Progetto “Rotte Mediterranee, 1 – Lungo le rotte del corallo”

Convegno di Tunisi – 6 luglio 2017

Il dialogo inter-mediterraneo,

La crisi attuale e le possibilità di rilanciarlo

Le dialogue inter-Méditerranéen,

La crise actuelle et la possibilité de le relancer

Giovedì 6 luglio 2017 – 1000/1300 – Istituto Italiano di Cultura, Tunisi, 80 avenue Mohamed V

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Introduzione del Presidente di OMeGA

Desidero, innanzi tutto, ringraziare tutti coloro, Organizzazioni e singoli, che hanno creduto nel progetto e ne hanno reso possibile tutte le fasi del lungo cammino, sino al viaggio e al convegno di Tunisi. La Fondazione di Sardegna, che ha creduto nel progetto e l’ha finanziato, le Ambasciate italiane a Tunisi ed Algeri, gli Istituti Italiani di Cultura presso le medesime, l’Ambasciata di Algeria a Roma, l’Ordine dei Giornalisti italiani, il Circolo di Studi Diplomatici, e, a seguire, le seguenti istituzioni e organizzazioni che – nella maggior parte dei casi – hanno concesso patrocinio (P) ed uso del logo (L): Associazione dei Medici di origine Straniera in Italia (AMSI) (P-L); Associazione Uniti per Unire (UxU) (P-L); Capitaneria di porto/Guardia Costiera di Cagliari (P-L); Circolo Canottieri “Ichnusa”, Cagliari (P-L); Comunità del Mondo arabo in Italia (Co-mai) (P-L); COnsorzio Nazionale Interuniversitario per le Scienze del Mare (CONISMA); Federazione Nazionale Stampa Italiana (FNSI) (P-L); Gruppo giornalisti Uffici stampa (GUS) (P-L); Istituto nazionale per il Commercio Estero (ICE), recentemente rinominato ITA-Italian Trade Agency (P-L); Lega Navale Italiana (LNI) (P-L); Ordine dei Giornalisti (P-L); Sailing Club, Cagliari (P-L); Stato Maggiore della Marina italiana (P-L), con la concessione gratuita di sale per gli eventi congressuali; Unione delle Università del Mediterraneo (Unimed) (P-L).

Un sentito ringraziamento ai relatori che hanno accettato la sfida di un confronto tanto impegnativo e al pubblico presente in sala, qualificato e visibilmente interessato.

Spero di essere capace di spiegarvi le ragioni di questo progetto. E’ il primo speriamo di una lunga serie che vorremmo compiere per stimolare il dialogo mediterraneo e sensibilizzare i popoli rivieraschi sulla necessità di recuperare l’antico spirito collettivo e unitario nel loro stesso interesse, per costruire un futuro di pace prosperità e giustizia sociale alle generazioni future mediterranee, nello spirito della loro tradizione.

Per capire, occorre ripercorrere le varie fasi della storia del bacino.

Le vicende del Mediterraneo e lo stile di vita dei suoi abitanti hanno subito un lungo processo di integrazione. Il mare ha assistito alle vicissitudini di tutti i condottieri, delle navi armate, dei convogli che l’hanno attraversato in ogni direzione. L’azione aggregante di tutti i navigatori dai Fenici in poi è stata lenta, costante, inarrestabile. Siamo sicuri che sono ancora vivi i risultati dell’azione livellatrice dei tre grandi spalmatori ed armonizzatori del bacino. Tutte le caratteristiche antropologiche dei popoli mediterranei delle latitudini comprese tra quella delle Alpi e quella della catena dell’Atlante si sono potuti giovare sotto la dominazione di Romani, Bizantini e Ottomani, durata complessivamente tra i 15 (ad Occidente) ed i 19 (ad Oriente) secoli, di una capillare ed influente azione di armonizzazione e amalgama, progressiva, costante, lenta, senza interruzioni, che ha loro consentito un continuo e proficuo scambio e condivisione di cultura, abitudini, tradizioni, comportamenti, obiettivi, valori etici, gusti estetici, regole e parametri dell’interazione. Poi furono scoperti i nuovi mondi e le loro ricchezze aiutarono le grandi monarchie continentali ed i loro stati, condannando i Paesi mediterranei ad un lungo e inarrestabile declino, a rallentare il loro sviluppo filosofico, sociale, politico ed economico. Quasi tutti divennero colonie.

Il nord del mondo si sviluppò nel pensiero, nell’industria e nell’economia. Il Sud s’arrestò.

Il Sud era impegnato a liberarsi del giogo del colonialismo. Gli ex coloni lasciarono questi Paesi nelle mani di fantocci che li hanno sostituiti e dei dittatori che hanno scalzato questi proconsoli di paglia.

Oggi, in Mediterraneo, si continua a morire, anche più di prima, anche senza guerre.

Noi di OMeGA crediamo fermamente che esistano presupposti per migliorare le condizioni generali delle sponde del Mediterraneo.

E non solo per la comune storia, non per il carattere molto simile, non per il medesimo modo di intendere la vita e le sue regole. Non solo per le evidenti motivazioni di carattere antropologico.

Principalmente per la grande vitalità esistente al suo interno, per la vivacità delle intelligenze, per le grandi aspettative dei popoli, per le grandi potenzialità economiche e per la convenienza del mondo intero.

Un Mediterraneo pacificato non è solo un’idea romantica, ma la vera chance posseduta dal mondo. Al suo interno esiste un’enormità di energia, risorse umane giovani, vitali e in quantità. Grande creatività e know-how a sufficienza. Soprattutto, una concezione umana della realtà e della vita, forse un po’ meno utilitaristica e redditizia, ma sicuramente più prossima all’essenza della vita e alle regole del vivere umano.

Vi è solo un modo per riuscire in questa impresa

Battersi per una generalizzata presa di coscienza dei popoli circa la necessità di un ritorno a scenari condivisi ed esclusivi, alla gestione autoctona del Mare Interno, all’affrancamento dall’influenza decisamente interessata di attori estranei alla regione mediterranea E questo è il percorso auspicato da OMeGA per l’intera Regione.

Un Mediterraneo che punti alla nascita di una Community assolutamente paritetica di tutti i Paesi che vi si affacciano. L’empowerment, ossia l’emancipazione politica economica e sociale dal basso di una comunità che faccia del suo mare il fulcro delle proprie attività, nella quale il progresso parallelo dei componenti ed il reciproco sostegno privi di significato e di ragion d’essere il fenomeno dell’emigrazione clandestina. Di una comunità che decida di regolamentare senza interventi esterni e nel rispetto dei trattati internazionali, le attività possibili sulla superficie del proprio mare, nel proprio spazio aereo e sotto la sua superficie. Di una collettività composta di Paesi la cui pacificazione sia uno stato ed un processo di maturazione soggettiva, il frutto di un ritrovato bisogno di coesistenza pacifica, un interesse proprio e non solo la convenienza per gli equilibri mondiali. Che non sia più “consumatore finale” di beni e prodotti di multinazionali esterne al proprio contesto geografico.

