Mediterraneo, ieri e oggi alti e bassi. Mai uniti come domani

di Enrico La Rosa

Pregressi storici

Dal 2700 a.C. al 1922 d.c., una cavalcata ininterrotta di 4622 anni, durante i quali, nell’ordine, Fenici, Cretesi, Micenei, Greci, Romani, Bizantini e Ottomani costituirono un unicum che costruì la storia mediterranea e le caratteristiche dei popoli attorno ad esso. Questo percorso si è concluso il 1° novembre 1922 con la caduta dell’Impero Ottomano, 623 anni di vita, seguito ai 1058 dell’Impero Romano d’Oriente ed ai 503 dell’Impero Romano propriamente detto (o d’Occidente), l’unico unificatore non casuale, ma determinato a farlo.

La fortuna del Mediterraneo è stata l’azione livellatrice di questi tre grandi spalmatori ed armonizzatori. Tutte le caratteristiche dei popoli mediterranei delle latitudini comprese tra quella delle Alpi e quella della catena dell’Atlante si sono potuti giovare sotto la dominazione di Romani, Bizantini e Ottomani, durata complessivamente tra i 15 (ad Occidente) ed i 19 (ad Oriente) secoli, di una capillare ed influente azione di armonizzazione e amalgama, progressiva, costante e senza interruzioni, che ha loro consentito un continuo e proficuo scambio e condivisione di cultura, abitudini, tradizioni, comportamenti, obiettivi, valori etici, gusti estetici, regole e parametri dell’interazione.

Il mondo nel quale oggi viviamo è stato costruito dall’azione politica, sociale, economica delle genti del Mediterraneo, che, alleandosi e combattendosi, nel bene e nel male, hanno creato la civiltà moderna ed hanno fertilizzato il pensiero sia dei grandi pensatori della Chiesa cattolica, sia i grandi pensatori europei dei secoli successivi, che dal pensiero greco e dalle culle del Mediterraneo hanno preso spunto per le loro importanti elucubrazioni. Dice Fernand BRAUDEL nel famoso libro <<Il Mediterraneo>> pubblicato da Bompiani nel 1996 p. 67): «In tutte e tre le religioni vi furono senza dubbio dei letteralisti e dei fondamentalisti. La filosofia greca finì però per imporre dappertutto taluni quadri concettuali e la logica aristotelica taluni metodi di ragionamento. A Baghdad, nella Casa della Saggezza, Bayt al-Hikma, fondata dal Califfo Ma’mûn, si concentrò l’eredità filosofica e scientifica di Alessandria. Eruditi ebrei, cristiani e musulmani si incontravano per tradurre le opere greche. Relativamente al periodo tra il IV ed il X secolo, Abû Ḥayyȃn al-Tawḥîdî ci ha lasciato un’importante testimonianza a proposito di serate notturne, durante le quali, senza limite confessionale, le menti più elette della capitale del califfo discutevano, su un piano di eguaglianza, dei massimi problemi. In Spagna, a partire dalla stessa epoca e soprattutto nei secoli VI-XII, ebbero luogo scambi analoghi, anch’essi dovuti a una libera, e per questo estremamente feconda, circolazione delle idee. Basti ricordare i grandi nomi di Averroè e di Maimonide, la scuola dei traduttori di Toledo e l’influsso esercitato da tale intensa attività sul pensiero medievale latino».

La sua spinta si è esaurita dopo il 1492. E non per iniziativa americana, ininfluente sino al XIX secolo, ma perché i Paesi iberici e del Nordeuropa dall’America e dalle Indie trassero quelle ricchezze che consentì loro non solo di consolidare le rispettive monarchie, ma anche di espandere i propri interessi verso il sud del mondo, conquistandolo, colonizzandolo e … ”civilizzandolo”!

Se è vero che l’ultimo respiro di Kōnstantìnos XI Dragàsēs Palaiològos sulle mura di Costantinopoli il 29 maggio 1453, al termine di un’intera ennesima ed ultima giornata di eroici combattimenti nel vano tentativo di respingere i soldati di Maometto II, e l’approdo della Santa Maria di Cristoforo Colombo all’alba del 12 ottobre 1492, dopo sessantanove giorni di navigazione, presso l’isola Guanahani (futura isola di San Salvador) sembrarono segnare un’irreversibile battuta d’arresto alla crescita inarrestabile del contesto Mediterraneo, un grosso scossone al vecchio mondo, non si può ignorare, tuttavia, che l’azione delle Repubbliche Marinare ed il gran movimento che si creò attorno alle Crociate ed alle scorrerie delle reggenze barbaresche lungo la costa meridionale del Mediterraneo, autrici di dolorose incursioni sin nel cuore d’Europa, che misero a soqquadro l’intero bacino mediterraneo.

Queste componenti mantennero in vita gli antichi assetti mediterranei, ma mutarono gli equilibri interni. Il XVI secolo registrò la penetrazione spagnola e portoghese lungo le coste appartenute all’Africa Romana, ossia il Maghreb centrale, centrato sulla Tunisia. Con il XIX secolo fu la Francia a ridurre in colonia l’intera costa nordafricana e, subito dopo, si ebbe l’arrivo britannico con l’occupazione di Egitto e Malta e con la lunga marcia che avrebbe esteso l’influenza inglese a buona parte dell’area mediorientale, sino alla lontana India.

I Paesi iberici e del Nordeuropa dall’America e dalle Indie trassero quelle ricchezze che consentirono loro non solo di consolidare le rispettive monarchie, ma anche di espandere i propri interessi verso il sud del mondo, conquistandolo, colonizzandolo e …”civilizzandolo”!

La storia del Mediterraneo autonomo, ancorché turbolento, finì con la fine di Genova, ultimo vitigno autoctono finito nelle botti straniere. Tutto il resto è stata storia in varia misura di Belgio, Francia, Gran Bretagna, Germania, Olanda, Portogallo, Spagna. Cui si aggiungono successivamente, nel XX secolo, in parte soppiantandoli, Stati Uniti d’America, Russia e Cina.

I danni che queste Nazioni hanno fatto e continuano a fare in Mediterraneo sono indescrivibili. Molti di essi non si riesce a capirli solo per un fatto di comunicazione carente e perché non ne se ne ha percezione, in quanto assuefatti. Il disastro politico della sponda sud, che si vorrebbe resettare a mezzo di processi vari chiamati ora arabizzazione, ora primavere arabe, ora, più recentemente, risveglio arabo, troppo spesso tinti del rosso del sangue delle tante vittime, innocenti e non. L’origine di tutto ciò? È semplice, la politica imperialista dell’Occidente. Illuminante, in proposito, la lettura di un significativo brano di David FROMKIN, studioso, storico e cattedratico americano, tratto dal libro <<Una pace senza pace>>, pubblicato da Rizzoli nel 1992, (p. 638-639): «Il Medio Oriente è diventato ciò che è oggi perché le potenze europee vollero ridisegnarlo, e nel contempo Francia e Gran Bretagna non seppero garantire la durata delle dinastie, degli stati e dei sistemi politici da esse instaurati. Durante e subito dopo il primo conflitto mondiale Gran Bretagna e Francia distrussero irrevocabilmente il vecchio ordine della regione; il dominio turco del Medio Oriente arabo subì un colpo dal quale non avrebbe più potuto riprendersi. Per riempire il vuoto che ne seguì crearono nazioni, formarono governi, misero sul trono monarchi, tracciarono frontiere e insomma cercarono di formare un sistema di stati come ve ne sono in tante parti del mondo, ma non tennero nel debito conto le molte forme di opposizione locale a tali decisioni».

