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“Vico dei miracoli. Vita oscura tormentata del più grande pensatore italiano”, di Marcello Veneziani
Verum et factum convertuntur
di Lavinio Gualdesi
Quasi un destino avverso, una “damnatio memoriae” quella di Giovanbattista Vico.
Ignorato o addirittura vituperato dai suoi contemporanei e sepolto nell’oblio dei secoli.
Anche nei Licei di oggi (così mi dicono): un rapido e superficiale accenno alla Teoria dei Corsi e Ricorsi Storici e il grande filosofo napoletano è bello che spiegato. Non dovunque però. Nel mio Liceo romano veniva giustamente onorato confrontando la sua luminosa posizione con quella dei suoi successori ogni volta che valesse la pena di mostrare le sue meravigliose intuizioni.
Il fatto è che via via che si sale nella piramide della intuizione filosofica, la base si fa sempre più stretta. I mezzi di comunicazione odierni hanno allargato la base della quantità, ma commercialmente non hanno alcun interesse ad evidenziare il vertice della qualità, dove solo in pochi sono in grado, vuoi per studi specifici, vuoi per curiosità tematica, di apprezzare le sottili e quasi impalpabili sintesi delle “degnità” vichiane.
Ne deduco che Marcello Veneziani, autore di questa moderna cronaca della “vita oscura e tormentata del più grande pensatore italiano”, dopo essersi occupato di un altro genio largamente incompreso dai più, Plotino, si sia emozionato nel riuscire a vivere con una straordinaria empatia, peraltro molto ben circostanziata nel libro, la frustrazione di questo scienziato settecentesco nel veder calpestate le sue intuizioni.
E quindi come fare per trasmettere alla base larga della piramide il prezioso messaggio senza incappare di nuovo nell’indifferenza e nella superficialità dei “like”, che non è meno perversa dei detrattori dell’epoca?
E allora ecco che l’Autore ha un’idea che gli viene probabilmente dallo stesso approccio all’“humanitas” vichiana che descrive con queste frasi rivelatorie: – Nella sua ricerca c’è lo sforzo di connettere cose lontanissime, trovare nessi tra elementi diversi e remoti. Ma qui sta l’intelligenza, anzi il genio: nel trovare relazioni che gli altri nemmeno sospettano. E che molti non avrebbero capito.
E allora l’impalcatura del libro è composta da una minuziosa analisi del suo stato d’animo nel percorrere una vita piena di insuccessi, di umiliazioni, di stenti, ma anche di composta e dignitosa solitudine, gratificata dalla purezza adamantina dei suoi pensieri.
Ora che l’edificio è completo e la piramide somiglia al Maschio Angioino, viene lasciato al lettore il compito di usare il crogiolo per una analisi alchemica che deve setacciare l’oro della conoscenza vichiana in mezzo ai minuziosissimi dettagli della sua tormentata vita napoletana.
Napoletana al punto, che l’Autore dedica un intero capitolo alla napoletanità del Vico. Dimostra con dovizia di immagini ed esempi che questo frutto della cultura mediterranea non sarebbe potuto nascere e svilupparsi altrove che li.
Tutto il racconto è punteggiato da espressioni, anche colorite del ricco vernacolo partenopeo, che ricordano l’arguzia di De Crescenzo, ma che ci immergono nel cuore di una Napoli settecentesca che doveva caratterizzare il modo di vivere che si è poi propagato fino a noi. Inclusi, cibo, giuoco, superstizioni, arte di arrangiarsi, stile di vita nobiliare e popolare.
Ne esce fuori una descrizione accuratissima di costume, di contesto storico, di cultura dell’epoca, delle polemiche tra eruditi, delle condizioni di vita miserrime e dei fasti delle corti.
Vico non si fa mancare nulla. Pur di dimostrare la sua maestria passava dalle aperte polemiche con Cartesio alle disquisizioni sulla “missione del dotto”, per concludere con il tessere lodi od ossequi funebri ai potenti. Sembra dire: “agge a penzà pur’ a famigghia”.
Un saggio storico o filosofico paludato avrebbe corredato con note e con bibliografia ragionata tutta la cospicua opera vichiana, ma l’Autore preferisce inserire i riferimenti alle opere, tutte rigorosamente citate, dentro la narrazione della sua vita. Così risulta più semplice e spontaneo capirne non solo il contenuto, ma anche la genesi e gli effetti che hanno avuto sul pubblico dell’epoca e soprattutto per noi. E purtroppo anche le disillusioni del genio incompreso.