OMeGA non ha ovviamente la forza di influire su decisioni così importanti, ma partendo dal basso, anch’essa, e con molta umiltà, ha deciso di fornire un contributo con l’ideazione di un progetto indefinitamente pluriennale, denominato “Rotte Mediterranee”, avente lo scopo di creare giornate di confronto e sinergie per mezzo di eventi congressuali ed incontri sul piano di tutti gli aspetti del vivere umano. Che interpreti la forte “voglia di vicinato”, anzi il bisogno di esso, che si respira nella Regione e risponda ad essa portando a termine progetti innovativi, di forte contenuto tecnologico, in possesso di ampi margini di sviluppo ed alto grado di flessibilità e adattabilità alle diverse situazioni, in grado di favorire l’incontro tra differenti realtà, necessità e prospettive. Che contempli l’incontro costruttivo e sinergico di soggetti delle diverse sponde nel campo della cultura, delle scienze del mare, dell’informazione, dell’imprenditoria, dell’artigianato, dei trasporti, del turismo, dell’antropologia dell’alimentazione e dell’abbigliamento e di tutte le attività che ruotano attorno all’uomo e al mare”.

Un sistema di convegni itineranti, portati a domicilio dei nostri potenziali interlocutori, compiendo un deciso salto di qualità nelle strategie dell’Osservatorio, che intende organizzare viaggi per le finalità esposte. Si cercherà di coinvolgere un uditorio sempre più numeroso ed influente, al fine ultimo di sensibilizzare i popoli sulla necessità di promuovere la pace attraverso iniziative che prendano le mosse dalla “pax mediterranea”, la coesione delle genti, la collaborazione dei suoi governanti, lo sforzo comune dei poli finanziari e commerciali autoctoni, il comune atteggiamento nei confronti di persistenti influenze esterne al bacino, il rigetto delle tentazioni terroristiche o armate, la rivalutazione del patrimonio culturale e antropologico comune”.

Il Mediterraneo ai Mediterranei”, si potrebbe riassumere così l’obiettivo ultimo di OMeGA, con due importanti corollari “Mediterraneo cerniera” e “Mediterraneo non più campo di battaglia degli intessi ad esso estranei”, ricordando quanto esatta fosse la definizione latina “Mare Nostrum”, nella quale il “nostrum” non si riferisce ai Romani, ma all’intera comunità mediterranea”.

 

Intervento del Prof. Marco Lombardi

0212201702Mi fa piacere esser qui con voi. Vengo dall’Università Cattolica di Milano e mi occupo in particolar modo di Sicurezza, Terrorismo e Analisi del Rischio.

In questo primo giro di interventi vorrei limitarmi a condividere con voi qual’è la prospettiva, il quadro generale nel quale collocare le relazioni mediterranee e in particolar modo tra la Tunisia, come Paese centrale del Nord Africa, e l’Italia.

Uso, mentre parlo, alcune slide, perché possono essere utili per focalizzare le idee.

Intitolerei il mio intervento Prospettiva e quadro generale delle relazioni mediterranee e dei rapporti della Tunisia con i rimanenti Paesi del Mediterraneo.

In questi ultimi mesi, con alcuni Think tank, abbiamo fatto diversi esercizi di previsione sui futuri scenari del Mediterraneo: l’ultimo esercizio di questo genere è assai recente, svolto con alcune Istituzioni italiane, per traguardare l’orizzonte al 2035.

0212201704Il punto di partenza consiste nel cercare di capire qual’è la minaccia attuale ed i rischi che si corrono. Quella che vedete alle mie spalle è una mappa del rischio e della sicurezza al 2017 che valuta i diversi Paesi del mondo, secondo un rank condiviso, al 2017.Vedete chiaramente che quella dimensione che consideriamo Sicurezza, dunque un bene comune necessario, esprime numerose criticità nella maggior parte degli Stati africani, spesso associato alla instabilità politica. Ma non solo: l’insicurezza complessiva del pianeta sta aumentando e pone sempre più domande di governance che devono coniugare la dimensione locale e la dimensione globale.

Gli scenari sviluppati per il 2017, tesi a sottolineare le minacce emergenti per probabilità e pericolosità, incrociano fattori economici, ambientali, geopolitici, sociali e tecnologici.

0212201703E’ chiaro dai dati che rischi ambientali e sociali specifici vengono stimati in crescita, ma io non credo che sia questa la cosa più importante, quanto è importante avere consapevolezza del sistema delle interdipendenze dei rischi che caratterizza oggi il mondo globale: rischi specifici sono booster per altri rischi creando un sistema ridondante. Infatti, il sistema di interdipendenze che siamo abituati a considerare si esprime attraverso il cosiddetto “effetto domino”, che fa sì che le cause di un fenomeno siano molteplici e che anche cause molto piccole possano determinare effetti molto grandi.

Questo vuol dire che prevedere il futuro è un esercizio molto difficile e che, troppo spesso, i modelli utilizzati non sono diversi dalle possibilità previsionali dell’osservazione dei fondi del caffè, fondati come sono sullo sviluppo lineare del futuro, incapaci di cogliere le singolarità e le novità che, spesso, generano le cosiddette crisi.

Ovviamente questa debolezza dei modelli non è una buona ragione per non cercare di prevedere il futuro, però deve essere una consapevolezza in chi sta cercando di prevederlo, perché una discontinuità di oggi, genera novità che non sono comprese nei modelli interpretativi che ci rappresentano lo scenario di domani.

A partire da questa consapevolezza si è cercato di capire dove andrà il Mediterraneo con gli esercizi dei vari Think tank.

Una delle affermazioni che ritorna più spesso, presente anche nel rapporto della National Security Agency (NSA), sottolinea che i trand previsionali stanno andando nella direzione sbagliata (incipit delle previsioni al 2035 pubblicate dalla NSA).

Con tutte le cautele dovute alla consueta incapacità americana di comprendere la politica internazionale, tuttavia questo è un segnale di allarme importante. E in ogni caso, gli USA sono un grande Paese, nei riguardi del quale ci interessa tenere conto delle opinioni che esprime, giuste o sbagliate che siano.

0212201705Nello specifico del Nord Africa, il problema riguarda il fatto che le riforme politiche ed economiche di cui l’area avrebbe bisogno si stanno muovendo più lentamente di quelle che sono le necessità che emergono dalla base di questi Paesi. La Tunisia, in particolar modo, si sta muovendo e si è mossa in contro tendenza rispetto agli indirizzi negativi, ma i processi avviati sono ancora dei processi lenti rispetto alle domande emergenti.