 

La svolta del XX secolo

Tutto ciò coincise con la conclusione della Grande Guerra e segnò la vera fine della continuità storica e dell’unità mediterranee. Alle nefaste conseguenze geografiche e politiche degli accordi franco-anglo-russi, con la connivenza americana, che riscrissero la geografia mediorientale distrussero irrevocabilmente il vecchio ordine della regione crearono nazioni, formarono governi, misero sul trono monarchi, tracciarono frontiere e insomma senza tener conto delle molte forme di opposizione locale a tali decisioni, si aggiunsero le profonde modifiche all’equilibrio etnico, quindi antropologico, della Regione a causa della penetrazione in M.O. di orde di profughi da Paesi nordici, in prevalenza di religione ebraica, che influiranno in modo determinante sugli avvenimenti dell’area mediorientale e mediterranea sino ai giorni nostri.

Posero fine alla lunga agonia i grandi accordi di natura economica e politico-economica del secolo.

Gli accordi di Bretton Woods del 1944 (convertibilità del dollaro direttamente in oro, garanzia della stabilità dei cambi, organizzazione dei sistemi di credito, liberalizzazione degli scambi commerciali) hanno permesso e garantito un periodo piuttosto lungo di prosperità economica nel dopoguerra. Gli accordi si inquadrano nell’ambito di una visione fordista – keynesiana dell’economia: lo Stato regola senza stravolgere. Si stabilisce la convertibilità del dollaro direttamente in oro (35 dollari per un’oncia d’oro) e quindi un sistema di scambi internazionali basato sul dollaro e non soltanto sull’oro. A Bretton Woods vengono create anche nuove istituzioni monetarie internazionali. Il Fondo Monetario Internazionale ha il compito di garantire la stabilità dei cambi. La Banca mondiale deve organizzare sistemi di credito e intervenire nei paesi in difficoltà. Di più recente creazione è la World Trade Organization per la liberalizzazione degli scambi commerciali.

Negli anni Settanta iniziano processi di globalizzazione dell’economia e di una nuova divisione internazionale del lavoro. Potentissime imprese multinazionali dominano l’economia mondiale e utilizzano prevalentemente il dollaro. La quantità di dollari fuori dal controllo della Federal Reserve Bank usati nelle transazioni europee (eurodollari) e quelli riciclati e investiti dai produttori di petrolio (petrodollari) cresce enormemente (da 14 miliardi nel 1964 a 160 nel 1973 e a 500 miliardi nel 1978). Nel 1971 Nixon annuncia la fine della convertibilità del dollaro, perché l’oro di cui dispongono gli Usa diventa insufficiente di fronte alla grande massa di dollari che circolano nel mondo e la banca centrale americana non può più controllare questo circolante con le sue riserve. Il sistema di Bretton Woods è ormai in crisi. I governi si vedono sopraffatti dal mercato, in balia della speculazione finanziaria.

Nel 1973 interviene la crisi petrolifera. Viene aumentato il prezzo del petrolio da parte dell’Organizzazione dei paesi produttori di greggio (OPEC).

Nello stesso periodo si moltiplica il fenomeno degli Off-shore, paradisi fiscali con una tassazione ridotta o addirittura inesistente.

Le linee politiche di salvaguardia delle riserve delle banche centrali sviluppate nel XX secolo (Gold Standard e Gold Exchange Standard); le nuove istituzioni monetarie internazionali instituite dagli accordi di Bretton Woods del luglio 1944 per regolare i rapporti monetari di stati nazionali indipendenti; i processi di globalizzazione dell’economia e di una nuova divisione internazionale del lavoro; la crisi all’inizio degli anni ’70 del sistema di Bretton Woods e la netta prevalenza della logica del mercato, sostenuto dalla speculazione finanziaria, con pesanti ricadute sul divario tra paesi ricchi e paesi poveri, che viene accentuato, anziché ridotto; l’avvento delle innovazioni tecnologiche dello sviluppo dei trasporti terrestri e navali in virtù di un uso progressivamente crescente dei containers, sono le tappe di un unico processo economico, commerciale e finanziario che agevolano l’interdipendenza dei bilanci dei singoli Paesi e lo sviluppo dei mercati globalizzati, a vantaggio delle economie più ricche e a svantaggio di quelle più arretrate. La sovranità del mercato finisce con l’aumentare enormemente il divario tra paesi ricchi e paesi poveri, che porterà al definitivo avvio al processo di mondializzazione grazie all’accordo di Marrakesh del 15 aprile 1994, che consente la liberalizzazione di tutte le attività del genere umano (acquisizione e distribuzione di servizi; regolamentazione dei settori agricolo, tessile e sanitario; rafforzamento della proprietà intellettuale; abbattimento degli ostacoli al libero scambio delle merci; risoluzione delle dispute internazionali), eccettuata la libera circolazione delle persone, sono stati i fenomeni i cui effetti, variamente combinati, aiutarono le economie più forti, lanciando a molte aree depresse del mondo l’illusione dell’emancipazione e della crescita politica ed economica.

Per il Mediterraneo fu la catastrofe. Essa proveniva da lunghi periodi di colonizzazione e sfruttamento e viveva la stagione dello strapotere dei dittatori nelle cui mani i colonizzatori avevano lasciato le ex colonie, “amici” che potessero garantire la continuazione dell’influenza degli “ex” colonizzatori. Ricchi di materie prime preziose e di idrocarburi, ma sprovviste di “classe politica emancipata”.

A settentrione della regione mediterranea, quasi dovunque aumenta la flessibilità e la precarietà a causa della concorrenza del lavoro mal retribuito dei paesi emergenti. L’invecchiamento della popolazione, dovuta alla diminuzione della crescita demografica nei paesi ricchi, mette in crisi le politiche di previdenza sociale. Le aziende si spostano nei paesi meno forti economicamente, sfruttandone la mano d’opera a basso costo. La sperequazione tra i paesi porta ad una forte pressione di migranti verso i paesi occidentali. Già dagli anni Ottanta, infatti, vengono progressivamente ridotti gli interventi di welfare. Il primo esempio è la politica della Tachter, che riduce le protezioni di tipo sociale. Quasi ovunque aumenta la flessibilità e la precarietà a causa della concorrenza del lavoro mal retribuito dei paesi emergenti. La sperequazione tra i paesi porta ad una forte pressione di migranti verso Occidente. Tutto ciò mette in crisi il sistema degli Stati, inclusi G7/G8 e G20. Paradossalmente la globalizzazione produce nuove forme di particolarismo locale, la glocalizzazione.

A sud della stessa, sono obiettivo dell’espansione e del consolidamento degli attuali flussi del mercato globale non tanto i 100 miliardi di dollari del reddito annuale delle 500 persone più ricche del mondo che nei loro consumi certamente non si fanno influenzare dalle mode del mercato globale. Lo sono piuttosto i circa 500 miliardi annui del 20% della popolazione mondiale, circa 1.280 milioni di persone, che vive con UN dollaro al giorno, oppure i circa 1.800 miliardi di dollari annui di quel 40 % (2.560 milioni di persone) che vive con DUE dollari al giorno. Costoro, all’aumentare pur lieve del tenore di vita, saranno felici di poter consumare quel genere tanto propagandato, che tutto il mondo acquista, che darà loro l’illusione di essere finalmente entrati in un mondo possibile.

