Ercolano e Napoli: le attività di pesca in due centri del Mediterraneo romano

Attività di pesca
La pesca e la caccia sono state tra le prime attività umane. La facilità di procacciarsi il cibo tendendo agguati alla fauna acquatica e terrestre, ci lascia immaginare quanto la caccia e la pesca fossero fondamentali per gli uomini preistorici. Certamente anteriore all’agricoltura, la pesca forniva anche materiale resistente per la costruzione di utensili da impiegare quotidianamente: lische di pesci e valve di molluschi, dopo il consumo delle parti commestibili, erano recuperate ed adattate a svariate funzioni.

L’amo, già usato in tempi remoti, consisteva in una scheggia di osso appuntita all’estremità e legata ad una corda; l’arpione era utilizzato per i pesci e i molluschi di grosse dimensioni, aveva la punta foggiata a denti ricurvi in modo da impedire al pesce colpito di liberarsi nonostante i suoi disperati sforzi; l’utilizzo delle reti, fatte con cordicelle di lino alle quali si legavano cortecce di albero che fungevano da galleggianti e pietre per tenerle verso il basso, garantivano un tipo di pesca più vantaggiosa per la quantità e la varietà dei pescato. All’inizio, quindi, gli attrezzi per praticare le attività di pesca erano rudimentali e poco pratici, soltanto nel corso dei millenni vennero perfezionati per fornire migliori prestazioni ed aumentare la quantità di pesci, molluschi e crostacei pescati.

Anche le prime imbarcazioni, utilizzate sia per la pesca che come mezzo di trasporto, mostravano molti limiti: pesanti, insicure e poco adattabili al movimento continuo e veloce delle acque. Non si hanno sufficienti conoscenze riguardanti i primordiali mezzi di navigazione ma dai confronti fatti tra alcuni rinvenimenti sporadici di imbarcazioni preistoriche e le imbarcazioni di tribù selvagge ancora esistenti, si può dedurre che i primi mezzi di locomozione acquatica erano costituiti da tronchi d’albero legati insieme a mo’ di zattera e che, laddove mancavano gli alberi, venivano adoperati fasci di giunco, papiro e pelli d’animali cucite fra di loro, calafate o riempite d’aria.

La pesca sino ai primi anni del XX secolo si praticava con l’utilizzo di imbarcazioni a vela o a remi. Si comprende la fatica fisica di tale attività, i rischi che si correvano, l’aleatorietà del lavoro in funzione delle condizioni meteorologiche e dei venti. Con l’introduzione dei motori sui pescherecci, le attività di pesca sono state facilitate: è stata eliminata la dipendenza dai capricci del vento, nel caso dei pescherecci a vela, e l’enorme fatica degli equipaggi, nel caso dei pescherecci a remi. Inoltre, si è ottenuto un tiro a velocità costante ed è stato possibile l’uso di divergenti per garantire l’apertura orizzontale delle reti a strascico, abbandonando la pesca a strascico a coppia, fatta con due pescherecci in movimento e a distanza, per garantire l’apertura orizzontale della rete. L’installazione di motori sempre più potenti ha permesso di aumentare le dimensioni delle reti, la velocità di pesca e la capacità di cattura.

 

Pesca ed imbarcazioni romane

Nel mondo romano, come in quello greco, gli inizi della pesca furono modesti, i pesci, i molluschi ed i crostacei costituirono per molto tempo un cibo poco raffinato. Il lusso ellenistico, penetrato poco a poco in Roma, vi portò anche il gusto della “pesca rara”. Somme favolose si spendevano per imbandire rarità ittiche e si moltiplicarono col tempo le piscine di acqua dolce e di acqua marina costruite grazie a notevoli capitali. Su alcune spiagge del Mediterraneo, soprattutto in Italia, Francia, Spagna e Portogallo, sono ancora ben visibili numerose rovine di piscine e di stabilimenti di salagione che testimoniano l’importanza della pesca nel settore economico antico.