Questo generale ritardo nella risposta istituzionale ai bisogni diffusi favorisce l’emergere di attori extra statuali, capaci di rispondere in tempo più breve ai bisogni della popolazione.

Il rischio che corre tutta la regione è quello di una progressiva frammentazione in tanti piccoli pezzi sconnessi tra di loro o, oserei dire, che debbono andare a trovare nuove connessione in modelli diversi rispetto a quelli del passato.

0212201706Questo meccanismo di frammentazione investe prima il Mediterraneo, ma è generalizzabile nelle tendenze che stiamo vivendo a livello globale, soprattutto nel Vecchio Mondo, quel mondo che va dalle coste africane fino al centro dell’Europa.

Proprio le tecnologie, soprattutto le tecnologie della comunicazione dell’informazione, contribuiscono al rafforzarsi di queste forme di frammentazione dell’informazione: frammentano il mondo in una pluralità di tribù, che hanno il loro riconoscimento e le loro relazioni in contesti diversi da quelli delle grandi tribù che hanno calpestato la sabbia del Sahara, perché definiscono una nuova geografia del mondo virtuale. Ma un mondo virtuale che ha il medesimo senso di quello reale per i giovani nati negli ultimi 20 anni.

0212201707Il processo di frammentazione, politica, sociale, economica, identitaria genera incertezza cognitiva e favorisce il fallimento dei modelli interpretativi consolidati con un aumento del rischio complessivo.

Come affrontare la questione? Lancio un’idea provocatoria: acceleriamo la frammentazione politica riconoscendo che la situazione attuale è quella che sta decretando il fallimento delle entità statuali costruite sino al secolo scorso. L’Italia, l’Austria, la Francia, l’Algeria, la Spagna, la Libia: tutta queste entità statuali, così come le conosciamo, sono destinate a finire. La tensione che stiamo vivendo oggi è il tentativo di mantenere queste entità statuali così come si sono fondate in questi ultimi 200 anni, senza volerne riconoscere il superamento, decretandone la fine a favore di nuovi soggetti statuali e di un nuovo modello organizzativo e politico, fondato su soggetti statali più piccoli, inseriti in ampie reti.

 

Chiudo il mio primo intervento con queste ultime due slide.

La prima illustra la situazione nel Mediterraneo, quello che da anni chiamo “The ring of fire”. Il Mediterraneo (includendo il Meridione di Italia, le cui propaggini sono geograficamente più a sud di Tunisi) è una zona di conflitto già da anni, percorsa sempre più sia da traffici illeciti sia da tensioni politiche rilevanti. Una zona cruciale che si inserisce nel contesto della cosiddetta Guerra Ibrida, di cui la slide successiva.

Dalla Seconda Guerra Mondiale in poi siamo stati abituati a vedere una molteplicità di conflitti regionali. Ma, usando un gergo informatico, fino a qualche anno fa, erano stand alone, non connessi, non in rete. Quello che è successo negli ultimi decenni è stata la connessione tra i conflitti regionali: d’altra parte, quello che abbiamo teorizzato con il processo di globalizzazione è l’interconnessione dell’economia, dei media, delle culture e, dunque, perché non dovrebbe essere tra i conflitti? Da questa interconnessione nasce, andando oltre, il concetto di guerra ibrida, recentemente codificato dalla Nato, poco accettato sul piano politico.

Con semplicità questa forma di conflitto si può intendere così.

Immaginate un campo da gioco. In questo campo da gioco una squadra entra per giocare a Football. Arriva un’altra strada per giocare a Rugby. Arriva un’altra squadra che gioca a Pallavolo. Arriva l’arbitro, che pensa di arbitrare un incontro di Tennis. L’unica cosa in comune tra tutti i giocatori è che vi sono delle palle, anche di forma diversa: tutti tra di loro condividono le necessità di superarsi, ma non condividono né regole, né strategie, né tattiche: si tratta di un conflitto pervasivo, diffuso e delocalizzato ben lontano dal concetto di guerra asimmetrica precedente. E questa è la ragione, per esempio, per cui la Convenzione di Ginevra non funziona e il Diritto Umanitario non funziona.

Una prospettiva difficile da accettare perché, così declinata, costituisce il presupposto a poter parlare di Terza Guerra Mondiale in corso, uno scenario nei confronti dei quali non esiste alcuna forma politica attualmente compatibile. Da cui il rifiuto della politica per la guerra ibrida.

Mi fermo qui, il tempo è corso via, ma il mio secondo intervento verterà su come usciamo insieme da questa situazione.

Io credo che il dialogo Med-Med, cioè rimettere al centro il Mediterraneo, ricollocarlo nella pancia del mondo, sia il principio per cominciare a pensare forme politiche, forme organizzative, forme relazionali nuove. Credo che da questo punto di vista i nostri Paesi debbano fare molto: ricordo sempre che Tunisi è più a nord di Lampedusa.

Quindi, il liaison c’è, è necessario e forte: il Mediterraneo lo fanno la Tunisia e l’Italia. Certo, non la Svezia, non la Gran Bretagna, forse neanche i Francesi! E chiedo perdono!

 

Secondo intervento del Prof. Marco Lombardi

A seguito del mio primo intervento mi sono state fatte delle domande specifiche dal pubblico che riguardano i temi della sicurezza, migrazione e, più in generale, sulla mobilità.

In merito alla sicurezza, il principio è sviluppare politiche di riduzione del danno a breve termine e politiche di prevenzione a lungo termine.

La sicurezza a breve termine significa “impedire un attacco”, contenere dunque i possibili danni con strumenti, anche intrusivi, di controllo e, poi, di gestione della crisi.

A lungo termine, lavorare per la sicurezza, significa sviluppare politiche che rimuovano le ragioni che causano e motivano un attacco.

E’ molto chiaro e non c’è contrasto ideologico tra le due politiche. E’ la politica dei partiti che le vuole collocare su posizioni ideologiche differenti, i cattivi da una parte e i buoni dall’altra: ma la differenza tra politiche a breve o a lungo termine è solo nella timeline degli eventi: esse si collocano in tempi differenti nella gestione degli eventi e si sviluppano su percorso paralleli ma non alternativi.

Le emigrazioni rimandano al tema centrale della mobilità: si tratta pertanto di un fenomeno strutturale connesso inevitabilmente ai processi di globalizzazione. Dunque si tratta di un fenomeno non eliminabile ma che, ancor più per questa sua ragione di “necessità storica” deve essere governato. Anzi, meglio ormai dire: avrebbe dovuto essere governato.

Noi stiamo subendo un’assenza di governo del fenomeno migratorio che ha ormai una storia decennale.