Complessivamente, tra il 1970 e il 2003, mentre gli USA hanno visto il proprio prodotto nazionale aumentato di 10,8 volte in 33 anni, su scala planetaria la Cina di 15,2 e l’India di 11,4; nell’Europa continentale l’Austria di 17,5, il Belgio di 12, la Danimarca di 15,1, la Francia di 12,3, la Gran Bretagna di 16,8, l’Irlanda di 46,6, i Paesi Bassi di 15, la Svezia di 10,1; nel Mediterraneo europeo la Grecia di 20, l’Italia di 13,7, il Portogallo di 24,2, la Spagna di 5,3. Nel medesimo periodo nel Niger l’incremento è stato appena di 4,5 volte, nella Sierra Leone di 2, nel Ciad di 8,7, in Etiopia di 3,9, in Burundi di 3, in Malawi di 5,7, in Zambia di 2,4. Decisivi, in tal senso, sono stati i tanto auspicati investimenti stranieri, l’elemento che ha letteralmente riscritto la geografia economica mondiale. Il freddo e cinico calcolo ha reso possibile un ruolo determinante delle multinazionali anche nel campo sociale poiché, attraverso la privatizzazione di beni e servizi entrati nel loro mirino, negli ultimi trent’anni hanno influito in modo profondo sui servizi di pubblico interesse e di rilevanza sociale e strategica, i cui oneri sono stati sostenuti dai cittadini in cambio di prestazioni quasi ovunque peggiorate, a fronte dell’aumento dei loro costi sociali ed individuali. Tra le vittime maggiormente compiante di tale situazione vi è lo stato sociale, in via di definitiva estinzione in favore del progressivo affermarsi dell’iniziativa privata in tutti i campi strategici (sanità, previdenza, assistenza), troppo spesso coincidente con gli investimenti in servizi di multinazionali straniere con la crescita dei campi d’intervento sostitutivi delle grandi compagnie di assicurazione a capitale internazionale. Ulteriore ricaduta di questo stato di cose è la trasformazione culturale ed etica a seguito dei flussi commerciali. È noto, soprattutto ai Mediterranei, che la cultura s’incanala nei solchi dell’economia, del commercio. Era così quattromila anni fa, ha continuato ad essere così sino ad oggi. Ma le trasformazioni culturali affrettate e non metabolizzate con la dovuta gradualità, inserite in un quadro anch’esso in complessiva evoluzione, sono potenzialmente generatrici di disgregazione delle culture tradizionali. Se si considera, oltre a ciò, che il dominio statunitense nell’industria culturale è inattaccabile e che gli USA controllavano già nel 2006 il 40% del mercato audiovisivo mondiale (ed ora molto di più, anche grazie al repentino espandersi delle grandi holding della comunicazione e dei servizi sul web), che garantisce grandi profitti e contribuisce all’affermazione della cultura americana nel mondo, si avrà una chiara percezione di quale sia la tendenza attuale e del perché le regioni maggiormente tradizionaliste, quali quella mediterranea e mediorientale, facciano fatica ad accettarla passivamente, preferendo affidare la loro resistenza anche ad esecrabili forme estreme e radicali.

Di seguito alcune cifre fornite da Oxfam Italia che già nel 2016 danno un’idea approssimativa del fallimento degli obiettivi dichiarati del processo di economia globale:

  • 8 persone nel 2016 possedevano la stessa ricchezza netta (426 miliardi di dollari) dei 3,6 miliardi di persone più povere del mondo.
  • l’1% della popolazione mondiale possiede, sin dal 2015, più ricchezza netta del restante 99%.
  • 1 persona su 10 nel mondo vive con meno di 2 dollari al giorno.
  • 7 persone su 10 nel mondo vivono in paesi in cui la disuguaglianza è aumentata negli ultimi 30 anni.
  • 10 tra le più grandi multinazionali hanno generato nel 2015/16 profitti superiori a quanto raccolto dalle casse pubbliche dei 180 Paesi più poveri al mondo.
  • 124 milioni: è il numero di bambini che potrebbero andare a scuola se si recuperassero i proventi dell’elusione fiscale delle grandi corporation a danno dei paesi poveri.
  • 50%: è la quota di emissioni in atmosfera prodotta a livello globale dal 10% più ricco del mondo.
  • in Italia l’1% più ricco era in possesso nel 2016 del 25% della ricchezza nazionale netta. Da soli, i primi 7 miliardari italiani possedevano più ricchezza del 30% più povero dei nostri connazionali.

Come immaginabile, tutta l’area mediterranea, ad eccezione della Francia, si trova nell’elemento di paragone “svantaggiato” delle disuguaglianze appena elencate. Il costo dei generi, generalmente ed obbligatoriamente importate, è troppo elevato per dei salari decisamente bassi, necessariamente bassi onde agevolare la delocalizzazione. La povertà è a crescita esponenziale, la desertificazione delle terre ormai abbandonate ha una velocità spaventosa e alla gente non rimane che scappare o spingere su improponibili barconi forieri di morte i propri figli, nella speranza che a destinazione possano trovare quelle possibilità di sopravvivenza che a casa loro non avrebbero in alcun caso!

L’Europa dalla coscienza sporca ha elaborato diverse strategie di aiuto. I vari tentativi (trattati di Barcellona, la politica europea di vicinato, PEV) sono miseramente falliti e l’aiuto si è spesso concretizzato in una miriade di sussidi del tipo “a pioggia”, troppo piccoli ed ininfluenti per non poter essere considerati irrisori. Il dialogo euro-mediterraneo non è riuscito a decollare: se non è stato un bluff, certamente non ha aiutato i popoli mediterranei, ma ha elargito – in definitiva – briciole finite in bocche potenti e fameliche, non in quelle degli affamati e bisognosi.

 

I temi della sicurezza e la transizione (tra caduta del muro e abbattimento delle torri)

Molto presto dopo la fine della guerra fredda la radicale trasformazione intervenuta negli scenari internazionali diede la consapevolezza che i temi della sicurezza erano tutt’altro che finiti. I temi della sicurezza rimasero all’ordine del giorno, forse persino acuiti dalla radicale trasformazione intervenuta negli scenari internazionali, e si ebbe presto la consapevolezza che la minaccia ha assunto nuove forme e dimensioni. II terrorismo, la proliferazione delle armi di sterminio, l’instabilità politica, il radicalismo religioso, le migrazioni incontrollate, i crescenti squilibri demografici, economici e sociali sono divenuti veicolo di tensioni, di situazioni di conflittualità e turbativa, cui il mondo occidentale non sempre seppe rispondere con efficacia ed equilibrio.

