza e non dei mali. Un’utopia finché prevarrà la considerazione di parametri quali p.i.l. pro capite e indice medio di sviluppo umano, indicatore complesso che tiene conto del reddito pro capite e di numerosi altri elementi che concorrono a determinare la qualità dell’esistenza, come la speranza di vita alla nascita, il quantitativo di calorie alimentari disponibili pro capite, il tasso di alfabetizzazione e quello di scolarizzazione della popolazione, l’accesso ai servizi sanitari, la disponibilità di acqua potabile e il grado di libertà politica. «Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria …e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana. Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari. Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di noi. Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta», come diceva solo qualche giorno fa, esattamente il 18 marzo 1968, quel bolscevico di Robert Kennedy.

Radici – Crediamo che si possa e si debba tendere alla standardizzazione di ciò che discende da esigenze tecniche, che si possa e si debba tendere all’ottimizzazione dei mercati e della distribuzione in favore degli utilizzatori, non dei venditori, che si debba favorire la diffusione delle manifestazioni in campo culturale delle differenti culture ed esigenze locali. Estendere processi di normalizzazione e di omogenizzazione a queste ultime sarebbe gravissimo errore. La conservazione di usi, costumi, riti, credenze, che talvolta risalgono a parecchi secoli o millenni addietro ha, secondo noi, grande importanza, in quanto le antiche forme di vita e cultura che siano ancora oggi perpetuate costituiscono un patrimonio di un significato e di un valore letteralmente “vitali”. Non abbiamo dubbi sul fatto che ciascuna Nazione si sia sviluppata e viva oggi secondo le tradizioni tramandate dai su citati usi, costumi e riti. E diversi contesti ambientali e meteorologici hanno favorito il perpetuarsi di differenti tradizioni e propensioni. Il recente sviluppo di scienze moderne quali la fisiologia molecolare, la biogeografia e la biologia evolutiva, supportato dai risultati della metodologia dell’archeologia linguistica, hanno consentito di comprendere l’influenza dei fattori ambientali sulla formazione dei caratteri dei singoli popoli e la loro suddivisione in cacciatori/raccoglitori e agricoltori; come i destini dei popoli siano stati così diversi a causa delle differenze ambientali, non biologiche, tra i popoli medesimi; come le moderne diversità tra i gruppi umani o Nazioni affondano le loro radici proprio nelle epoche preistoriche; come «i popoli del Nordeuropa non hanno avuto alcun ruolo nello sviluppo della società euroasiatica, se non nell’ultimo migliaio di anni; hanno solo avuto l’enorme fortuna di ricevere a tempo debito i doni delle civiltà meridionali (l’agricoltura, la ruota, la scrittura, la metallurgia)».[6] Per inciso, «Al principio del 1400 è la Cina a detenere il primato tecnologico. Ha inventato, tra le altre cose, la polvere da sparo e la bussola, la ghisa, la carta e la stampa. Prima un secolo prima che gli europei affrontino la navigazione oceanica, la Cina invia regolarmente fino alla costa orientale dell’Africa spedizioni che contavano fino a 28.000 uomini, imbarcati su flotte di centinaia di navi di dimensioni ben superiori alle caravelle di Colombo».[7] Ed ancora, come a popolazioni numerose e affollate sia corrisposto un livello più complesso e raffinato di civiltà «L’agricoltura permise alla società di mantenere non solo i tecnici, ma anche i politici. Le tribù nomadi di cacciatori raccoglitori sono in gran parte società di eguali, la cui azione politica si limita al controllo del proprio territorio e a mutevoli alleanze con le tribù circostanti. Le esigenze delle società agricole sedentarie e densamente popolate portarono ai re, alle caste, alla burocrazia, elemnti essenziali non solo per il governo ma anche per il mantenimento degli eserciti e per l’organizzazione di spedizioni di conquista».[8]