In questo momento, a parer mio, ci dobbiamo dunque spostare dal governo delle migrazioni al governo della crisi generata dalle migrazioni: si è perso troppo tempo è ora la governance tocca farla sugli effetti del fenomeno, non sul fenomeno in sé. Si tratta di utilizzare i principi del “crisis management”, disciplina che ha criteri che sono propri e diversi dalla gestione normale dei fenomeni.

Il nostro Paese e l’Europa, prima l’Italia e poi l’Europa, stanno per implodere se non gestiremo questa crisi con urgenza. L’ho scritto di recente e so che do fastidio, ma i punti che sostengo sono:

  1. la Marina Italiana arretra operando entro le frontiere nazionali marittime;
  2. le NGO sono sottoposte al controllo diretto delle Law Enforcement Agencies;
  3. le navi che non battono bandiera italiane non sbarcano i “profughi” nei porti italiani;
  4. si rinforza la Marina libica, perché all’interno dei propri confini eserciti un controllo efficace;
  5. si rinforzano i confini terrestri a sud dell’area sahariana per gestire i flussi.

E’ possibile che per questo si abbiano migliaia di morti in mare. Oppure, per questo, si fermeranno gli schiavisti dei barconi. Non lo so. Ma è necessario avviare un piano di crisis management per gestire gli effetti che la mobilità incontrollata delle persone ha nel nostro Paese, sul piano del conflitto sociale emergente.

Ci sono delle regole internazionali e delle regole del mare. E’ vero che ci sono delle regole, le regole ci legano, ma il potere si misura sulla capacità di cambiare le regole. Le regole sono frutto della negoziazione. Se non sappiamo cambiare le regole, e allora ne siamo vittime, è un problema nostro, non delle regole.

Ma per chiudere in pochissimi secondi, voglio porre una questione più generale: quello che dobbiamo cambiare, secondo me, è la nostra prospettiva nel guardare il mondo.

Stiamo usando modelli cognitivi ormai superati.

Il sistema sta vivendo una crisi? La si colga come un’opportunità di cambiamento.

La crisi non può mai essere governata per tornare allo stato precedente alla crisi medesima: il cambiamento è inevitabile, accettiamolo consapevolmente per guidarlo riformulando obiettivi e regole rispetto alla mutata situazione.

La politica non sa governare perché non ha la capacità di interpretare la frammentazione e la mobilità, fenomeni del presente e del futuro, se non rispetto ad antichi paradigmi che in essi vedevano qualcosa da combattere: contrastare la frammentazione e controllare la mobilità.

Cioè, due fenomeni, frammentazione e mobilità, che sono il futuro, vogliamo ricondurli al passato.

Tant’è vero che la teoria politica tradizionale ha espulso il tribalismo dalle sue teorie. Il tribalismo che è il risultato della frammentazione.

La teoria politica tradizionale combatte il nomadismo in nome di un sedentarismo. Il nomadismo che è il risultato della mobilità.

Si tratta di una teoria politica vecchia, passatista, di stati sedentari, ottocenteschi, novecenteschi, fallimentari, superati, che si esprime con una classe politica internazionale che ha le stesse caratteristiche.

Se non cambiamo visione, continuiamo ad arrabattarci su misure che mettono delle toppe, e il nostro futuro sarà sempre limitato.

Il luogo del nuovo pensiero non può che essere il Mediterraneo, perché qui si espressero le prime culture che seppero dare cittadinanza alle prime forme di globalizzazione, intrepretando allora un motto che è stato recentemente rilanciato dalla più grande minaccia degli ultimi decenni: “stay and expanding”, il motto del terrorismo di Daesh.

Intervento del Prof. Germano Dottori

Vorrei parlare oggi di ciò che è successo in questi anni nel Mediterraneo, perché se non si comprende ciò che è accaduto nella parte di mondo in cui viviamo sarà molto difficile adattarvisi ed elaborare delle risposte politiche all’attuale stato d’emergenza. A mio avviso, il punto da cui dobbiamo partire è il cambiamento intervenuto nell’attitudine degli Stati Uniti nei confronti del Mediterraneo e dell’Europa. L’opinione pubblica americana si è stancata e seppure gli Stati Uniti siano rimasti la prima potenza politica, economica e militare del pianeta, i loro elettori non accettano più facilmente l’idea di proiettare forza verso teatri lontani. Il pubblico americano capiva molto bene che il comunismo internazionale rappresentava, sotto la guida dell’Unione Sovietica, una minaccia alla sicurezza degli Stati Uniti ed alla stabilità del loro modo di vivere ed organizzare la società e l’economia. Questa particolare circostanza giustificava anche agli occhi dell’americano comune un’attiva partecipazione del suo paese agli affari mondiali e, all’occorrenza, il ricorso alla forza. L’America era in effetti sfidata da un’altra superpotenza che era alla testa di un progetto di sovversione globale. Niente ha sostituito in questa funzione l’Unione Sovietica dopo la sua scomparsa e lo stato d’animo degli americani nei confronti del resto del mondo ne ha progressivamente risentito.

Se c’è un filo rosso che lega fra loro tutte le elezioni presidenziali svoltesi in America dopo lo scioglimento dell’Urss questo è rappresentato proprio dalla predilezione dimostrata in modo pressoché sistematico dagli elettori per il nuovo candidato che di volta in volta prometteva la riduzione degli interventi militari statunitensi all’estero.

George H.W. Bush fu sconfitto nel 1992 da Bill Clinton anche e forse soprattutto perché questi sostenne la tesi che non fossero più le armi il fattore decisivo alla preservazione della supremazia planetaria americana, ma l’economia. Ne derivò una spinta molto aggressiva sul versante della promozione della globalizzazione, un fenomeno che i francesi preferiscono chiamare mondializzazione. Una cosa simile si verificò otto anni dopo, quando toccò ad Al Gore di soccombere di fronte a George Walker Bush, che nella campagna presidenziale aveva manifestato tutta la sua contrarietà all’impiego dello strumento militare americano in lunghe, complesse e costose missioni all’estero di restaurazione della pace e ricostruzione degli Stati. Nel 2008, Barack Obama costruì a sua volta la propria candidatura alla Casa Bianca sul fatto che fosse stato l’unico senatore ad opporsi alla guerra contro l’Iraq e su queste basi travolse alle primarie del suo partito Hillary Clinton, che era invece un’interventista e quell’operazione contro Saddam aveva votato. Per Obama, l’America doveva districarsi dall’Iraq e più in generale dal Medio Oriente. Sconfisse utilizzando questi temi non solo la Clinton, ma anche il rivale repubblicano John McCain, che era, ed è, non meno interventista di Hillary. Questa storia si è ripetuta anche nel novembre scorso, quando la Signora Clinton ha ceduto il passo a Donald Trump, fautore di una linea moderata di relativo disimpegno degli Stati Uniti e dell’abbandono dell’esportazione armata dei valori americani.