La maggior parte delle imbarcazioni da pesca, venute alla luce, erano interrate mentre sono stati rari i rinvenimenti subacquei, infatti, è improbabile, se non in condizioni di giacitura particolare, che le imbarcazioni possano conservarsi in assenza del carico, costituito generalmente da anfore che, normalmente, nelle navi mercantili ricopre gli scafi proteggendoli dalla disgregazione effettuata dagli agenti marini. In diverse aree mediterranee sono state rinvenute imbarcazioni da pesca romane di differente dimensione e forma. A Corte Cavanella, in una zona fluviale, fu portata alla luce una imbarcazione lunga circa m 7 e larga circa m 2 a fondo piatto. Due piccole imbarcazioni sono state rinvenute a Tolone, con la poppa tronca e dotata di una piccola piattaforma per consentire al pescatore di agire rimanendo in piedi su di essa. Una barca di circa m 8 di lunghezza e m 2 di larghezza è stata recuperata nel lago Kinneret in Israele. E’ molto interessante il rinvenimento della barca di piccole dimensioni avvenuto a Fiumicino, nell’area occupata dall’antico porto di Claudio. Nella parte centrale dell’imbarcazione vi era una vasca per il trasporto del pesce vivo che poteva essere venduto nei mercati oppure immesso nei vivai. Anche se questo tipo di imbarcazione, provvista di una struttura per il trasporto di specie acquatiche, sinora è una testimonianza unica, nel mondo romano, invece, erano diffuse e di grandi dimensioni poiché dovevano consentire il trasporto e la buona conservazione di una merce rapidamente deperibile. Le imbarcazioni da pesca rinvenute a Corte Cavanella, a Tolone, nel lago di Kinneret ed a Fiumicino, senz’altro di notevole interesse, sono tutte riconducibili al primo periodo imperiale. Le dimensioni delle singole barche non erano eccessive e, probabilmente, l’equipaggio era costituito da poche unità con mansioni diverse anche se ogni singolo pescatore poteva sostituire, in caso di necessità, l’operato del compagno di bordo.

 

Ercolano

Secondo la leggenda raccolta da Dionigi di Alicarnasso, Ercolano sarebbe stata fondata da Ercole al ritorno dal suo favoloso viaggio in Iberia. L’antica Ercolano, che Strabone definisce “fortezza”, era il primo centro importante a sud di Napoli. Posta su un promontorio che si protraeva verso il mare, la cittadina era battuta dal libeccio che rendeva l’aria salubre. Località costiera, situata sulla via litoranea che la collegava a Napoli, Pompei, Stabia, Nocera e Sorrento, Ercolano era una cittadina tranquilla, dedita soprattutto alla marineria ed alla pesca. Infatti, nel corso degli scavi sono venuti alla luce una grande quantità di utensili ed imbarcazioni per la pesca. Ercolano fu distrutta e sepolta dalla terribile eruzione del Vesuvio dell’agosto del 79 d.C. Fu un’immane catastrofe, oltre ad Ercolano, anche Pompei ebbe la stessa sventura. Dopo 17 secoli iniziarono i lavori di scavo, prima ad Ercolano e poi a Pompei, per recuperare le più importanti testimonianze, non solo del mondo romano, ma di tutto il mondo antico.