Che significa per noi Vico oggi? Come un matematico direbbe che le dinamiche geopolitiche fanno sì che i fatti della storia si ripetano secondo una spirale che ha come passo il numero aureo del segmento, cioè una sua legge intrinseca, che è propria di come funziona il mondo con le sue leggi imprescindibili, così un politico direbbe che i rapporti di forza tra i popoli non sono governati solo da una continua altalena tra guerra e diplomazia, ma dalla Storia Ideale ed Eterna: quella che affonda le sue radici nel pensiero dei grandi filosofi del passato. E qui l’Autore seleziona dalle Orazioni: ”Conosci te stesso, scolpito nel Tempio di Apollo a Delfi, e considerando il potere divino della memoria e delle facoltà di vedere, sentire, inventare, connettere, dedurre, giudicare, arriva a concludere che tutti siete dei, innalzati al cielo dagli antichi, siete voi, che avete serbato in quelle facoltà il seme divino”. Ma subito dopo condanna il tiranno che nella sua tracotanza si sostituisce a Dio: insomma il: “Sarete come Dio” del serpente biblico.
Che direbbe Vico dell’intelligenza artificiale? Veneziani non affronta l’argomento, ma tratta indirettamente il tema in una diffusa descrizione dell’opera: “De nostri temporis studiorum ratione”. Occorre premettere che impiegare un macchinario per scegliere tra tutto lo scibile dei dati di fatto, opportuni e pertinenti, per utilizzarli attraverso formule matematiche per l’ottenimento di azioni e risultati desiderati non è certo la novità del secolo. Ora che la base della piramide è divenuta di dimensioni planetarie, il rischio che il serpente biblico si impadronisca del vertice per “regolamentare” tutto quello che c’è sotto, con un algoritmo studiato per massimizzare i suoi profitti a danno della base, è passato dal campo della fantascienza a quello del possibile.
E Marcello Veneziani dice testualmente: – Vico ritiene che la verità sia inaccessibile nella sua pienezza agli uomini, appartiene solo a dio. Di conseguenza, oltre il vero, verso cui tendiamo con tutta la mente e l’anima, dobbiamo basarci sul senso comune, che si fonda sul verosimile. E il verosimile, perlopiù, propende per il vero, di rado è falso. Ma rimane comunque un gradino intermedio. “La verità è unica, il verosimile è molteplice, il falso infinito”. Vico rivaluta la validità dei pre-giudizi, come regola di prudenza del sentire comune: sono necessari per vivere e per riconoscere un comune orizzonte. Il male dice Vico, non sono i pregiudizi, semmai gli affetti che li accompagnano e mascherano la realtà. –
Ecco dunque affermato il paradigma che solo lo studio approfondito permette di evitare un pessimo uso di potenti mezzi.
E ancora l’Autore: – Per lui il nuovo non è superiore all’antico: rifiuta la logica progressiva di ritenere ciò che è moderno più maturo ed avanzato di ciò che lo precede. Vico riteneva che tra antichi e moderni la partita finisca con un pareggio, perché̀ l’uomo ha delle imperfezioni congenite al suo modo di agire. Se l’algoritmo dell’intelligenza artificiale prevede una derivata positiva del nuovo sull’antico, sbaglia. Come pure va in errore se utilizza la funzione integrale con una sorta di accumulazione quantitativa nel corso della storia. Immaginando di ingabbiare la storia in una banca dati. -Il mondo cambia, ma non in meglio o in peggio, semmai in entrambi i sensi – dice ancora Veneziani.
Non ho la pretesa di aver colto ed evidenziato tutti i “miracoli” presenti dentro la ricchissima narrazione dell’Autore, ma nel corso della mia vita mi sono trovato a sviluppare modelli esperti di ingegneria, partendo dalle leggi della fisica e dalle leggi degli uomini, attraverso l’analisi di dati, scelti accuratamente tra quelli pertinenti. Quindi attraverso l’osservazione di come durante la sperimentazione si calavano nella realtà dei fatti, fornendo risposte sul significato dei fenomeni naturali, mi veniva di concludere il mio studio con la celebre frase vichiana: “verum et factum convertuntur”.
Quasi sempre le ipotesi filosofiche o le leggi della natura finiscono per essere efficacemente coniugate con gli accadimenti della vita reale.
“Scire per causas” sosteneva il grande filosofo. Solo se sei in grado di padroneggiare un evento puoi dire di conoscerlo veramente. Ecco perché̀ studiava tanto.
Infine, nell’ultima pagina, l’Autore inserisce una chicca: una dedica al padre Giovanni, omonimo di Vico: “Ai due Giovanni , alla loro semina, grato”.
E noi siamo grati a Marcello Veneziani per aver rimesso Vico, dopo secoli, sul trono che merita.
Lavinio Gualdesi