Con Trump possiamo quindi ora immaginare una prosecuzione della tendenza recente della politica estera americana a ridurre l’esposizione militare diretta degli Stati Uniti sui teatri di crisi. L’attuale Presidente sembra seriamente intenzionato a modificare le linee guida dell’azione esterna dell’America. Occorre a questo proposito ricordare alcuni passaggi del discorso inaugurale tenuto da Trump all’inizio del suo mandato lo scorso 20 gennaio: in particolare quelli in cui precisava che la politica estera degli Stati Uniti avrebbe assunto a propria stella polare i propri interessi nazionali, riconoscendo contestualmente a tutti gli altri paesi del mondo il diritto di fare lo stesso. Con queste parole, infatti, Trump ha promesso all’intero pianeta che gli Stati Uniti non avrebbero più tentato di cambiare i governi dei loro avversari. Nessuno sarebbe stato demonizzato e tutto sarebbe diventato negoziabile, perché quando gli interessi vengono posti al centro della politica e della diplomazia ciò vuol dire che si può dialogare con qualsiasi interlocutore. Questa è una delle novità che lo “stato profondo” americano pare non aver ancora accettato. Ed è in fondo logico che la rifiuti, perché implica lo smantellamento delle fondamenta ideologiche dell’impero informale creato dagli Stati Uniti dopo il 1945.

Ci sono però delle conseguenze ulteriori, che ci riguardano più da vicino. In un mondo in cui l’America riduce la sua presenza anche nel Mediterraneo ed in Europa, si crea un vuoto geopolitico che altri paesi cercano di riempire. È ciò che è successo a latere delle Primavere Arabe, quando si è registrato il tentativo di Francia, Gran Bretagna e Turchia di occupare gli spazi abbandonati dagli Stati Uniti. Tutto ciò non è stato un esito imprevisto, ma probabilmente piuttosto un effetto pianificato a livello di strategia globale da parte americana. A Washington si desiderava infatti già ai tempi di Obama sostituire alla presenza militare diretta diffusa degli Stati Uniti altrettanti assetti regionali basati sull’equilibrio locale di potenza. Si è perduta però della stabilità, perché la ricerca dell’equilibrio di potenza è un processo lungo e complesso. Noi ci troviamo esattamente nel bel mezzo della transizione a questo tipo di nuova situazione.

È del tutto improbabile che sia prossimo il tramonto degli Stati Nazione. Non hanno i giorni contati. Potranno certamente fallire alcuni Stati, capita anzi anche troppo spesso, ma quando ciò accadrà si formeranno altri Stati più o meno grandi, che li sostituiranno. È inevitabile, perché lo Stato è lo strumento finora più avanzato di cui gli esseri umani si siano dotati per governarsi. Non si può pensare di rimpiazzare gli Stati con organismi internazionali posti ad un livello più alto, se non al prezzo di rinunciare alla democrazia. Non c’è possibilità di sviluppo per i processi democratici quando ci si sposta al piano sovranazionale in cui dominano le élites tecnocratiche. La storia ci dice chiaramente che Germania ed Italia, per fare due esempi, si unificarono proprio per rendersi indipendenti e sottrarsi alla soggezione a qualche altro potere. Perché dovrebbero tornare indietro? Dal mio punto di vista, noi siamo i testimoni di una vera e propria crisi politica in cui sono sprofondati tutti i paesi che si affacciano sul Mediterraneo, tanto sulla sponda meridionale quanto su quella settentrionale. Lo abbiamo constatato anche in occasione delle recenti elezioni francesi, che hanno spazzato via il vecchio sistema politico per crearne uno del tutto nuovo, del tutto diverso rispetto a quello che avevamo conosciuto fino a poche settimane prima del voto. Quanto all’Italia, il suo sistema politico l’ha già cambiato diverse volte dalla fine della Guerra Fredda e probabilmente si accinge ad una trasformazione ulteriore il prossimo anno.

La circostanza non è veramente sorprendente: in fondo, la maggior parte dei sistemi politici messi in discussione dalla profondità della crisi esplosa in questi anni è stata concepita per un altro ambiente internazionale, diverso e forse meno complicato di quello odierno. Siamo quindi condannati ad una fase di adattamento durante la quale dovremo cercare di risolvere dei problemi servendoci di una strumentazione inadatta, tanto dal punto di vista istituzionale quanto sotto il profilo delle forze militari a nostra disposizione.

Consideriamo qualche esempio: gli americani chiedono da lungo tempo all’Italia di farsi carico della ricostruzione politica della Libia. Fin dal suo primo incontro con Matteo Renzi, Barack Obama gli ha detto: “la Libia è affar vostro. Spetta a voi di stabilizzarla”, possibilmente in modo tale da evitare che venga assoggettata dai francesi, dai britannici o dagli egiziani. Ma l’Italia non ha potuto far molto.

In verità, né l’Italia, né la Francia e neppure la Gran Bretagna, così come tanti altri paesi europei, dispongono di strumenti militari all’altezza di queste sfide. Nella loro forma attuale, in effetti, le forze armate degli Stati europei sono state allestite dopo la caduta del Muro di Berlino in funzione dell’obiettivo di offrire capacità complementari a quelle degli americani sugli scenari di crisi, che s’immaginavano tutti geograficamente più o meno remoti. Hanno così mantenuto forze operative indipendenti assai limitate ed in genere anche piuttosto leggere. L’Italia ha ad esempio una Marina militare che all’occorrenza può operare anche da sola, ma non si può dire altrettanto del suo Esercito, che pure ha dato buona prova di sé quando inserito in contesti multinazionali più ampi, ma risulta al momento praticamente privo di carri armati. E anche l’Aeronautica ha dei problemi, perché non dispone di un parco munizioni sufficientemente dotato per sostenere campagne di lunga durata perfino contro un paese come la Libia di Gheddafi. Questa è la realtà. Ecco perché siamo costretti ad esplorare altre vie.

Poi ci scontriamo con percezioni che sono all’origine di altri ostacoli. Visto da Nord, ad esempio, il Mediterraneo s’identifica attualmente soprattutto con i problemi connessi al controllo dei flussi migratori illegali e alla sfida del terrorismo, questioni che si tende a vedere come collegate, derivando in parte dagli effetti della destabilizzazione intervenuta con le Primavere Arabe in tutta la regione. A questo proposito è bene ricordare come nella sua lotta al terrorismo jihadista l’America di Obama avesse scommesso sull’ascesa dell’Islam politico, insieme alla Turchia ed al Qatar. Il suo tentativo è però naufragato con la destituzione del Presidente Morsi, deposto anche a causa dell’appoggio dato dall’Arabia Saudita a tutti i movimenti che gli si opponevano fino al putsch, mentre gli Stati Uniti restavano inerti a guardare. Il processo rivoluzionario si è così interrotto alla metà del suo percorso. Molti degli eventi verificatisi successivamente hanno la loro causa nel collasso di questo disegno di trasformazione dell’ordine politico regionale ed interno ai singoli paesi coinvolti appoggiato dagli Stati Uniti.