Nel 2001 lo scenario mondiale, mediterraneo in particolare, cambia ancora. La distruzione delle “torri gemelle” induce l’amministrazione americana a dichiarare guerra senza quartiere al terrorismo internazionale e soprattutto a combatterlo nelle basi di partenza, per impedirgli di penetrare di nuovo sul suolo americano. Il terrorismo parte dalla regione mediorientale ed è qui che vengono mandate le truppe americane, non senza avere ribadito l’amicizia con i vecchi alleati della regione ed avere stretto relazioni di cooperazione ed alleanza con alcuni Paesi valutati essenziali nella lotta al terrorismo e non senza aver posto sull’altro piatto della bilancia il peso della propria forza commerciale. Come primo provvedimento, come spiega con estrema chiarezza Luigi Sinapi, “subito dopo l’attacco alle Torri Gemelle, gli Stati Uniti, considerando l’attentato un attacco al proprio territorio nazionale, hanno chiesto alla Nato l’applicazione dell’art. 5 del Trattato di Washigton DC, 4 aprile 1949. Il Consiglio Atlantico ha approvato lo spiegamento di una “Maritime IRF (Immediate Reaction Force) nel Mediterraneo Orientale. La Stanaformed (Standing Naval Force Mediterranean) pertanto è stata ritirata dall’esercitazione Nato “Destined Glory 2001”, che stava per iniziare nelle acque spagnole, e inviata immediatamente a Est. L’operazione, denominata Operation “Active Endeavour”, … ha come obiettivo principale la dimostrazione di solidarietà e presenza della Nato nella lotta attiva al terrorismo internazionale”.[1] L’iniziativa Nato/americana andò di pari passo con il consolidarsi di taluni fenomeni che fanno del Mediterraneo un’importante cassa di risonanza di alcuni tra i principali fenomeni alla base delle relazioni internazionali: la perdurante crisi israelo-libano-palestinese nella regione, il consolidarsi della via subsahariano-magrebina per il drug-trafficking che parte dall’America latina, l’avvento della guerra asimmetrica portata da di Al-Qaëda e Isis, l’esplosione del fenomeno dell’emigrazione di massa aventi nei Paesi della sponda settentrionale l’obiettivo principale, l’impennata dei trasporti marittimi e la crescente richiesta di una loro disciplina, l’impellente necessità sentita dai Paesi rivieraschi di sviluppo di politiche nazionali e di convenzioni internazionali intese a pervenire alla protezione delle risorse naturali ed ittiche del bacino, la viva preoccupazione per l’impatto ambientale sull’intera area delle scriteriate politiche dei governi rivieraschi e non. Tali fattori indussero l’Europa a rispolverare la propria (tiepida) inclinazione mediterranea. Si consolida il Dialogo Mediterraneo della Nato, che, con il Vertice di Praga del 21-22 novembre 2002 si poneva l’obiettivo di un salto di qualità e lo scopo di sviluppare la cooperazione in alcuni settori chiave: la lotta contro il terrorismo e contro le armi di distruzione di massa, la prevenzione e la gestione delle crisi, la riforma della difesa, la cooperazione fra militari, le consultazioni sul controllo delle frontiere, la gestione delle catastrofi naturali. Il tragico susseguirsi degli attentati di Casablanca, Djerba, Istanbul, Europa ha contribuito a rafforzare ulteriormente la consapevolezza che il terrorismo non ha confini e si combatte soltanto attraverso la solidarietà ed una più efficace cooperazione anche sul piano regionale.[2]

 

Deterioramento del quadro generale e diffusione della crisi globale e mediterranea

In tutto ciò, il Mediterraneo è stato uno degli scenari nei quali Est ed Ovest si sono confrontati durante la guerra fredda, talvolta senza risparmio di colpi e di energia.

È stato uno dei terreni di radicazione anche nelle guerre asimmetriche del post guerra fredda e lungo le sue sponde hanno messo radici i nuovi movimenti terroristici.

Il tutto favorito dallo scontento serpeggiante nell’intera area a causa della mancata realizzazione degli obiettivi dichiarati dalla globalizzazione.

Si consideri anche che nella sponda Sud del Mediterraneo il territorio fertile residuo non supera il 6% del totale e la superficie agricola minaccia di ridursi ulteriormente a causa della siccità, dello sfruttamento intensivo dei terreni, della loro salinizzazione e della non corretta alcalinizzazione dei prodotti. È a gradiente negativo apprezzabile la perdita di suolo superficiale, il deficit di autosufficienza alimentare. Sono fenomeni in preoccupante crescita anche l’incremento dei flussi migratori e l’urbanizzazione incontrollata delle coste. Le risorse ittiche “d’alto mare” sono in progressivo decremento. E, aspetto più drammatico tra tutti, un metro d’acqua salata in più a causa dello scioglimento del ghiaccio delle calotte polari costringerebbe alla migrazione 300 milioni di persone, dopo aver devastato metà delle terre fertili in Paesi già poverissimi.

La visione che hanno del Mediterraneo i Paesi dell’Europa continentale e del nord è di una frontiera, di un valico da fortificare, in quanto origine delle principali minacce al loro benessere: il terrorismo, le migrazioni, la concorrenza. In proposito scrive il ricercatore Francesco Palmas nelle conclusioni di un bell’articolo pubblicato dalla Rivista Marittima circa dieci anni fa, che mantiene inalterata la sua validità: «I Paesi nordici considerano il mare nostrum poco rilevante per la loro sicurezza, ancor meno dopo l’allargamento dell’Unione a Est, che assorbe ingenti risorse finanziarie. I nuovi entranti hanno inciso fortemente sulla popolazione (+30%), non certo sul reddito dell’Unione (+5%), del cui bilancio sono beneficiari netti. Gli agricoltori sono raddoppiati, passando da 2 a 4 milioni, e le disparità reddituali si sono aggravate. In Estonia e Romania, la ricchezza pro capite non supera il 45% e il 29% della media europea. Al confronto, il Mezzogiorno d’Italia è ricco: Calabria e Sicilia raggiungono infatti percentuali comprese fra il 67,8% e il 71,4%». Ma è, al tempo stesso, la fonte del loro benessere: idrocarburi, commercio, mercati, vie di comunicazione, porti di interscambio, anche da gestire, rotte per le loro flotte da/per l’oriente, ambiente per le esperienze delle loro navi oceanografiche, meta dei loro turisti. E allora, è una frontiera pericolosa, ma da occupare, presidiare, condizionare, governare e farcire il più possibile di mezzi di scoperta e contrasto.

Per i Paesi rivieraschi, invece, il Mediterraneo è nient’altro che il cortile della loro esistenza, quello su cui si affacciano tutti i palazzi i cui abitanti vi trascorrono la vita da sempre, poveri, ma felici e appagati. Questa comunità non è riuscita, purtroppo, a costituirsi in regolare condominio ed è ora costretta a subire il commissariamento e l’amministrazione da parte di quelle stesse persone che li considerano “frontiera”. E sono costretti ad accettare ipotesi di associazione non sempre convenienti, spesso umilianti, a riempire ogni angolo di videocamere e detectors in grado di scoprire, registrare ed analizzare ogni singolo passante; ad accettare l’istituzione di ronde che pattugliano l’intero cortile, con il compito e la libertà di fermare e sanzionare chi non dovesse comportarsi come i Commissari desiderano. ….. Si è persa la centralità del cortile, che è divenuto un luogo di passaggio e la sede di un mercatino rionale.

La potenzialità totale del bacino mediterraneo è di 8.718.356 Km², di 455 milioni di abitanti, con una conseguente densità di 52,5 persone per Km².

Cosa si sarebbe potuto fare tutti assieme se si fosse formata una Federazione motivata e determinata… Si riconsideri il “cortile” di partenza!

Contribuire alla costituzione di una federazione, una comunità coesa e solidale, all’interno della quale sia possibile la coesistenza di Paesi che appartengono al Mediterraneo, di quegli stessi Paesi che non hanno possibilità alternative di aggregazione, essendo dispersi in tutti i gruppi di governance o difesa o mutuo supporto internazionale.

In compenso, gli inesistenti “Stati mediterranei confederati” avrebbero potuto sviluppare un piano congiunto, coordinato e meditato nell’incentivazione della produzione specializzata e di elevata qualità di prodotti agricoli congeniali e tipici, quali l’olio di oliva, i cereali, il vino, certo tipo di frutta, indotto degli idrocarburi, indotto dei cereali e dei prodotti ortofrutticoli, sfruttamento razionale, prudente e non intensivo delle risorse ittiche. Non sarebbe stato difficile far capire alle popolazioni rivierasche la convenienza del coordinamento delle politiche comuni, della tutela dell’ambiente e del mare, dell’introduzione di regole ferree per la navigazione al suo interno e della limitazione dell’attività ittica intensiva di flotte pescherecce appartenenti a Paesi estranei al bacino. A tal proposito, si noti come solo la Federazione dei Paesi rivieraschi avrebbe potuto fare del Mediterraneo una zona di interesse economico esclusivo, con la conseguente espulsione di tutti gli estranei e con la regolamentazione della navigazione al suo interno di navi non certificate secondo criteri sanciti dalla Federazione stessa ed intesi a garantire la sopravvivenza del mare e delle sue risorse.