Tempo – Tornando al Mediterraneo, al suo interno è tramandato attraverso i millenni un unicum riscontrabile nelle comuni radici, nei medesimi percorsi, nello stesso modo di affrontare le componenti essenziali della vita. All’interno del bacino la grande attenzione allo scorrere del tempo ha sempre regolato la vita e le attività materiali, dello spirito e dell’intelletto. L’arcaico Annus, circolo, è il nome latino che sta per <anno> e simboleggia il serpente circolare che si morde la coda: l’anello del tempo, il moto ripetitivo del tempo. Seguendo un uso introdotto dai Babilonesi, diffuso dai Fenici e adottato dai Greci e dai Romani, il giorno viene diviso in quattro parti e poi, attraverso diverse riforme cumulate nei secoli, si arriva al calendario “gregoriano” oggi in uso per misurare il passare del tempo. La settimana babilonese fu adottata dall’impero romano sostituendo i nomi caldei dei mesi con quelli degli dei latini. Il Mediterraneo, poi, diede i natali o la spinta decisiva alla diffusione delle tre religioni monoteiste. Il Cristianesimo, in particolare, essendo anche una religione, ha dovuto conservare un comportamento mitico: il tempo liturgico, ossia la ripetizione periodica dell’illud tempus, del tempo degli inizi, pur sostituendo al tempo circolare quello lineare. Nel calendario liturgico, nelle 33-34 settimane al di fuori dei due cicli principali, pasquale e natalizio, si assiste ad una contrapposizione di date e feste astronomiche la cui valenza rimane pagana, ossia nella perpetuazione delle tradizioni popolari. Il periodo invernale, che dalle feste solstiziali conduce all’equinozio primaverile, è contrassegnato da feste e cerimonie di segno diverso, tutte di origine rigorosamente mediterranea o mediorientale; alcune orgiastiche, come il Carnevale e la Mezzaquaresima, altre purificatorie e penitenziali, come la Candelora, il mercoledì delle Ceneri e tutto il periodo quaresimale; altre, infine, che rievocano, come Sant’Antonio, antichi riti per propiziare gli dei preposti alla fecondità e alla fertilità. Ciclicità dei riti che rispecchia la ciclicità astronomica e la sua influenza sull’organismo umano!

Tradizioni – Le tre religioni, poi, soprattutto le due più giovani, esaltano la necessità di perseguire virtù, altruismo, tolleranza e fratellanza. Nella dottrina cristiana le quattro virtù cardinali sono la Prudenza, la Giustizia, la Fortezza, la Temperanza; quelle teologali Fede, Speranza e Carità. I pilastri dell’Islam sono la testimonianza di fede, le preghiere rituali giornaliere, l’elemosina canonica, il digiuno durante il mese di Ramadan ed il pellegrinaggio a La Mecca almeno una volta nella vita per tutti quelli che siano in grado di affrontarlo. «In tutte e tre le religioni vi furono senza dubbio dei letteralisti e dei fondamentalisti. La filosofia greca finì però per imporre dappertutto taluni quadri concettuali e la logica aristotelica taluni metodi di ragionamento. A Baghdad, nella Casa della Saggezza, Bayt al-Hikma, fondata dal Califfo Ma’mûn, si concentrò l’eredità filosofica e scientifica di Alessandria. Eruditi ebrei, cristiani e musulmani si incontravano per tradurre le opere greche. Relativamente al periodo tra il IV ed il X secolo, Abû Ḥayyȃn al-Tawḥîdî ci ha lasciato un’importante testimonianza a proposito di serate notturne, durante le quali, senza limite confessionale, le menti più elette della capitale del califfo discutevano, su un piano di eguaglianza, dei massimi problemi. In Spagna, a partire dalla stessa epoca e soprattutto nei secoli VI-XII, ebbero luogo scambi analoghi, anch’essi dovuti a una libera, e per questo estremamente feconda, circolazione delle idee. Basti ricordare i grandi nomi di Averroé e di Maimonide, la scuola dei traduttori di Toledo e l’influsso esercitato da tale intensa attività sul pensiero medievale latino»,[9] E, risalendo nel tempo, sono stati eroi dei grandi poemi mediterranei l’antieroe Ettore, un padre di famiglia valoroso, ma capace di avere dubbi e di sentire paura, ed un figlio devoto di nome Enea, ricco soprattutto di pietas.

