Migrazioni mediterranee

di Enrico La Rosa

La storia delle relazioni tra Italia e Maghreb ha radici profonde, che si perdono nella memoria della storia conosciuta.

Sfogliando giornali, libri e siti molto informati al riguardo, si possono elencare i dati salienti di questa lunga storia, che inizia sicuramente già prima dell’epoca romana e dei vari Masinissa, Giugurta, Cartagine, Agostino. La storia registra, altresì, diversi flussi migratori, nei due sensi, dei quali si parlerà più avanti.

Nel Seicento la lingua italiana, oltre ad essere la lingua dei rapporti diplomatici tra la Suprema Porta e l’Occidente e testo per le relazioni diplomatiche e per la stesura dei trattati internazionali degli imperatori ottomani, poté essere anche considerata la seconda lingua alla corte tunisina, presso la quale i documenti commerciali furono generalmente scritti in italiano. L’italiano ed i dialetti delle sue principali città di mare furono anche le principali componenti di quella lingua franca mediterranea, il Sabir, un idioma pidgin “di servizio” parlato in tutti i porti del Mediterraneo tra il XI secolo e tutto il XIX secolo, che, secondo altri studiosi è più probabile che sia nata tra il XV ed il XVI, all’epoca della nascita delle repubbliche corsare di Algeri, Tripoli e Tunisi.

 

Il diciannovesimo secolo fu senza dubbio il secolo d’oro della presenza italiana in Algeria e – soprattutto – in Tunisia.

 

La comunità italiana è stata sempre la più numerosa nei due Paesi, fra quelle straniere. Nel 1834 gli Europei presenti in Tunisia sono circa 8.000. Di questi, almeno un terzo Italiani.

Quali le cause di tanta migrazione, in un certo senso di tale fuga?

Le cause principali di questa forte emigrazione nel Maghreb furono essenzialmente la profonda crisi economica endemica italiana in combinazione con il permanente immobilismo sociale. La ricerca di terra buona da coltivare al riparo dalle pastoie burocratiche di un regime agrario arretrato o bloccato dal latifondo padronale. Quest’ultima causa stimolò un’importante emigrazione contadina, favorita anche dalle condizioni climatiche simili a quella dell’Italia meridionale e dall’esistenza di una classe latifondista parassitaria al Sud.

Essendo un’emigrazione di tipo principalmente economico, i suoi protagonisti provenivano dalle regioni più povere dell’Italia o da quelle socialmente meno evolute. Oppure da quelle specializzate nel tipo di lavorazioni delle zone d’arrivo. Per cui si ebbero arrivi preponderanti dalle regioni meridionali, principalmente Sicilia, Sardegna, Campania e Pantelleria, in minor misura Pisani e Genovesi. Tra le attività più ricercate nei Paesi d’arrivo, quelle marinare, dei pescatori, dei minatori, dei lavoratori e tecnici dell’edilizia e delle opere pubbliche, dei contadini, dei proletari urbani, degli artigiani, dei braccianti.

La presenza della Francia nel corso del XIX secolo, ossia di un potente Stato europeo, agli occhi dei lavoratori italiani, fu una garanzia di tranquillità e di guadagno. Così, si comprende agevolmente come in un ventennio, i flussi migratori italiani siano stati cospicui e il numero degli italiani emigrati in Tunisia e Algeria si sia moltiplicato per quattro.

I Francesi, d’altronde, nei primi decenni della loro permanenza, non solo erano in numero decisamente inferiore non aprirono, ma spalancarono le porte al lavoro italiano, sollecitandolo in mille modi. Avevano intrapreso un ampio piano di costruzione di opere pubbliche nei due Paesi maghrebini e la mano d’opera italiana era la più qualificata su piazza. Ciò coincise con l’acuirsi del fenomeno migratorio del nostro popolo, che proprio in quel ventennio toccò cifre e forme iperboliche. Secondo i dati forniti dal “Moniteur Algérien” del 1852, su un totale di 132.980 europei allora presenti in Algeria, ben 7.607 (5,72%) appartenevano a Stati italiani. Per il Duval, pochi anni dopo addirittura 12.765 (9,6%). La curva complessiva della presenza italiana in Tunisia e Algeria presenta un andamento crescente dalle origini al 1886, con un numero di Italiani che da poche migliaia dagli anni ’30 raggiunge il suo apogeo di 44.315 nel 1886. Secondo l’Annuario Statistico italiano, ed. 1900, p. 100, e dati forniti dalla Pubblica Sicurezza, l’emigrazione italiana assomma 17.370 “capi famiglia” italiani arrivati in Tunisia tra il 1881 ed il 1899 e 27.503 in Algeria nello stesso periodo.