Le sinergie nord-sud, ossia il concorso di ricchezze del suolo e sottosuolo del sud con la tecnologia del nord, avrebbe consentito di costruire un “sistema” economico e di promozione culturale decisamente formidabile, specie se si fosse saputo costruire una comunità in grado di assicurare l’autosufficienza interna e capace di forte potenzialità di esportazione delle eccedenze.

 

Obiettivo

L’obiettivo del progetto consiste nel fare opera di sensibilizzazione sulla necessità che sulla scena internazionale entri un nuovo attore, oggi non ancora nato, ma presente nell’aria, nel cervello, nel percepibile interesse di chi sia libero da condizionamenti di alcun genere. Mi riferisco ad un attore che intenda indossare gli abiti di un Mediterraneo federato, pacificato, coeso, autonomo.

Si pensi solo per un attimo agli effetti di una federazione politica di tutti i Paesi che si affacciano su Mediterraneo. Di una comunità che fa del suo mare il fulcro delle proprie attività, nella quale il progresso parallelo dei paesi rivieraschi ed il reciproco sostegno svuota automaticamente il drammatico problema dell’emigrazione clandestina di migliaia di persone che, non più disperate, trovano nel proprio paese lo stimolo per risollevarsi. Di una comunità che decida di regolamentare senza interventi esterni, ancorché nel rispetto dei trattati internazionali, le attività possibili sopra sotto e sulla superficie del suo mare. Di una federazione composta di Paesi la cui pacificazione sia uno stato soggettivo, non la convenienza per tutto il globo. Che non sia più un’area <consumatore finale> di beni e prodotti di multinazionali esterne al bacino mediterraneo.

S’intende dedicarsi alla ricerca e condivisione dei motivi per i quali valga la pena ripristinare la grande amicizia e affinità dei popoli del Mediterraneo.

Si pensa che esistano le condizioni per stimolare un dialogo completamente interno al bacino e sensibilizzare i popoli rivieraschi sulla necessità di recuperare l’antico spirito collettivo e unitario nel loro stesso interesse, per costruire condizioni e prospettive di pace prosperità e giustizia sociale e consegnarle alle generazioni future mediterranee nello spirito della lunghissima tradizione di almeno 19 secoli di cammino fatto insieme.

Solo i popoli del Mediterraneo potranno far rinascere il Mediterraneo, nessun altro!

Si auspica una generalizzata presa di coscienza dei suddetti popoli circa la necessità di un ritorno a scenari condivisi ed esclusivi, alla gestione autoctona del Mare Interno, all’affrancamento dall’influenza decisamente interessata di attori estranei alla regione mediterranea E questo è il percorso auspicato dal progetto per l’intera Regione, In prospettiva, incentivare il dialogo con qualsiasi mezzo, stimolare la ripresa del percorso storico comune, collegare, negli anni, la rete dei porti italiani e mediterranei con flotte di imbarcazioni sportive e pacifiche, sempre più numerose, sempre più consapevoli del ruolo che possono svolgere, con equipaggi consapevoli del loro ruolo storico fondamentale e sempre più convinti della necessità di dovere aiutare la causa mediterranea.

Si auspica intercettare ed assecondare nel nostro piccolo le tante spinte, ancora minoritarie, di annullare gli effetti nefasti dei processi del XX secolo che hanno favorito l’omologazione generalizzata. Dell’economia mondializzata e ispirata dalla finanza. Dello strapotere politico ed economico a danno della comunità mondiale da parte di pochi Stati, che poi sono gli stessi che inquinano l’ambiente, possiedono enormi arsenali nucleari, forzano l’andamento della politica internazionale, esercitano forme moderne di colonialismo meno visibile, ma molto più restrittivo, turbano e forzano i mercati, inquinano anche l’economia ed hanno assunto come totem della loro community molto ristretta il reddito e la ricchezza. Innescando, come diretta conseguenza delle loro azioni, il risveglio delle spinte nazionaliste e localiste, che cavalcano il gran “desiderio d’antico” delle popolazioni più povere, ma anche l’integralismo islamico usato stoltamente a mo’ di arma di difesa.

Oggi, in Mediterraneo, si continua a morire, anche più di prima, anche senza guerre dichiarate.

L’individuazione delle strategie necessarie per il superamento della situazione critica attuale e lo studio di misure concrete utili al superamento di queste ultime e alla ricucitura di interessi comuni dei Paesi rivieraschi, che ispirino una politica di sviluppo e coesione devono essere le aspirazioni di chiunque intenda promuovere e stimolare le relazioni tra i popoli dell’area, ricercando e incentivando i valori e i parametri che hanno regolato tanta storia comune e tanto cammino condiviso.

Si invoca un forte contributo da parte di chiunque sia convinto di questa necessità, un aiuto nel conseguimento dell’obiettivo generale di aiutare la crescita ed il rafforzamento del dialogo inter-mediterraneo e l’attivazione di canali di confronto e dialogo, onde rendere possibili i seguenti risultati di lungo periodo, veri investimenti per il futuro della Regione e del pianeta:

  • sensibilizzazione della comunità mediterranea circa la necessità di favorire l’attivazione di canali di confronto e dialogo al suo interno;
  • costruzione di alternative strategiche di teatro, attraverso iniziative nel campo dell’intermediazione tra le diverse realtà esistenti;
  • promozione del ruolo di cerniera da sempre avuto dal “mare interno”, in sostituzione di quello attuale, decisamente di frontiera;
  • creazione di occasioni d’incontro degli operatori delle sponde opposte e di sviluppo di sinergie, di creazione di scambi commerciali preferenziali, di spinta allo sviluppo sostenibile di aree periferiche e depresse, che debbono essere sostenute nel tentativo di superare l’attuale stato di crisi generalizzata dell’economia per mezzo della concretizzazione di un “mutuo soccorso” degli operatori del settore: piccola e media industria, arti e mestieri, agricoltura, pastorizia, igiene e salute dell’alimentazione, pesca, inquinamento e degrado ambientale, trasporti, turismo, sport, cultura, ecc. ecc. E “mutuo soccorso”, per inciso, fu la specificità delle cooperative nate e prosperate nell’Italia del boom economico di alcuni decenni fa, come propulsori delle economie di tipo regionalistico. Una mutua offerta di vetrina e proposta, su un piano di assoluta reciprocità;
  • costruzione nel tempo di una rete di città capi-maglia di una rete di partenariato mediterraneo forte e diffuso, di un certo numero di hub della community commerciale regionale, che regolino i canali di confronto e dialogo tra i Paesi delle sponde nord e sud del Mediterraneo.

L’aspirazione del progetto è un Mediterraneo che punti sulla nascita di una Community assolutamente paritetica di tutti i Paesi che vi si affacciano. L’empowerment, ossia l’emancipazione politica economica e sociale dal basso di una comunità che faccia del suo mare il fulcro delle proprie attività, nella quale il progresso parallelo dei componenti ed il reciproco sostegno privi di significato e di ragion d’essere il fenomeno dell’emigrazione clandestina. Di un Continente pacificato, federato e coeso, che decida di regolamentare senza interventi esterni e nel rispetto dei trattati internazionali, le attività possibili sulla superficie del proprio mare, nel proprio spazio aereo e sotto la sua superficie. Di una collettività composta di Paesi la cui pacificazione sia uno stato ed un processo di maturazione soggettiva, il frutto di un ritrovato bisogno di coesistenza pacifica, un interesse proprio e non solo la convenienza per gli equilibri mondiali. Di una larga base unificata, appartenente a tutti i Paesi rivieraschi, che decida di assumersi la responsabilità della rinascita, prescindendo dalla classe politica dominante, troppo impegnata a rafforzare il proprio potere e le proprie ricchezze e a corroborare quel cerchio di potere che la ha portata indefinitamente al vertice. Che non sia più “consumatore finale” di beni e prodotti di multinazionali esterne al proprio contesto geografico.