Empowerment – Se qualcuno deve aiutare questi popoli, che dopo i secoli d’oro e di grande sviluppo del Califfato arabo (periodo durante il quale da ogni punto di vista, economico, sociale, culturale, quei paesi erano decisamente più progrediti di quelli dell’Europa), hanno visto il loro sviluppo prima rallentato dall’immobilismo ottomano ed infine dal colonialismo occidentale, posti al di fuori del ciclo di emancipazione sociale e industriale, questi non possono essere gli stessi ex colonizzatori e neppure i nuovi colonizzatori, quelli per cui sono da considerare solo destinatari delle politiche economiche dei Paesi più ricchi e fruitori del fatturato delle loro industrie. Sono, infatti, obiettivo dell’espansione e del consolidamento degli attuali flussi commerciali non tanto i 100 miliardi di dollari del reddito annuale delle 500 persone più ricche del mondo che nei loro consumi certamente non si fanno influenzare dalle mode del mercato globale. Lo sono piuttosto i circa 500 miliardi annui del 20% della popolazione mondiale, circa 1.280 milioni di persone, che vive con 1 dollaro al giorno, oppure i circa 1.800 miliardi di dollari annui di quel 40 % (2.560 milioni di persone) che vive con 2 dollari al giorno. Costoro, all’aumentare pur lieve del tenore di vita, saranno felici di poter acquistare quel genere tanto propagandato, che tutto il mondo consuma, che darà loro la sensazione tangibile di essere finalmente entrati in un mondo “migliore”.Possono giocare un ruolo fondamentale i paesi-cerniera, coloro che ne hanno condiviso per molto tempo la storia ed i valori e che, prima di loro, hanno avuto la chance di entrare nel mondo “evoluto”. Occorrono loro stimoli per l’avvio del processo di autodeterminazione e di veloce emancipazione in un contesto che non implichi il sacrificio del retaggio storico, culturale, antropologico. Lo sviluppo della capacità di autocoscienza dei gruppi e degli individui che, attraverso la presa di coscienza delle radici, possa innescare un autentico “processo di empowerment”, inteso come «il processo permanente per il quale un individuo, una popolazione, una comunità, un’impresa, una regione o un paese acquisiscono e assimilano la conoscenza, apprendono volontariamente come trasformarla per renderla coerente con le proprie aspirazioni, la propria identità, il proprio patrimonio naturale e culturale, la propria traiettoria storica e il proprio sviluppo, e sanno come trasmetterla liberamente anche a distanza ad individui e popolazioni che hanno in comune simili aspirazioni», (F. di Castri, Empowerment, Fondazione Marenostrum editore, 2005). Si ha motivo di ritenere che sia il processo più efficace tra quelli, pacifici, in grado di creare un meccanismo di sviluppo graduale e programmato, che sostenga la possibilità da parte dei più bisognosi o gruppi minoritari di aumentare la loro influenza sulla pianificazione delle proprie condizioni di vita e che permetta, tra l’altro, di innalzare il livello di istruzione e di sviluppo economico; che consenta di originare le condizioni ottimali per la creazione di posti di lavoro in quantità e qualità adeguate alle risorse umane presenti; la qualità dei servizi per la popolazione; la razionalizzazione urbanistica e insediativa; la legalità; il funzionamento dell’aspetto politico istituzionale, produttivo; il proliferare di nuove imprese nel segno della tradizione e delle peculiarità antropologiche; i servizi produttivi; lo stimolo e la valorizzazione delle vocazioni locali. L’approdo finale delle future ondate di empowerment delle masse arabo/musulmane, denominato semplicisticamente <primavera araba> avverrà nella secolarizzazione delle Istituzioni e della società civile di questi Paesi. Ma cercare di aiutare il processo dall’esterno, magari attaccando l’Islam ed i suoi tabù, è oggi da folli. E giustificare simili comportamenti non è da studiosi seri, obiettivi e imparziali, quali tendono a divenire gli appartenenti ad OMeGA. Questo ruolo non può essere svolto da Paesi differenti dai cosiddetti “pigs”, tra essi principalmente dall’Italia, un’Italia convinta di questo ruolo, che si sia dotata degli strumenti adatti e che abbia riguadagnato quella credibilità internazionale che le consenta di guidare le politiche europee nel settore della riabilitazione delle aree depresse del Mediterraneo e delle fasce attorno ad esse. I differenti percorsi storici ed una certa diversità caratteriale esclude da questo ruolo tutti i Paesi che non siano bagnati dal Mediterraneo.

Fondamentalismi – A tal proposito, si consideri, per esempio, il fenomeno “terrorismo” e “fondamentalismo”. Il terrorismo di matrice islamica, propria delle componenti “fondamentaliste” della complessa nebulosa musulmana, è una attività da condannare senza riserve. Se ci chiedessimo quale sia stata la sua origine, sarebbe molto difficile fornire risposte sicure o esaustive. Una delle poche certezze consiste nella paternità del termine “fondamentalismo“, nato nel 1920 negli Stati Uniti d’America, allorché i teologi cristiani conservatori, per contrastare l’affermarsi delle teorie evoluzioniste, promossero la pubblicazione di libricini che riaffermassero i principi fondamentali della dottrina cristiana; questi libri si chiamavano “The Fundamentals” e questo atteggiamento di tipo reazionario fu battezzato “fondamentalismo“, per la prima volta nella storia dell’umanità ad opera di settori appartenenti alla religione cristiana. La visione della componente “fondamentalista” del mondo cristiano è figlia dell’intransigenza calvinista e del radicalismo dei comportamenti e delle dottrine di area “mitteleuropea“. Ci riesce difficile concepire una simile visione della vita e dei dogmi in un mondo variegato e plastico, forse anche troppo, forse troppo incline al compromesso, come quello mediterraneo.