Trump ha parzialmente invertito la rotta: ha firmato una specie di tregua con l’Arabia Saudita. E di tregua si tratta perché, seppure formalmente alleate, America ed Arabia Saudita sono state di fatto in guerra dall’indomani degli attacchi dell’11 settembre 2001 a Washington e New York. In questi 16 anni, non si può dire che nessuno dei contendenti abbia vinto. Le lunghe e costose campagne militari intraprese dagli Stati Uniti in Medio Oriente hanno indebolito la determinazione dell’opinione pubblica americana a sostenere gli interventi militari all’estero, mentre proprio nel tentativo di condizionare l’America, colpire la Russia e danneggiare l’Iran la corte di Riyadh non ha esitato a minare le basi della propria ricchezza. Inondando i mercati di greggio, ne ha fatto crollare il prezzo, con l’effetto di aprire un deficit pari al 13% del Pil nel suo bilancio statale. Per rimediare, il Regno ha considerato di imporre per la prima volta delle tasse. E si è pensato di far cassa anche cedendo quote dell’Aramco. Il dissesto non si è limitato alla finanza pubblica: è esplosa, infatti, anche la disoccupazione, circostanza che non mancherà di produrre guasti sociali rilevanti. Così, si può dire che la sfida l’abbiano perduta entrambi. Ciò non vuol dire peraltro che si debba sminuire l’importanza della scelta strategica fatta da Trump nel momento in cui ha affidato ai sauditi la responsabilità di risolvere la questione di sicurezza legata al terrorismo jihadista, anche perché nell’intesa è stata inserita una decisiva condizionalità. Se l’Arabia Saudita non onorerà il compito assegnatole, perderà il sostegno degli Stati Uniti di fronte all’Iran. Ai sauditi gli americani hanno appena venduto un massiccio quantitativo di armi, ma si tratta in larga misura di sistemi che non potranno essere utilizzati senza l’attiva collaborazione del personale militare statunitense. In pratica, l’Arabia Saudita è stata commissariata. C’è da augurarsi che questa nuova strategia funzioni e sia risolutiva, perché al momento nessuno può dire come andrà a finire. Le incognite maggiori si legano agli esiti del duello che Riyadh ha ingaggiato con il Qatar, perché se Doha si piegherà in tempi rapidi, le cose potranno prendere una piega positiva. Ma se il Qatar s’impuntasse e resistesse, potrebbe verificarsi un’impennata diffusa degli attacchi terroristici, prima nel mondo musulmano e poi anche in Europa. Sarebbe un terrorismo che colpirebbe per condizionare le scelte di politica estera degli Stati, specialmente nel Continente europeo.

Ogni governo dovrebbe infatti scegliere se sostenere i sauditi o appoggiare il Qatar. E si tratterebbe di un problema serio, perché ci sono paesi come l’Italia che hanno considerato finora un punto di forza della loro strategia diplomatica l’opzione di non schierarsi con nessuno in particolare, per cercare invece un equilibrio tra tutti i possibili punti di riferimento. E ce ne sono di altri, come la Francia, che hanno invece cambiato partner con grande disinvoltura. Parigi ha prima investito sul Qatar, poi si è riorientata su Riyadh, probabilmente in cambio di importanti contropartite economiche, scegliendo di difendere gli interessi sauditi nel gruppo dei 6+1 che negoziava con l’Iran, salvo affacciarsi a Teheran a caccia di nuove opportunità subito dopo la firma degli accordi di Vienna. Non ci si può meravigliare che la capitale francese sia diventata un bersaglio dei terroristi. Dietro quegli attacchi c’è infatti una logica, la logica che riflette il carattere contraddittorio di una politica estera. Il cambio continuo degli interlocutori può implicare la reazione del partner che viene di volta in volta tradito e gli attentati possono essere parte della sua risposta. Il terrorismo, in genere, non è infatti un fenomeno del tutto indipendente dagli Stati. È anzi piuttosto spesso uno strumento della loro azione e se non si operano i necessari collegamenti, finisce che si diventa incapaci di capire cosa stia accadendo. La strage del Bataclan precedette di un giorno la prima visita alla Francia del Presidente iraniano Hassan Rouhani e ne comportò il rinvio.

E’ molto importante che il terrorismo sia sconfitto, ma a questo scopo è decisivo che ritorni un minimo di stabilità. In assenza di stabilità si rivelerà impossibile anche controllare i flussi migratori, che a loro volta incidono sulla coesione dell’Unione Europea. Una gestione fallimentare delle migrazioni è il singolo fattore di rischio più grave che incombe sul futuro del processo di integrazione europea. Gli accordi di Schengen e quelli di Dublino sono sotto grande pressione.

Prima di terminare questo intervento, vorrei anche esprimere alcuni concetti in materia di guerra ed in particolare di guerra ibrida, per tornare sopra argomenti che sono stati trattati prima che io prendessi la parola.

Innanzitutto, la guerra non ha regole. Ed il fatto di non averne è parte della sua essenza. Ci sono stati molti tentativi nella storia di disciplinare la guerra, ma le regole di cui la comunità internazionale si è dotata per gestire il fenomeno bellico sono state sempre applicate con difficoltà e quasi mai completamente. C’è infatti molto spesso qualcuno che le infrange per vincere. Perché la guerra non è come le Olimpiadi: l’importante non è parteciparvi, ma ottenere la vittoria. Quanto alla guerra ibrida, si tratta solo di una catch word di quelle cui ricorrono frequentemente gli anglosassoni quando vogliono attirare l’attenzione su realtà di loro interesse, in questo caso il fatto che i nostri amici russi hanno imparato come fronteggiare alcune tecniche di destabilizzazione utilizzate anche contro di loro.

In realtà, dietro la guerra ibrida di nuovo c’è veramente poco. Se andiamo a vagliarne il contenuto scopriamo infatti che il concetto non differisce granché da quelli che descrivono le strategie indirette e, soprattutto, alcune di quelle asimmetriche.