Di una “Federazione” che basi la propria sopravvivenza su quattro pilastri fondamentali:

  • Protezione, da terrorismo e traffici illeciti di porti ed infrastrutture costiere di prioritario interesse nazionale; tutela della sicurezza delle attività sul mare e protezione ambientale;
  • Prevenzione, mediante la sorveglianza e il dispiegamento preventivo, efficacissimo in caso di eventuale escalation di possibili conflitti;
  • Proiezione, ad opera di forze navali che proiettano sul territorio avversario potenza di fuoco e forze militari necessarie per il dispiegamento e l’avanzata di reparti terrestri, per assicurare una pronta ed efficace capacità d’intervento in uno spettro di situazioni;
  • Deterrenza, generalmente costituita da una componente dotata di armamento dissuasivo.

La difficile governance sovranazionale, e in particolare del vasto patchwork europeo, deve indurre a ricercare equilibri alternativi o integrativi e la via giusta potrebbe essere costituita da politiche intese a favorire sforzi sinergici locali o regionali, possibilmente con il superamento dei confini continentali e nazionali e la costituzione di un nuovo agglomerato regionale omogeneo, secolarizzato e privo di  vincoli etici o religiosi, basato su differenti parametri rispetto al passato vicino e lontano, in netta contrapposizione con le vaste eterogenee e impersonali communities e nel rimodellamento delle stesse.

Perché ciò possa realizzarsi, si è deciso di fornire un contributo con l’ideazione di un progetto di viaggi per un esame congiunto di studiosi delle sponde opposte, largamente condiviso, e per l’analisi delle condizioni a favore o ostative dell’iniziativa. Che interpreti la forte “voglia di vicinato”, anzi il bisogno di esso, che si respira nella Regione e risponda ad essa portando a termine progetti innovativi, di forte contenuto tecnologico, in possesso di ampi margini di sviluppo ed alto grado di flessibilità e adattabilità alle diverse situazioni, in grado di favorire l’incontro tra differenti realtà, necessità e prospettive. Che contempli l’incontro costruttivo e sinergico di soggetti nel campo della cultura, delle scienze del mare, dell’informazione, dell’imprenditoria, dell’artigianato, dei trasporti, del turismo, dell’antropologia dell’alimentazione e dell’abbigliamento e di tutte le attività che ruotano attorno all’uomo e al mare.

L’avvio del programma pluriennale ed intenso prevederà l’organizzazione congiunta e partecipata di un tour comprendente cinque incontri di studio in altrettanti siti mediterranei.

Sarano sufficienti a stimolare una politica unitaria ed una economia condivisa?

E quali reazioni degli attuali organi di governance o economia sovranazionale potrebbe causare un simile tentativo?

L’approccio dovrà possedere in modo sincero ed inequivocabile, la caratteristica dell’equivalenza e della pariteticità. Questo aspetto è stato approfondito nel cap. X (“Ma gli Africani che cosa ne pensano?”, E. La Rosa) della ricerca che l’Osservatorio Mediterraneo OMeRO, predecessore di OMeGA, presentò al CASD nel 2013, risultando per molti anni a seguire di gran lunga quella più consultata nella raccolta degli studi presentati nella storia del Centro, che viene integralmente riportato di seguito:

 

“CAPITOLO X – MA GLI AFRICANI CHE COSA NE PENSANO?”

La descrizione dell’atteggiamento dei Paesi mediterranei non europei in occasione dei fatti e delle determinazioni della sponda del nord sommariamente descritti nei capitoli precedenti sarebbe impresa ardua, anche se da questa parte del Mare di tentativi in materia non ne sono poi stati fatti tanti, salvo occasionali dichiarazioni inserite in altri contesti. Si potrebbe riassumere l’esame con una sola considerazione: la storia dell’atteggiamento dei Ptm nei confronti della nostra sponda è stata costantemente influenzata o ispirata, direttamente o attraverso i guasti prodotti a catena, dalla crisi mediorientale e dagli attriti, contrasti e – spesso – combattimenti esistiti ed esistenti tra lo Stato di Israele ed i suoi vicini. Sarebbe troppo riduttivo. In effetti gli atteggiamenti delle altre sponde hanno conosciuto diverse fasi e differenti sfumature. Si è passati dallo stato dell’assoluta soggezione di ex colonie alla speranza di poter ricevere aiuti per consolidare istituzioni ed economie molto giovani e fragili. Si è assistito a come questi aiuti siano stati talvolta pretesi, in forma più o meno palese, quali indennizzi per l’avvenuto sfruttamento coloniale. Tuttavia, sia per ovvie esigenze economiche, sia per un’attrazione culturale covata nei secoli, infarcita di storia comune e di continui mescolamenti, o di comune fronte contro le scorribande e le razzie dei “popoli del nord”, o di alterni contrasti e di lotte per prevalere, molto sentita verso i dirimpettai, Italia, Spagna e Francia in particolare, e si parla qui dei popoli più che dei governi, sia come sia, la forza di avvicinamento esercitata dal Sud verso il Nord è sempre stata di forte intensità, sicuramente maggiore di quella del verso opposto. Immaginabile la stagione degli entusiasmi allorché, prima della caduta del muro di Berlino, l’Europa dimostrò serie intenzioni di partenariato e quando sembrò che volgesse al meglio anche la storia mediorientale (Israele e dintorni). Si dovrebbe cercare di immaginare anche la profonda delusione patita dagli stessi Paesi allorché l’aliquota più consistente degli aiuti europei prese la via dell’Est e dell’Est-Sud, anziché quella preventivata del Sud e del Sud-Est.

Il processo di Barcellona fu motivo di ulteriore delusione. Le cose andarono molto meglio con due iniziative parallele e molto simili: il “Dialogo mediterraneo della Nato” ed il “Dialogo 5+5”, quest’ultimo iniziativa interamente interna al Mediterraneo. Accomuna le due iniziative l’approccio graduale e pragmatico modellato sulle esigenze di ciascun partner.[3] Mario Rino ME: “La scelta del formato ridotto, risponde da un lato ai principi di base e di riferimento nazionali per la cooperazione, vale a dire inclusività (senza esclusioni aprioristiche), libertà di scelta dei partecipanti sullo spessore della cooperazione, piena titolarità dei beneficiari sui processi da sviluppare. Dall’altro, nell’ambito di un contesto informale, il formato ridotto favorisce difatti un dialogo rapido ed efficace, evitando i rischi di processi decisionali lunghi e complicati. Il Dialogo rappresenta, infatti, la premessa indispensabile, vera e propria conditio sine qua non, per avviare ogni forma di fruttuosa cooperazione. Ed è proprio il rispetto che, come ha sostenuto recentemente il ministro D’Alema, “è la colla del Mediterraneo”. Attraverso il dialogo si costruisce il necessario clima di fiducia, confidenza e rispetto reciproco che consente la metabolizzazione delle differenze. Un ulteriore vantaggio al rapido avvio e al progresso dell’Iniziativa, è stato offerto dall’ambito geografico e dalla natura pratica del dialogo iniziale, che lo hanno svincolato dalle fluttuazioni e frustrazioni delle varie crisi politiche”.