Statistiche – Riteniamo, per quanto sopra detto, che siano da rigettare drasticamente conclusioni (di fonte Nazioni Unite) del tipo «la popolazione norvegese è oltre 40 volte più sana di quella del Niger. I Norvegesi vivono una vita lunga quasi il doppio e godono di un tasso di scolarità pressoché totale a livello primario, secondario e terziario, in raffronto al tasso di scolarità del 21 per cento del Niger», ovvero «il 20 per cento più povero della popolazione mondiale, che corrisponde pressappoco al numero di quelli che vivono con meno di 1 dollaro al giorno, percepisce l’1,5 per cento del reddito mondiale», oppure «il 40 per cento più povero, che corrisponde alla linea di povertà di 2 dollari al giorno, percepisce il 5 per cento del reddito mondiale». E non perché non siano veritiere, o autorevoli, o lo specchio di una drammatica realtà cui si cerca invano di porre rimedio. Ma, essenzialmente, per la convinzione del grosso limite insito in questo tipo di statistiche, aride se non rapportate al posizionamento della soglia del bisogno e alla sua definizione esistenziale, alla precisazione del concetto di cultura, all’intensità del sentire e della vita vissuta piuttosto che della sua durata, alla soglia del dolore e della sofferenza. La qualità dell’esistenza dev’essere contestualizzata e non può mai essere ricondotta a numeri e statistiche. A questi popoli del pil del loro Paese, che arricchisce – eventualmente – solo i loro governanti corrotti, non può interessare un bel nulla. Hanno solo bisogno di ritrovarsi nell’eredità spirituale dei propri avi, vogliono avere la possibilità di tramandare a loro volta le medesime tradizioni, il modo di fare, di nutrirsi di interfacciarsi con l’umanità circostante. Non esistono tradizioni buone e tradizioni cattive, ma solo chi ne ha rispetto e chi no, chi vi rinuncia in nome del dio benessere e chi per esse sarebbe disposto ad indossare l’abito dell’integralista. Generalmente queste persone hanno capacità di resistenza alla miseria molto forte, hanno altrettanto forte la necessità di identificarsi nelle proprie tradizioni, non in quelle degli altri. Non è neppure lontanamente immaginabile il grosso sacrificio che compiono quando indossano i panni dei migranti, lontani dalla loro terra, dai propri cari, irriconoscibili nella folla di persone così superficiali da credere che sono venuti a usurpare le loro case e la loro ricchezza. E poi, i diversi livelli di soglia possono far si che sia maggiormente appagato chi ha meno, se l’avere si associa ad un certo essere.

I Paesi della riva Nord sono saliti sul carrozzone dell’Europa, soffrendo parecchio, fornendo un decisivo contributo di vivacità e fantasia e ricevendone sicurezza economica e spinta verso la normalizzazione dell’organizzazione interna: economica, politica, un giorno forse anche sociale. Quelli della riva Sud hanno ormai assorbito l’urto della mondializzazione e hanno preso una forte rincorsa verso la liberalizzazione reale delle rispettive economie.

Al Nord, sotto l’impulso dello sviluppo industriale, si è radicata la società del benessere, al Sud l’estrazione delle materie prime e dell’energia necessarie ai dirimpettai per aumentare sempre più il loro benessere. Una complementarietà che avrebbe dovuto sostenere i processi di integrazione regionale. Nel Sud convive anche un forte senso di resistenza contro i guasti della mondializzazione estesa, e, più precisamente, il rifiuto di sacrificare i valori tradizionali, la società patriarcale e l’ordine sociale costruito e consolidato in tanti secoli sull’altare dei nuovi idoli: profitto, ricchezze, potere, governance sopranazionale, reiterata interferenza nei fatti interni dei singoli Paesi da parte di chi ha il potere (economico e militare) per poterlo fare. In questo contesto è fondamentale il ruolo dell’Islam, e sembra essere sul punto di assumere simili e convergenti atteggiamenti anche il Governo della Chiesa di Roma, sempre più insofferente nei confronti dei progressi scientifici, delle derive etiche discendenti dall’abbandono dei modelli organizzativi tradizionali e delle modifiche nella considerazione dell’essere umano, del suo ruolo e del suo comportamento. Appare molto significativo in questo contesto il ripristino della liturgia in latino operato da Benedetto XVI.

