di Nicola Lofoco
Che la Libia non sia più una Nazione unita, ma un ciclopico campo di battaglia è, ormai, un fatto ben noto a tutti. Dopo la fine del regime di Muhammar Gheddafi, i libici non hanno ancora riassaporato il gusto fragrante della pace e della serenità, intrappolati, cosi come sono da oltre 6 anni, nella morsa di un’infernale guerra. Da una parte vi è Fayez al Serraj, riconosciuto come legittimo presidente della Libia solo da una parte della Comunità internazionale (Italia in testa), a capo del cosiddetto “governo di Tripoli”, dall’ altra vi è invece il generale Khalifa Haftar, l’uomo forte di Tobruk, spalleggiato da Arabia Saudita, Emirati Arabi, Egitto, Russia e, anche se non ufficialmente, dalla Francia di Emmanuel Macron. Come se non bastasse, bisogna anche fare i conti sia con l’Isis, che si sta riorganizzando nella zona sud, quanto con le varie milizie di pura caratura banditesca che gestiscono, in maniera del tutto criminale, il traffico di esseri umani a ridosso delle zone costiere. Secondo le statistiche del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, ad essere coinvolti in questo terribile racket sono persone che provengono, nella maggioranza dei casi, dal Ciad e dal Sudan, le quali vengono quasi sempre sottoposte a sevizie e torture di ogni tipo. L’agognata e decantata “democrazia”, che in molti avevano evocato dopo la divulgazione delle orrende immagini del trucidamento di Gheddafi, resta ancora uno sbiadito miraggio per tutta la Libia. In questo dedalo di instabilità ed incertezza, dati anche gli enormi interessi a livello internazionale che permangono sui futuri assetti politici di una nazione gonfia di petrolio, vi è ora da porsi una seria domanda: esiste davvero la possibilità che la Libia possa disgregarsi? Il suolo libico è sempre stato composto da unità territoriali molto diverse e poco omogenee tra loro, vale a dire Tripolitania, Cirenaica e Fezzan. Oltre a questo, vi sono sempre state, e vi sono ancora oggi, antiche e feroci rivalità tra le varie tribù, distribuite su tutto il territorio, come quelle che intercorrono tra le fazioni berbere ed arabe. Si tratta di una storica contrapposizione, di carattere socioculturale, destinata a durare, quasi certamente, ancora per molto tempo. Tenendo anche conto che sin dai tempi della defenestrazione del vecchio re Idris ad opera del colpo di stato degli “Ufficiali Liberi” del 1969, la Libia è rimasta una nazione con pesanti problemi di coesione territoriale (tenuta in piedi per decenni solo dalla dittatura di Gheddafi), il pericolo di una sua ampia frantumazione resta molto alto. Già nel 2015, le voci su una possibile spartizione della Libia, decisa a tavolino tra gli Usa, la Russia, la Francia e l’Italia, serpeggiava in maniera abbastanza insistente sulle pagine di cronaca internazionale. Si tratta di un’opzione che rimane sul tavolo, soprattutto dopo il fallimento delle “trattative di Palermo”, risalenti allo lo scorso 12 novembre 2018, organizzate dal governo italiano, dove si sono incontrati Al Serraj ed Haftar, alla presenza del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Un tentativo, mal riuscito, di rimettere insieme i cocci di una situazione alquanto disastrosa. Indubbiamente controllare l’intero paese farebbe certamente comodo a molti (compagnie petrolifere prime fra tutti). Ma, qualora questo sanguinoso conflitto non trovasse fine, la spartizione potrebbe essere la soluzione più naturale. Per ora, il futuro della Libia è ancora un indecifrabile punto interrogativo.
Nicola Lofoco