In definitiva, la progettualità dell’Iniziativa “5+5 Difesa”, il suo sviluppo a building blocks, ci consente di vedere il Mediterraneo, per ora limitato alla Dimensione Occidentale, sotto una prospettiva di cooperazione collettiva. Essa è coerente con la specificità dell’area, richiamata dallo scrittore Fernand Braudel e con il cammino intrapreso verso il tanto atteso incontro tra le dimensioni Nord e Sud. La governance di questo Mare si prefigura, pertanto, come una responsabilità condivisa.[4]

Premettendo che il “Dialogo mediterraneo della Nato” ed il “Dialogo 5+5” non hanno generato negli anni reazioni se non di curiosità, prima, e di generalizzato favore, dopo, si esamineranno, di seguito, alcune reazioni della stampa specializzata in questioni mediterranee, prevalentemente della sponda Sud, e si riporterà il giudizio di qualche giornalista delle medesime testate, segnalando che le reazioni più accese e critiche riguardano generalmente l’iniziativa dell’UpM di Sarkozy. Si limitano all’essenziale le valutazioni in proposito, preferendo, al contrario, lasciare maggiore spazio alle parole dei protagonisti. Rashid Khashana è un giornalista tunisino; corrispondente per il giornale “Dar al-Hayat” pubblicato a Londra, è anche un importante esponente dell’opposizione tunisina. Sul predetto giornale il 2 aprile 2008 lamenta il mancato coinvolgimento dei Paesi della sponda meridionale in fase di elaborazione del progetto di UpM. E a niente erano valse le manovre italiane e spagnole intese a fare diventare il progetto europeo collettivo, non esclusivamente francese.[5] Quanto alla Turchia, è opinione di Florence Beauge (Quale Unione, per quale Mediterraneo?, 25 Giugno 2008 su Le Monde) non gradisce molto un progetto che essa considera un surrogato della sua adesione all’UE.[6] La Libia non ha partecipato all’appuntamento istitutivo di Parigi. Secondo Franco Rizzi, professore dell’Università “Roma tre” di Roma, Segretario Generale dell’Unione delle Università del Mediterraneo (Unimed), “la Libia accusa l’Europa di voler compromettere l’integrità territoriale africana, creando un solco tra i paesi a nord e quelli a sud del Sahara, e incorporando il Nord Africa e il Medio Oriente in una partnership squilibrata e subordinata all’Europa”.[7] Muhammad al-Ashhab, analista politico marocchino, giornalista del quotidiano “Dar al-Hayat” pubblicato a Londra, rivendica all’UMA il diritto di colloquiare con l’Europa a riguardo di progetti che riguardino la sorte dei Paesi della costa settentrionale dell’Africa. E ciò anche in virtù degli incontri euro-maghrebini consolidati nell’ambito del “Dialogo 5+5”.[8]

Un discorso a parte meritano le dichiarazioni nel tempo del leader libico Al Khaddafi, che non ha partecipato all’evento di Parigi, affermando di rifiutarsi di sedere al fianco di Ehud Olmert:

  • l’Unione per il Mediterraneo sarà “un completo fallimento”, parlando in pubblico a Tripoli nel corso di una conferenza stampa tenutasi in data 09.07.08;[9]
  • “Non ci assumeremo in nessun caso il rischio di rompere l’unità araba o africana”, ha insistito il leader libico, denunciando l’UPM come un “adescamento” o “una forma di umiliazione”; ed ancora: “questa ‘Unione’ ci è stata imposta, non rappresenta gli interessi dei popoli arabi o africani. Avremo un altro impero romano e un altro progetto imperialista…abbiamo già arrotolato in passato altre mappe ed altri progetti imperialisti. Non dovremmo averne di nuovi … Questa Unione non potrà sopravvivere poiché porta in sé forze contrastanti che ne determineranno il crollo … La Germania si è opposta alla divisione dell’Europa, ed in cambio noi ci opponiamo alla divisione dell’Unione Africana. Gli Stati europei hanno obbligato il mio amico Sarkozy ad abbandonare il suo progetto iniziale, e ad adottare un nuovo progetto chiamato ‘Unione per il Mediterraneo’. Qual è il significato dell’Unione per il Mediterraneo? Forse significa che l’Europa si unirà per possedere il Mediterraneo. Non è un’unione mediterranea”;[10]

“Per Gheddafi questo nuovo processo d’integrazione mediterranea potrebbe rappresentare una minaccia per la compattezza del fronte maghrebino e potrebbe indebolire l’autorevolezza e l’efficacia dell’UMA, che il leader libico considera portavoce ufficiale di tutti i Paesi del Maghreb nelle diverse sedi internazionali, in special modo nei colloqui sul processo di pace in Medio Oriente”.[11]

 

Parecchi gli incontri pubblici a riguardo del progetto UpM tenuti ad Algeri, Paese di spicco nel Maghreb, il cui orientamento merita particolare considerazione, venendo da un Paese che, in più di cento anni di storia francese, in qualità di colonia prima, e di territorio metropolitano francese, poi, ha acquisito una particolare sensibilità nei confronti del pensiero europeo, condividendone tematiche, tendenze e speculazioni “intellettuali”. Nel corso di un colloquio con l’autore, a fine febbraio 2008 il giornalista Malek Benhacine, collaboratore del quotidiano informatico “Le Financier” (www.lefinancier-dz.com), spiegava come fosse stupefacente che molti algerini, anche tra gli informati, i colti ed i non sprovveduti, abbiano accolto positivamente questa idea. Secondo lui “la riva nord è alle prese con un tradizionale problema che sembrava risolto dopo il 1918 e che rifà capolino: i Balcani. Il mare Egeo non è ancora ciò che si può definire un lago di pace tra i Paesi rivieraschi, soprattutto i più importanti: Grecia e Turchia. Cipro continua ad essere divisa dal 1974. La Siria non è ancora pronta a rinunciare al protettorato sul Libano. La Palestina ha tutte le pene del mondo a nascere in condizioni accettabili ed Israele non si dimostra la più virtuosa tra le donne. La Libia, nell’attuale situazione, non è eleggibile ad alcun serio progetto, avendoli tutti compromessi l’uno dopo l’altro sia dal lato arabo, sia da quello africano. Quanto al Maghreb, impegnato in una stupida corsa agli armamenti, da più di quindici anni non si è stati capaci di organizzare un incontro, neanche per … parlare!”. Riguardo alla Turchia, non si astiene dal rimarcare che “mai è stato posto un solo ostacolo ad Ankara quando, nei più neri anni della guerra fredda, si trattava, nell’ambito della Nato, di difendere il fianco sud-est dell’Europa. Nessuno ha mai detto che la Turchia non fosse atlantica, mentre si pretende che ora non sia geograficamente europea… in ogni caso meno della Georgia, dell’Armenia, meno dell’Azerbaidjan. Questo genere di argomenti speciosi falsa tutta la questione. Indipendentemente dall’originalità dell’idea, totalmente inesistente, appare pienamente evidente che la sola preoccupazione di Parigi, nella sua infinita bontà, sia di distogliere il dibattito dall’annessione della Turchia all’Unione Europea e di offrire un surrogato di unione che non è più europea, ma mediterranea”.