La costruzione di una nuova rete ferroviaria, lo sviluppo delle attività estrattive, l’apertura di nuovi cantieri nei porti tunisini e il fiorire di svariate iniziative industriali allargarono notevolmente la rappresentanza della classe operaia. Ci fu un potentissimo richiamo di mano d’opera italiana da parte dei francesi, necessaria per i nuovi grandi lavori pubblici d’infrastrutture messi in atto e le nuove esigenze economiche. Questa mano d’opera fu di qualità, abbondante e a buon mercato. Così, dalla fine del XIX secolo sino ai due primi decenni del ventesimo secolo, si ebbe un’emigrazione italiana operaia di massa, particolarmente dalle regioni del Mezzogiorno. Si trattò di una consistente emigrazione proletaria, di diseredati alla ricerca di un lavoro. In seguito a tale massa operaia, si mossero artigiani, professionisti, piccoli commercianti, terrazzieri, minatori, ecc

Come elemento di ulteriore comprensione, si consideri che il numero di navi italiane nei porti algerini e tunisini era il più elevato in assoluto.

La contraddizione fondamentale nella quale si trovò la Francia nei riguardi di una comunità italiana più numerosa e pertanto più robusta fu quella di doverla accettare di buon grado perché non poté farne a meno sul piano economico, anche se al tempo stesso fu indotta a temerla. Il dilemma troverà una sua definitiva soluzione attraverso le convenzioni del 1896 con cui l’Italia riconoscerà il protettorato francese, ma conserverà per la colonia italiana della Tunisia uno stato particolare: le convenzioni del 1896 segnarono una svolta nelle relazioni franco-italiane ponendo fine alla conflittualità permanente sulla Tunisia e avviando accordi di carattere doganale e commerciale.

Grazie a questa Convenzione gli italiani potevano mantenere la nazionalità di padre in figlio in modo automatico e potevano continuare ad amministrare le imprese in possesso e gli enti preesistenti. Veniva sancita l’inviolabilità della cittadinanza italiana in Tunisia proibendo ogni politica francese d’assimilazione globale, come fu il caso per l’Algeria.

Il flusso migratorio italiano cominciò a diminuire costantemente per effetto di leggi francesi che ne rendevano difficile l’incremento (limitazioni alla pesca da parte di agenti stranieri (1/3/88), sia imposizioni in tema di naturalizzazione automatica (26/6/89).

Provvedimenti intesi a scoraggiare la comunità italiana, mediante l’espropriazione di beni, il divieto della pesca, la chiusura di scuole, istituti culturali e dei giornali in lingua italiana, sino a prevedere la possibilità di espulsione Altro duro colpo alle migrazioni italiane fu l’avvento del fascismo, il quale proclamò il suo desiderio di vedere cessata l’emorragia dell’esodo degli italiani nel mondo. Questo rallentò sensibilmente l’arrivo nei due Paesi di emigranti italiani, sino ad azzerarlo.

Gli Italiani ebbero la fortuna di essere accolti senza ostacoli e con generosità, ricevendo l’opportunità di ricostruirsi un’esistenza ed una nuova vita, ostacolati – al contrario – dalla madre patria e dalla Francia, mai dai locali, per i quali non erano tanto “italiani”, quanto Sardi, Siciliani, Napoletani, Genovesi: i popoli che, con loro, avevano fatto grande il Mediterraneo occidentale, sugli stessi livelli di quello orientale, veneziano bizantino ed ottomano.