Il discorso energetico consente di richiamare e sottolineare ulteriormente il problema delle rotte degli idrocarburi e dei danni ecologici che esse alimentano.

Obiettivi

E’ questo il palcoscenico sul quale OMeGA, Omeganews.info e Alfa&Omega intendono salire e recitare la loro parte. A questo scenario ed obiettivo finale dedicheranno la loro attività facendo della Federazione mediterranea il loro obiettivo finale e supremo.

E, oltre gli articoli, gli studi e le analisi, OMeGA intende promuovere l’organizzazione di eventi che facciano riaffiorare i motivi dello stare insieme, le comuni radici antropologiche e culturali, i tratti di strada percorsi congiuntamente, le tante affinità essenziali e dell’approccio verso il vivere quotidiano, i medesimi motivi di disperazione, ma anche lo stesso modo ottimistico di immaginare il futuro.

E’ noto che la cultura s’incanala nei solchi dell’economia, del commercio. Ma le trasformazioni culturali affrettate e non metabolizzate con la dovuta gradualità, inserite in un quadro anch’esso in complessiva evoluzione, sono potenzialmente generatrici di disgregazione delle culture tradizionali. Se si considera, oltre a ciò, l’irrilevanza a livello internazionale della cultura originaria della regione,[10] si avrà una chiara percezione del perché le regioni maggiormente tradizionaliste, quali quella mediterranea e mediorientale, facciano fatica ad accettarla passivamente, preferendo affidare la loro resistenza anche a forme estreme e radicali, ingiustificate, più pretestuose di quanto siano realmente sentite. E’ convinzione di chi scrive che il progressivo recupero delle radici culturali, da cui discendono abitudini e stili di vita ancora radicati nella gente, ma scollegati dal quadro antropologico che le ha generate, potrebbe contribuire al recupero identitario delle popolazioni mediterranee, favorendo il consolidamento delle prerogative nazionali e al contempo il riconoscimento delle minoranze. Condizione, queste, per un generalizzato processo di pacificazione tra le rappresentanze di punta delle diverse etnie e dei differenti orientamenti politici. Fare leva sull’attaccamento alla tradizione è, di solito, uno dei più efficaci strumenti di rinsaldamento delle collettività: l’archeologia, la musica, lo sport sono tra gli strumenti più efficaci.

Il fine ultimo indiretto dell’attività di tipo culturale che l’Osservatorio intende perseguire è quello di creare nei propri lettori la coscienza della reciproca convenienza delle due sponde del Mediterraneo di sviluppare politiche federative in un quadro di emancipazione sociale ed economica dei Paesi rimasti indietro.

Queste considerazioni non possono che sostenere fortemente la necessità di strategie alternative per la pacificazione e la progressiva unione dei Paesi del Mediterraneo. La via della cultura sarà capace di tanto? Saprà fare ciò che la politica, l’economia, la diplomazia e le armi non sono stati capace di produrre?

E’ quello che vedremo, è la scommessa di OMeGA!

Enrico La Rosa

Con la collaborazione di Alberto Osti Guerrazzi


[1] Umberto Eco, Introduzione al Medioevo, in “Il Medioevo” opera in 12 volumi di Federico Motta editore, Milano, 2009, per il Gruppo editoriale L’Espresso S.p.A., Introduzione, pag. 21

[2] HERM G., L’avventura dei Fenici, Garzanti, Milano, 1997, p. 41, 63, 88-97.

[3] BRAUDEL F. (a cura di), AA. VV., Il Mediterraneo, Bompiani, Milano, 1996, p. 67

[4] IBIDEM, p. 228.

[5] FROMKIN D., Una pace senza pace, Rizzoli, Milano, 1992, p. 638-639.

[6] Jared Diamond, “Armi, acciaio e malattie”, 1998,Einaudi, Torno, p. 10

[7] IBIDEM, p. X-XI

[8] IBIDEM, p. 17

[9] Roger Arnaldez, Un solo Dio, ne “Il Mediterraneo” di Fernand Braudell, Milano, Bompiani, 1987, pp. 114-118

[10] Il dominio statunitense nell’industria culturale è inattaccabile e gli USA controllano oltre il 40% del mercato audiovisivo mondiale, che garantisce grandi profitti e contribuisce all’affermazione della cultura e dell’identità americana nel mondo.

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