Altrettanto interessanti le argomentazioni dell’ex Primo Ministro algerino Moloud Hamrouche e della giornalista Baya Gacemi durante un seminario tenuto in una sala di Algeri aperto al pubblico, in data 3 novembre 2007. Dice, tra l’altro, Hamrouche: “… è difficile coinvolgere gli Algerini in questa idea, perché sentono sulla pelle il peso di troppi smacchi; hanno conosciuto troppe delusioni ed hanno dovuto convivere con troppe promesse non mantenute. Superare questa situazione e indurre gli Algerini a perdonare e a dimenticare gli smacchi del passato non dipenderà solo dalle nuove promesse e prospettive offerte da questa Unione agli Stati membri ed alle comunità che abitano il Mediterraneo. Occorrerà molto di più. Sarà innanzi tutto necessario rimuovere gli ostacoli che ne impediscono la realizzazione, ostacoli preesistenti, occultati o dimenticati da qualcuno. Gli stessi che ci hanno procurato gli smacchi del passato … Si può progettare di federare economie di livello tanto differente, tanto ineguali, di mondi tanto diversi? Si possono federare dei Paesi governati da sistemi così dissimili? Non occorrerà cominciare da un impegno con le società? Aderire all’idea dell’Unione ci deve indurre a distruggere l’idea in voga, secondo la quale il controllo della contestazione e delle opposizioni nei Paesi del sud passa attraverso l’azione di regimi autoritari, idea secondo la quale la democrazia fallisce contro la violenza e gli attentati. Si preferiscono, quindi, regimi autoritari, non democratici, sotto il pretesto che l’esperienza democratica non offre garanzie di successo nei nostri Paesi. Pertanto, sono questi regimi autoritari che hanno fallito contro la crisi, che hanno generato i fallimenti economici, educativi, sociali e di sicurezza. È l’assenza di democrazia che ha generato l’impasse … Nei rapporti fra il sud dell’Europa ed il Maghreb, la strategia, in materia di economia, si è limitata alla stipula di contratti ed alla conservazione di attività condizionate. In Asia, gli Stati Uniti ed il Giappone hanno adottato una differente strategia, hanno aiutato i Paesi asiatici a svilupparsi. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: i mercati di questi Paesi di recente sviluppo o ancora in via di sviluppo costituiscono un formidabile complemento alle economie americana e giapponese”. Le argomentazioni di Baya Gacemi toccano altri tasti, di natura un po’ meno politica, ma altrettanto interessante: “… non è legittimo per l’Algeria il voler rivendicare il diritto ad un trattamento di riguardo in ciò che i vicini del Nord sono in procinto di tracciare come avvenire comune a tutti i Paesi del contorno mediterraneo e a non accontentarsi di un posto da spettatore in un ambiente sempre più mondializzato e sempre più interdipendente? O, meglio, finché la Turchia trova così tante difficoltà a farsi accettare da un’Unione europea sempre più paurosa, e considerando le difficoltà che incontrano il mondo arabo ed il Maghreb ad organizzarsi ed a farsi sentire sulla scena internazionale, non c’è proprio ora un’allettante opportunità di aggirare tutti questi ostacoli? … Chi potrebbe rimproverare al progetto di Unione mediterranea di Nicolas Sarkozy di tenere in considerazione innanzi tutto degli interessi della Francia? È insito nel suo ruolo di Capo di Stato, è stato eletto per questo. Se gli altri Paesi mediterranei, e soprattutto quelli del sud, non vogliono che il loro avvenire nella regione sia deciso nell’ottica ristretta degli interessi geostrategici francesi, sta a loro di sviluppare la loro visione di questo avvenire. Altrimenti l’avvenire si costruirà senza di loro. Perché occorre ch’essi ammettano che la geografia li ha posizionato dove si trovano e non ne usciranno. Sta a loro, chiaramente, di non lasciarsi coinvolgere in uno schema minimale di gendarmi del Mediterraneo e che consisterebbe nel considerare quest’Unione come la frontiera di sicurezza del Nord, una specie di Linea Maginot, una fortezza che i cittadini delle due rive – ma soprattutto quelli del sud – non potranno oltrepassare che eccezionalmente. Questo schema è allettante, occorre ammetterlo, per qualche Paese della riva nord. Si può, del resto, rimproverare al processo di Barcellona di sbagliare in ciò, anche se i suoi fautori respingono l’accusa. Un ulteriore limite del processo di Barcellona è di voler fare del bacino del Mediterraneo un grande mercato – iniquo, tutto sommato – nel quale transiterebbe ogni sorta di mercanzia, preferibilmente dal nord verso il sud, ma dal quale i popoli, soprattutto quelli del sud, sarebbero esclusi. Un tale schema iniquo non può generare che frustrazione e risentimento. Questa è la ragione per la quale un’Unione mediterranea che si facesse con la partecipazione di tutti i Paesi rivieraschi non potrebbe che essere vantaggiosa per tutti nella misura in cui, poiché sedotti da una considerazione più egualitaria, i rapporti fra i membri fossero meno intrisi di sospetto e permettessero una migliore predisposizione ad ascoltare degli uni verso gli altri”.

Interesse, dunque, verso il progetto dell’UpM, ma forte contrasto nei confronti del coinvolgimento dell’intera Europa, anche di quei Paesi che considerano il Mediterraneo la frontiera della loro sicurezza, della loro tranquillità, del loro benessere. Se ciò fosse vero, perché tanto interesse a partecipare ad un progetto così impegnativo come una Unione per il Mediterraneo, “unendosi” a chi è all’origine della minaccia?

 

Se ne discuterà nelle tappe di un tour mediterraneo organizzato in più sessioni nei porti e nei Paesi nei quali riusciremo a ricevere udienza ed orecchi attenti e menti favorevoli all’ascolto: Roma, Napoli, Milano, Cagliari, Algeri; Alessandria d’Egitto, Barcellona, Corfù, Creta, Dubrovnik Istanbul, Palermo, Tripoli, Tunisi,…

On verra!

[1] SINAPI L., Operation Active Endeavour. Il contributo della Nato alla lotta contro il terrorismo, in Rivista marittima, febbraio 2003, pp. 37-38

[2] MORENO M., op.cit., pag. 57

[3] MORENO M., La Nato, il Dialogo Mediteraneo e l’iniziativa di cooperazione di Istanbul, in Affari Esteri n. 145, gennaio 2005, pag. 56

[4] RE M. R., L’iniziativa 5+5 della Difesa:genesi e sviluppi, in “Informazioni Difesa, n. 6/2007, pp. 12 e 15

[5]  KHASHANA R., L’Unione per il Mediterraneo come sostituto del processo di Barcellona, Dar al-Hayat, 2 aprile 2008

[6] BEAUGE F. Unione per il Mediterraneo: le reticenze dell’Algeria, in Quale Unione, per quale  Mediterraneo?, su Le Monde, 25 Giugno 2008;

[7]  RIZZI F., Incontri tra le civiltà del Mediterraneo, 4 aprile 2008, su Approfondimenti di “Rive”

[8]  AL-ASHHAB M., L’Unione Mediterranea come sostituto dell’Unione del Maghreb Arabo?, Dar al-Hayat, 11 aprile 2008

[9]  The Tripoli Post, Gheddafi: l’Unione per il Mediterraneo è destinata a fallire, 14 luglio 2008

[10] CHAIMAA A-H, Gli arabi e la realpolitik, al-Ahram Hebdo, 16 Luglio 2008

[11] MAIELLO M., 13 Luglio 2008: Conferenza di Parigi. Inizia una nuova era per il Mediterraneo?, disponibile al link http://geopoliticalnotes.wordpress.com/2008/12/10/13-luglio-2008-conferenza-di-parigi-inizia-una-nuova-era-per-il-mediterraneo,pubblicato il 10 dicembre 2008

Enrico La Rosa

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