Sembra utile citare un ulteriore aspetto della questione migratoria italiana.

Nel periodo, a questa contribuisce in modo significativo l’esilio per ragioni politiche ed ideologiche. La scelta emigratoria per ragioni politiche, che dalla Restaurazione e dalla caduta di Murat in poi, fu alimentata a partire da diverse capitali europee un po’ da tutti i ceti sociali: borghesi in rottura con i rispettivi governi o oppositori ideologici (repubblicani, mazziniani, anarchici, libertari, ecc) Questo fuoruscitismo politico, infatti, è alimentato in modo preponderante dai moti rivoluzionari risorgimentali e tra gli esuli si annoverano anche massoni, garibaldini, carbonari.

È ben noto che nel periodo del Risorgimento l’emigrazione politica italiana toccò e privilegiò varie capitali, Parigi e Londra prime tra tutte. È meno noto che essa fu presente anche in Tunisia ed in Algeria. Nel dettaglio, si annoverano in Tunisia i nomi di Luigi La Rotonda e Luigi Visconti, Pompeo Sulema, Gaetano Fedriani, Giuseppe Garibaldi, Benedetto Calò, Giuseppe Morpurgo. Dalla metà del secolo, il Paese divenne un centro importante per i mazziniani, il cui coordinatore locale rispondeva al nome di Licurgo Zannini. Algeri fu durante tutto il Risorgimento un centro di raccolta e propaganda di patrioti italiani, sostenuti dal palermitano Citati e dal genovese Schiaffino, imprenditori italiani molto conosciuti ed influenti, e dal dott. Rinaldo Andreini, il vero capo dei profughi mazziniani. Altri rifugiati ad Algeri, Federico Confalonieri e Carlo Pisacane. Non per niente, quando fu costituita la Legione Straniera nel 1831, il quinto battaglione fu composto esclusivamente da italiani emigrati politici.

 

Merita, a questo punto, raccontare, ancorché in modo molto sintetico, il rapporto tanto profondo, quanto sconosciuto, costruitosi nel tempo e consolidatosi negli ultimi cento anni.

Anni ’90 – Anni durante i quali il Paese è stato sul punto di soccombere sotto i colpi del terrorismo, secondo il racconto dettagliato fatto dal Capo di SM della Difesa algerina Mohamed Lamari nel corso dell’incontro di Roma del 17 e 18 luglio 2000 con il suo omologo italiano Mario Arpino e con i vertici politici e militari della Difesa italiana (il Ministro della Difesa, che ebbe con lui un lungo colloquio, era tal Mattarella). Aggiungendo, a conclusione del suo intervento; «L’Italia è stato l’unico Paese occidentale a non avere abbandonato l’Algeria; che, dopo averne sostenuto politicamente nei fori internazionali la guerra di liberazione, non ha diminuito la sua presenza neanche durante il periodo nero del terrorismo; è stato, infine, il primo Paese a stabilire voli regolari con la propria compagnia di bandiera. E questo il popolo algerino non lo dimenticherà mai!».

A che cosa si riferiva il generale Lamari?

Alla storia recente del suo Paese. Si può affermare che sotto l’ottica del terrorismo il periodo è stato caratterizzato dalla propaganda del FIS che fece leva sul sentimento religioso molto radicato; dal vertice politico molto debole; dalla conquista del potere amministrativo locale da parte del FIS e dalla pretesa di elezioni legislative immediate; dallo svolgimento del primo turno delle elezioni politiche stravinto dal FIS anche grazie all’intimidazione ed alle minacce; dall’interruzione del processo elettorale da parte dell’ANP (Armée Nationale Populaire) a causa dell’inesistenza di garanzie circa lo svolgimento trasparente delle elezioni e al fine di prevenire la sicura evoluzione islamista delle istituzioni del Paese; dalle navi pronte a trasportare da Iran e Sudan combattenti islamici destinati a rimpiazzare le oltre 300.000 persone condannate a morte dal FIS, facenti parte di elenchi ritrovati solo successivamente; dal passaggio delle componenti islamiste all’insurrezione armata e dalla formazione di un vero esercito (clandestino) di 27.000 persone; dalle forti difficoltà dell’esercito regolare, nel contrastare minaccia occulta e truppe clandestine; dall’organizzazione della reazione, resa lenta e difficile dalla mancanza di armi, munizioni e armamenti speciali e dal mancato sostegno dei Paesi arabi ed europei; dal contestuale progetto di imboccare la strada della pacificazione nazionale.