Sono queste ultime ad aver introdotto delle vere novità, rivoluzionarie per certi versi, perché costruite sulla negazione delle basi della cultura militare occidentale. Le strategie asimmetriche tendono infatti a tramutare in altrettante vulnerabilità i fattori di forza dell’avversario. S’innescano con provocazioni controllate, generalmente ma non esclusivamente, da parte del combattente più debole nei confronti del più forte, di cui si persegue la reazione più che proporzionale, in modo tale da indurre la delegittimazione politica del suo sforzo, tanto sul piano interno quanto a livello internazionale. Enfatizzandone il carattere intrinsecamente paradossale, a questo proposito Yesser Arafat era solito affermare: “più mi attaccano e più mi rafforzo”. Quanto infine alla propaganda e agli attacchi sotto falsa bandiera cui pure si può ricorrere in questi contesti, sono strumenti in realtà antichi quanto la civiltà umana. Grazie.

Intervento del Prof. Mhamed Hassine FANTAR,

Professeur émérite des universités

Per un Mediterraneo di solidarietà

Il Mediterraneo: è sufficiente pronunciare il nome che sorgono Micenei, Fenici, Greci, Cartaginesi, Iberi con Tartessos, Etruschi, Romani, Bizantini, Arabi e altri popoli e culture le cui impronte digitali sono ovunque visibili, in particolare nei paesi del Maghreb, Grecia, Italia, Spagna, Francia, Portogallo e Malta, questo arcipelago, che è il cuore del Mediterraneo. Ma cosa è il Mediterraneo?

Cosa significa il Mediterraneo? Oltre alla geografia e ad una storia vecchia come il mondo, costituisce una geopolitica. Lungi dall’essere una barriera, assicura l’osmosi tra popoli e culture. Nei secoli della pietra, ha fatto collegamenti tra il Nord e il Sud: le grotte abitate e le costruzioni megalitiche lo testimoniano. Alle grotte di Cassibile e Pantalica in Sicilia corrispondono le grotte di El Harouri a Khroumirie Mogods in Tunisia. Ancora prima, c’è la cultura Ibero-Mauritana a raccontare gli scambi che avvenivano tra Spagna, Portogallo e paesi del Maghreb. Tra questi due universi, una volta e oggi, c’è solo un passo da fare. Prima di essere Gibilterra, quelo stretto è stato le colonne Milqart-Hercules, un antico dio fenicio che proteggeva la fondazione di Gades, Lixus, Nora, Palermo, Utica, Cartagine, Leptis, Sabratha, Rachgoun etc. Malta li ha serviti come porto di scalo e di rifugio. La penisola iberica ha ricevuto i fenici e i cartaginesi. Sarebbe meraviglioso parlarne. Nessuno può raccontare la storia della Spagna senza ricordare Amilcare, Asdrubale, Annibale e i suoi due fratelli, e, di conseguenza, tutte le realizzazioni dell’antica civiltà assicura che fiorì nel Mediterraneo orientale, nei vasti territori irrigati dalle acque del Tigri, l’Eufrate e il Nilo.

A tutti questi attori mediterranei dobbiamo l’invenzione dell’individuo e la creazione della Città con le sue strutture e le sue istituzioni. Ma con la fondazione di Cartagine, gli scambi sono stati intensificati dalla diversificazione. Sette secoli durante i quali la metropoli punica è stata come una nave alla fonda, pronta a navigare: la sua flotta frequentava i porti della Sicilia, Magna Grecia, Grecia, Asia Minore, Sardegna, Malta, Corsica, Spagna, Portogallo, Algeria, Marocco, della Libia oltre Cirene, sulle rive del grande Sirte.

Alla fine del VI secolo aC, Cartagine e Roma hanno firmato un trattato di cooperazione e di buon vicinato. Con il tempo e le generazioni, è stato aggiornato e adattato alla congiuntura. Polibio, storico greco del II secolo aC, mantiene le varie versioni, l’ultima delle quali risale al 279 aC.

Alla fine del conflitto scoppiato tra i due stati sulla Sicilia, Amilcare Barca ricevette l’ordine di evacuare la rocca di Erice, e di negoziare la pace con le autorità romane. Doveva andare a Cartagine, che salvò schiacciando la rivolta dei mercenari. Nel 237 a.C. partì per la penisola iberica. Suo figlio Annibale lo accompagnava; aveva allora solo nove anni. Fu l’inizio di un progetto Ispano-Cartaginese: i Barcidi riuscirono a sedurre e ad essere ammessi nell’universo iberico. Era un vero e proprio dialogo culturale. Asdrubale, il bello, fondò Cartagena; Annibale sposò una principessa iberica. I due gruppi etnici mischiarono il loro sangue, le loro culture e il loro know-how per generare una nuova cultura e una nuova società la cui gestazione è stata purtroppo interrotto dalla violenza della seconda guerra punica stessa. Perché questa guerra? Molte risposte sono state proposte in base alle letture che fanno parte di una riflessione storicista spesso schiava della storiografia antica. Per Annibale, a nostro umile parere, non era una questione di distruggere Roma. Sembra essersi voluto impegnarsi in una guerra dissuasiva nella speranza di un Mediterraneo tripolare, anche multipolare. Ecco perché il patto con Filippo V di Macedonia. Alla domanda retorica del cosa sarebbe successo se Annibale avesse vinto la guerra, possiamo dire che avremmo avuto tre potenze mediterranee responsabili dell’equilibrio del mondo di allora: Roma, Cartagine, e la Macedonia in rappresentanza del mondo greco. Ma Roma voleva risolutamente rimanere l’unica e incontrastata potenza. Così ha dovuto distruggere e Cartagine, e Corinto nel 146 a.C.

E’ stato durante questo conflitto che assistiamo alla nascita dei regni di Numidia e Mauritania con gli Aguellidi come Massinissa, Syphax, Baga e i loro successori. Essi hanno partecipato allo sviluppo del commercio nel Mediterraneo. I re Numidi avevano rapporti con le città greche; come i Cartaginesi, erano filo-elleni. Secondo Livio, Mastanabal, figlio di Massinissa, re di Numidia, era “Graecis litteris eruditus”. Le dinastie dei Bocchidi e dei Bogud in Mauretania, corrispondente al’attuale Marocco, non potevano rimanere isolate dalla penisola iberica. Dopo la conquista romana e la fine della guerra civile, Cesare, vincitore a Thapsus, in Tunisia, a poche miglia sulla costa a sud di Sousse, l’antico Hadrumetum, ha lasciato un testamento che affidava al figlio adottivo e suo successore il nobile compito di rilanciare la metropoli punica, antica rivale di Roma, ripristinando tutto il prestigio del suo nome semitico: Cartagine.