La barca utilizzata per la pesca, rinvenuta negli scavi di Ercolano agli inizi degli anni ’80 dello scorso secolo e riconducibile ai primi anni dell’Impero, è certamente di estremo interesse archeologico. L’imbarcazione, posizionata in modo capovolto, venne alla luce nella zona delle Terme Suburbane in prossimità dell’antica spiaggia di Ercolano insieme agli scheletri di centinaia di esseri umani che tentarono la via del mare per sfuggire alla furia dell’eruzione del Vesuvio. Era stata sepolta dai flussi piroclastici rimanendo sigillata nella coltre di materiali vulcanici che si indurì rapidamente garantendo, con la mancanza di ossigeno, la conservazione del legno. Simile ad un grosso gozzo marinaro moderno, la barca è lunga circa m 9, ha una larghezza massima di circa m 2 e un’altezza massima di circa m 1 dalla chiglia al bordo. I movimenti della barca avvenivano grazie a tre coppie di remi posizionati in tre scalmi per lato e da un timone esterno a remo bloccato all’imbarcazione da una cima, rinvenuta durante lo scavo. Lo scafo esterno è formato da tavole dello spessore di circa cm 3, collegate fra loro da incassi con il sistema di mortase e tenoni, uniti poi al fasciame con cavicchi di legno. Sempre con cavicchi è realizzata la giunzione con le ordinate, ulteriormente rinforzata con chiodi a testa bombata. I lavori di restauro realizzati all’interno della barca hanno poi mostrato che le ordinate non erano a vista ma nascoste da un rivestimento di tavole di legno. Lo scafo si presentava perciò a doppio fasciame. Una serie di prelievi di campioni di legno, fatti in varie parti della barca durante i lavori di restauro, hanno permesso di individuare le essenze utilizzate per la costruzione, si trattava di pino, ontano, faggio e probabilmente quercia.

Lo straordinario stato di conservazione dei legni dell’antica Ercolano, dovuto al particolare tipo di seppellimento vulcanico subito dalla città, ha permesso la conservazione di tutta una serie di reperti organici. Il complesso termale, fuori uso al momento dell’eruzione, era adibito ad ambiente per il rimessaggio di barche e il deposito di attrezzature legate alle attività marinare. Inoltre, i resti di una piccola barca e parti di altre barche, già smontate, rivelano un’attività di manutenzione. Nella stessa struttura sono stati rinvenuti un dritto di prora a forma di testa di serpente dipinto in rosso, un timone a forma di remo, sei remi e un accumulo di fasciame pronto per l’utilizzo.

Come già accennato prima, importanti rinvenimenti fatti nel corso degli scavi di Ercolano attestano che nell’antica cittadina romana la pesca era un’attività determinate per il sostentamento e l’economia della popolazione. Nel corso dei lavori, infatti, rimosso il materiale vulcanico, sono venuti alla luce: un argano verticale con ben conservati gli incassi per le assi di manovra e le ali verticali per la raccolta della corda, un rotolo di corda con poggiati numerosi strati di cuoio, una rete da pesca, un accumulo di pesi in piombo da adoperare per le reti e tanti ami. Inoltre, un cestino di vimini chiuso da un coperchio, ha rivelato all’esame radiografico la presenza di un lungo cordino al quale sono collegati degli ami: si tratta del più antico palamito o coffa, un attrezzo ancora oggi utilizzato dai pescatori.

 

Napoli

Grazie al rinvenimento, spesso casuale, di barche da pesca romane, si acquisiscono maggiori informazioni riguardanti la loro struttura, le tecniche di pesca e i territori marini dove esse erano impiegate. Nel corso dei lavori per la costruzione della “linea 1” della metropolitana di Napoli sono venuti alla luce, al di sotto di piazza Municipio, a circa 13 metri di profondità, i resti un’antica area portuale. I lavori di scavo hanno individuato i diversi fondali sabbiosi di un bacino utilizzato come scalo-approdo dalla fine del IV-inizi III secolo a.C. agli inizi del V secolo d.C.

Il rinvenimento di tre relitti di antiche navi romane, un molo e diversi pontili, insieme ad una grande quantità di reperti sparsi sugli antichi fondali, hanno consentito di ricostruire la vita quotidiana di un’area del porto della Napoli antica. Una delle tre imbarcazioni, nota attraverso le fonti iconografiche grazie ad un mosaico venuto alla luce ad Althiburus in Tunisia, è simile ad altre due rinvenute nel porto di Tolone, in Francia. L’imbarcazione, utilizzata per la pesca e per il trasporto di merci all’interno del porto, presenta il fondo piatto, la prua affinata e la poppa chiusa da una tavola verticale, è lunga circa m 13, larga circa m 4 e profonda circa m 9. Le altre due, invece, dette onerariae, erano utilizzate per il commercio marittimo. Il numero delle imbarcazioni da pesca che entravano ed uscivano dal porto della Napoli romana era certamente cospicuo per l’importanza che avevano i pesci, i molluschi ed i crostacei nell’economia del luogo e nell’alimentazione degli abitanti.