Anni durante i quali le organizzazioni terroristiche algerine ricevettero ingenti finanziamenti, godettero di risonanza mediatica e di coperture all’estero inimmaginabili, di rifornimento delle armi e dei materiali necessari alla conduzione della lotta armata, mentre alle Istituzioni non si concesse il minimo sostegno, o aiuto, o vendita d’armi, o fornitura neppure dei visori notturni necessari ad individuare gli assassini in azione, le katibat. Circa le motivazioni di questo rifiuto, la “guerra civile” in atto, il “colpo di stato” eseguito dai generali, le istituzioni “golpiste”, la perdurante violazione dei diritti umani da parte delle forze di lotta al terrorismo. Un continuo stillicidio da parte di Amnesty International ed altre organizzazioni di tutela dei diritti umani.

Le circostanze che contribuirono maggiormente all’esplosione del terrorismo in Algeria furono sicuramente la rivolta afgana contro l’invasione sovietica e l’ascesa di Khomeini.

In Iran, il 16 gennaio 1979 lo scià fu costretto a fuggire mentre Khomeini poteva instaurare una “repubblica islamica”, diventandone la guida spirituale.

Era nel frattempo maturata un’altra concomitanza internazionale che tanta importanza avrebbe avuto nel favorire l’esplosione, la crescita e la condotta del terrorismo algerino. Sul finire degli anni ’70, e per tutto il successivo decennio, giovani di tutto il mondo islamico furono mobilitati per soccorrere i fratelli Afgani nella loro resistenza contro l’invasore sovietico. Furono reclutati combattenti anche algerini e inviati in un primo momento a Djeddah, dove ricevettero un primo addestramento militare, e poi in campi d’addestramento alla frontiera tra il Pakistan e l’Afghanistan.

In materia di reclutamento dei giovani algerini, la stampa algerina della fine degli anni ’90[1] ha ripetutamente riportato che le reclute, prima di giungere a Kaboul via Peshawar, erano prese in consegna a Djeddah dai servizi segreti americani (CIA) o da Scotland Yard. In effetti, è in questa città di frontiera afgana che i «combattenti» venivano addestrati alla guerriglia ed alla tecnica degli attentati dai servizi americani e britannici.

Più nel dettaglio, secondo quanto riportato in molti dei volumi specializzati in materia, ma ispirandosi soprattutto al contenuto del libro «Les Afghans Algériens – De la Djamaâ à la Qa’îda», di Mohamed Mokeddem, pubblicato nel 2002 e all’articolo «Permissivismo di Londra sulle reti di sostegno» comparso sul quotidiano El Watan in data 2-3 febbraio 1998 a firma di Salima Tlemçani, si può affermare che la casa reale saudita si fece promotrice del reclutamento di giovani provenienti dai Paesi musulmani destinati a supportare sul campo i fratelli musulmani in difficoltà. Gli oneri derivanti dall’operazione furono interamente sostenuti dal Paese saudita, che, in Algeria, si avvalse della preziosissima opera di coordinamento di Mahfoud Nahnah – ancora lontano dal fondare il partito Hamas, d’ispirazione islamica – efficacissimo nel proselitismo e nel convincimento di ben 3.000 giovani inviati a combattere la guerra santa in Afghanistan.

Prima di giungere a destinazione, essi facevano tappa a Djeddah, dove venivano presi in consegna dalla CIA o da Scotland Yard. A Peshawar i «combattenti» venivano addestrati dai servizi americani e britannici a maneggiare armi ed a fabbricare ordigni esplosivi rudimentali. È stato insegnato loro come fosse possibile e facile fabbricare dal nulla una bomba o un lancia-granate. Furono, inoltre, addestrati alla condotta della guerriglia urbana ed all’esecuzione di attentati con incursioni micidiali dirette verso singoli obiettivi[2].

L’impiego sul campo, l’addestramento alle tecniche di combattimento ed una certa attitudine all’audacia vengono inculcate a questi combattenti da Oussama Ben Laden.

Il loop si richiude in Algeria, dove questi giovani fanno ritorno a guerra finita, imbevuti di ideologie rivoluzionarie nel nome di Allah, ispirati dalla riuscita dell’avventura khomeinista, impossessatisi dell’arte del combattimento e di una certa familiarità con armi ed esplosivi, investiti dall’onda d’urto della tragedia politico-sociale-economica algerina, disoccupati ancora più di quando erano partiti, pieni del rancore proprio di tutti i reduci, disadattati e spaesati, in una parola interpreti dello scontento popolare, che ritengono di dovere e potere facilmente cavalcare, interpretare ed estirpare.

Dopo la sconfitta delle truppe sovietiche in Afghanistan la jihad fu esportata in molti Paesi, in particolare in Cecenia, Cina, Filippine, Kenya, Etiopia, Egitto, Arabia Saudita e Algeria.

Il FIS, costituito formalmente il 18 febbraio 1989, aveva cominciato ad operare già dai fatti dell’ottobre 1988, soffiando sulla rivolta del pane. La stabile instaurazione della lotta armata in Algeria coincise con l’interruzione del processo elettorale del 1991/92, e, nello stesso periodo, con il ritorno degli algerini afgani, ossia di coloro che avevano combattuto in Afghanistan al fianco di Ben Laden e che a seguito del ritiro dell’Armata russa e della caduta di Kabul nel 1989 avevano generalmente preferito rimanere nelle regioni montane del Peshawar fino a quando le guide della LIM (Lega Islamica Mondiale) non li hanno persuasi a continuare la jihad nel loro Paese d’origine, e con la fondazione del GIA (Gruppo Islamico Armato).

Il processo di pacificazione avviato dal presidente Bouteflika a cavallo tra i due secoli, denominato “concordia Civile” scongiurò il pericolo islamista ed avviò il Paese verso la definitiva normalità.

 

Durante l’intero periodo, l’Italia fu l’unico Paese europeo ed occidentale che, oltre a non avere chiuso l’Ambasciata, come molti altri fecero, non ridussero di una sola unità gli organici diplomatici e consolari e le sue imprese continuarono ad operare regolarmente sul suolo algerino.

Grande e bella amicizia, le cui radici lontane si sono rinsaldate in occasione della guerra di liberazione algerina e grazie all’opera di Enrico Mattei.

Durante gli otto terribili anni della guerra di liberazione algerina nacque in Italia, prima in sordina e con grandissima paura che la cosa suonasse come ingerenza in una questione ‘interna’ francese, e poi sempre con maggiore coraggio man mano che – soprattutto spinta della sinistra – la Nazione sulla scia dell’antifascismo si spogliava del complesso di ex Paese colonialista e registrava la nascita di un poderoso movimento di solidarietà verso il popolo e la Nazione algerina, creando una straordinaria eco morale e civile.