Si pescava prima del sorgere del sole poiché si riteneva che la luce esigua dell’alba abbassasse le capacità visive dei pesci anche se nelle notti chiare essi riuscivano a vedere normalmente. All’esercizio notturno della pesca potrebbe essere ricondotta un tipo di anfora, giunta sino a noi ed utilizzata nel buio: pressoché sferica, tagliata all’incirca al centro e privata di metà della pancia in modo da rimanere totalmente aperta da un lato. E’ stato proposto di riconoscere in essa una custodia antivento per una fiamma attiva al suo interno; se così fosse, si potrebbe anche pensare ad un’utilizzazione per particolari modalità di pesca, una sorta di lampare del cui impiego vi sono testimonianze letterarie ed iconografiche.

Le tre imbarcazioni venute alla luce rivestono una rilevante importanza poiché, come scrisse Emanuele Greco in un articolo di aggiornamento per l’Enciclopedia dell’Arte Antica, Napoli è una delle meno conosciute grandi città del mondo ellenico. Infatti, sino ad epoca recente, sono stati scarsi i ritrovamenti, le immagini e gli oggetti provenienti da quell’antico contesto. Napoli, come altre colonie greche, si estendeva come un grande rettangolo parallelo alla linea della costa. Il segno più evidente della Napoli greca è l’impianto urbanistico, perfettamente ortogonale, con le sue strade tracciate sul pendio tufaceo leggermente degradante verso il mare, delimitato a settentrione dall’asse di via Forìa e ad est dalla zona di Forcella.

Secondo la tradizione letteraria antica, alla fine del IX o agli inizi dell’VIII secolo a.C. dei navigatori di Rodi fondarono una colonia commerciale sulla collina di Pizzofalcone e sull’isolotto di Megaride, l’odierno area occupata dal Castel dell’Ovo. Intorno alla metà del VII secolo a.C., quell’iniziale punto di appoggio fu trasformato dai greci di Cuma, durante la loro espansione in Campania, in un vero e proprio centro abitato denominato Partenope. L’esistenza e l’origine di Partenope è stata confermata dal ritrovamento di una necropoli in via Nicotera che consente di collocare la vita di questo primo centro tra il 650 ed il 550 a.C., periodo dell’espansione cumana verso il golfo di Napoli, che fu per lungo tempo denominato “golfo di Cuma”.

 

Michele Di Gerio(*), Iolanda Marchione (**)

 

 

(*)

Michele Di Gerio è laureato in Medicina Veterinaria e in Conservazione dei Beni Culturali. Ha condotto ricerche di Zooarcheologia e Archeologia su reperti rinvenuti negli scavi di Pompei pubblicando i suoi lavori su importanti riviste scientifiche e facendone argomenti per lezioni universitarie alla facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università ‘Federico II’ di Napoli.

 

(**)

Iolanda Marchione è laureata in Conservazione dei Beni Culturali. Ha esperienze di scavo archeologico a Pompei con l’Università ‘Suor Orsola Benincasa’ di Napoli ed è impegnata in ricerche sulla pittura romana riguardante la faunistica acquatica.

 

1 Novembre 2013 – Complimenti per l’articolo ai due ricercatori napoletani; è interessantissimo e viene posto con grande chiarezza e nel contempo profondità di trattazione.

Francesco Landolfi

 

2 novembre 2013 – Desidero esprimere il mio compiacimento, avendo trovato l’articolo particolarmente interessante.

Nicola De Natale