Una strisciante crisi dell’atlantismo; l’avvento del centro-sinistra con la conseguente adesione al movimento internazionale di solidarietà anticolonialista e la marcata simpatia verso i movimenti d’indipendenza delle colonie e verso quello dei Paesi non allineati; la presa di coscienza della centralità mediterranea della storia e degli interessi politici ed economici nazionali; i quattro «Colloqui del Mediterraneo» tenuti a Firenze da Giorgio La Pira nel 1958-1960-1961-1964; le iniziative energetiche ed economiche di Enrico Mattei; quelle milanesi (aventi lo scopo dichiarato di raccogliere informazioni e dati sugli avvenimenti algerini; stabilire rapporti con la resistenza di quel Paese; sviluppare in Italia una vigorosa campagna informativa a favore del popolo algerino; aiutare concretamente i militanti francesi della lotta anticoloniale) di Vando Aldrovandi, Lelio Basso, Riccardo Bauer, Giangiacomo Feltrinelli, Franco Fortini, Giorgio Mondadori, Raniero Panzeri, Giovanni Pirelli, Rossana Rossanda, Saverio Tutino, Pino Tagliazucchi presso la Casa della Cultura (Casa della cultura che ospitò nello stesso periodo la conferenza di Claude Bourdet sulla Francia di fronte all’Algeria (08.02.61), la serata dell’11.04.61 in onore di Jean Paul Sartre, sponsor pro Algeria assieme a Simone De Beauvoir nei confronti degli intellettuali italiani, la conferenza del 15.02.62 di Ali Lackdari, rappresentante del GPRA); quelle “romane” di Ruggero Amaduzzi, Pasquale Bandiera, Giorgio Bassani, Luciano Benadussi, Francesco Calasso, Bartolo Ciccardini, Tristano Codignola, Celso De Stefanis, Franco Ferrarotti, Anna Garofalo, Franco Gerardi, Arturo Carlo Jemolo, Riccardo Lombardi, Lucio Luzzatto, Carlo Montella, Angelo Monteverdi, Alberto Moravia, Luciano Paolicchi, Ferruccio Parri, Giuseppe Patrono, Giacomo Perticone, Leopoldo Piccardi, Giovanni Pieraccini, Pier Luigi Sagona, Eugenio Scalfari, firmatari fra l’altro di un appello rivolto al Segretario delle Nazioni Unite in difesa del principio dell’autodeterminazione del popolo algerino.

Tutte le suddette iniziative contribuirono a far prendere coscienza all’intera Nazione dell’atrocità della causa algerina, di condividerne le aspirazioni e le finalità. La guerra d’Algeria era troppo vicina per potere essere più a lungo ignorata ed attraverso la sua presa di coscienza ed il sostegno fornito al Paese maghrebino segnò anche l’inizio per l’Italia della partecipazione solidale alle lotte dei popoli in via di decolonizzazione, Indocina, Palestina, Cile, Salvador. L’evento segnò una decisa sterzata nella direzione della politica estera italiana ed è grazie alla guerra d’Algeria che si prese coscienza del ruolo strategico del Mediterraneo, della necessità d’allacciare forme più concrete di amicizia e cooperazione con i Paesi della costa mediterranea del continente africano, della vocazione anticolonialista, terzomondista e neutralista che l’animo italiano fondamentalmente sentiva.[3]

Oggi il popolo italiano ha perso, si spera non definitivamente, questa sensibilità e vicinanza alle vicende ed alle sofferenze dei popoli vicini, quelli mediterranei beninteso, poiché è venuta meno quella spinta morale ed idealista della sua componente intellettuale. Né si può sperare che sia sospinta verso la sensibilizzazione per le sofferenze dei popoli dalla classe politica, che non è più mediterraneista, che in Mediterraneo si reca solo “per far la spesa” con un’arroganza che può possedere solo chi non conosce e non ha interesse a conoscere questi pregressi. Anzi, stimola il ritorno a cosiddette “nuove frontiere culturali” lontane mille miglia dal sentimento della solidarietà.

 

Non sarà più per molto tempo l’Italia di questa affermazione: «L’Italia è stato l’unico Paese occidentale a non avere abbandonato l’Algeria; che, dopo averne sostenuto politicamente nei fori internazionali la guerra di liberazione, non ha diminuito la sua presenza neanche durante il periodo nero del terrorismo; è stato, infine, il primo Paese a stabilire voli regolari con la propria compagnia di bandiera. E questo il popolo algerino non lo dimenticherà mai!»

[1] In particolare due articoli di Salima Tlemçani apparsi su El Watan del 2 e del 3 febbraio 1998.

[2] Citati articoli di Salima Tlemçani apparsi su El Watan del 2 e del 3 febbraio 1998.

[3] IBIDEM, pp. 313-328.

Enrico La Rosa