In tal modo, egli voleva dire che non delenda è Karthago. Cartagine è immortale. Avendo capito il messaggio, Virgilio si impegnò a cantare la Saga Romano-Africana. Per farlo e per avere successo, il cantore di Augusto si appellava a due muse: Clio per la storia e Melpomene per il canto e il romanticismo. Il mito fondante di Cartagine viene riportato in circolazione aeternum. Enea si rivolge a Didone, la regina fondatrice di Cartagine, con queste parole: “No, non è nel nostro potere, Didone, riconoscere la tua benignità degnamente, né il potere di quello che rimane della nazione dardana, sparsi sulla vasta terra. Che gli dei, se sono divinità favorevoli alla pietà, e se la giustizia e l’amore del bene hanno davvero valore per loro, essi vi daranno i premi che meritate. Che secolo fortunato ti ha visto nascere! Che genitori notevoli hanno dato alla luce una principessa come te! Finché le ombre delle foreste copriranno i fianchi delle montagne, finché il cielo nutre le costellazioni, la tua gloria, il tuo nome e la tua lode dimoreranno fra noi, in qualsiasi luogo dove il destino mi chiami”.

Quando lo storico evoca la memoria di Cartagine e la sua immaginazione, non può passare in silenzio nomi maestosi come quelli di Enea e di Augusto.

Con la romanizzazione, i paesi del Maghreb e dell’Europa mediterranea vennero a coesistere in un ampio spazio in cui l’unità non si oppose alla diversità. Era un vero insieme vivo, una certa globalizzazione che favoriva le differenze etno-culturali per far crescere i vantaggi. I paesi di Cartagine, Numidia, Mauretania, Tripolitania e Cirenaica formarono le province dell’Africa Romana.

È il Maghreb di oggi. Senza paranoia o schizofrenia, si può dire che i Maghrebini di allora hanno messo le loro capacità e il loro genio per contribuire a costruire la romanità, sia materiale che spirituale. Come l’Italia, la Spagna, il Portogallo, la Gallia, Malta, l’Egitto, la Siria, la Palestina, ecc., I paesi del Maghreb erano anche coinvolti nella realizzazione e nell successo di un progetto civilizzatore in cui la globalizzazione non esclude le specificità. Per secoli tutti questi paesi hanno parlato la lingua di Virgilio e Livio. Fiero della sua romanità, Apuleio di Madaure sidiceva mezzo numida e mezzo getulo. Rivolgendosi ai suoi concittadini di Cartagine, disse loro:

“E quale titolo di lode è più grande e più forte di celebrare Cartagine, dove vedo tra voi, nella intera città, uomini colti ​​e versati in tutte le scienze: bambini da istruire, giovani per adornarsene, anziani per insegnarle! Cartagine, la veneranda scuola della nostra provincia, Cartagine, Musa celeste dell’ Africa, Cartagine, finalmente, dea propizia delle persone che indossano la toga “.

Riferendosi al contributo letterario di Apuleius, Jean d’Ormesson, membro della Académie française, gli ha conferito il titolo di Padre fondatore del romanzo. Nell’Africa romana, Apuleio non era un figlio unico. Nell’ambito della letteratura e delle arti l’Africa libico-punica e romana ha dato vita a molte altre figure illustri. Paul Monceaux ha dedicato loro un emozionante lavoro pubblicato in Francia alla fine del XIX secolo. Ecco perché i Maghrebini possono dire che i nostri antenati erano anche romani, e oggi possiamo rivendicare un patrimonio libico-punico e romano.

I nostri paesi hanno anche sperimentato l’epopea del Dio unico. Non dobbiamo forse ricordarci la Cartagine paleocristiana, e la onoriamo per aver creato e nutrito Tertulliano, Cipriano, Agostino, Perpetua e altri servitori della fede cristiana? Non possiamo non esaltare la memoria di Tertulliano, che aveva osato scrivere a Scapola, proconsole di Cartagine: “E’ legge umana e diritto naturale che ciascuno possa amare ciò che vuole. La religione di un individuo non danneggia o serve ad altri. Non appartiene a una religione il contrastare un’altra religione “.

Come l’Europa del Mediterraneo, anche i paesi del Maghreb hanno subito le violenze e i danni delle invasioni barbariche e sperimentato le atrocità del fanatismo religioso. Più tardi, ci fu la conquista araba che, apportando una lingua e una religione, ha creato le condizioni favorevoli per lo sviluppo della cultura e della conoscenza. La Spagna, il Portogallo, la Sicilia, la Francia si e Malta sono stati i semi e le talee arabi – magrebine. La civiltà arabo-islamica non è una; si impose molteplice. È in questa prospettiva che la si dovrebbe vedere in Sicilia. È arabo-islamica, ma generata sia dagli arabi sia dagli indigeni acculturati, vale a dire, dai conquistatori e conquistati; che dovevano l’uno e l’altro versare i loro contributi nel grande fiume dell’arabismo, che presenta sia come somma che come sintesi. È la somma di tutte le culture dei popoli integrati, ma è anche il risultato della loro interferenza. A contatto, queste diverse culture reagiscono l’uno sull’altro o uno rispetto all’altro e alla fine secernono un nuovo prodotto culturale. In Sicilia, la civiltà arabo-islamica è una vera e propria alchimia. Per coglierne la specificità, dobbiamo tener conto di molti parametri: la geografia, la storia, vale a dire, il tempo e lo spazio, struttura e le condizioni, l’essenza e la contingenza. In ogni caso, non si può accusare i conquistatori arabi di xenofobia né, tanto meno, di genocidio, un crimine che non hanno commesso. È quindi necessario evitare le presunzioni e relativizzare il loro ruolo nella genesi e nella formazione della cosiddetta civilizzazione araba. È così, perché prodotta e veicolata dalla lingua del Corano. Deve le sue forme e alcuni dei suoi contenuti al genio della lingua araba e al soffio dell’islam. Questi sono i due strumenti che hanno modellato l’argilla di questa civiltà. Ma questi strumenti sono stati utilizzati sia dagli arabi che da persone di culture diverse, vale a dire, i popoli arabizzati che non hanno mancato di sfruttare per i loro prodotti i materiali acquisiti dagli arabi per arricchire e formare, a loro modo e in armonia con il loro ambiente, la nuova civiltà. È quindi abbastanza normale riconoscere il suo carattere multiplo.

Per secoli (828-1266), la Sicilia fu un campo fertile in cui una civiltà arabo-islamica con specificità occidentali o cristiane, potè mettere radici, fiorire e realizzare prodotti materiali e di ingegno nlle scienze pure, come nelle lettere e nelle arti. Palermo era la sua capitale dai molti splendori; è servita come residenza per governatori Aghlabidi e Fatimidi prima di aprirsi ai principi Kalbiti (947-1040) e vedere il meraviglioso fiorire dei re normanni,che non hanno esitato a portare nomi arabi. Ruggero II di Sicilia è stato chiamato Al Mu’tazz Bi Allah, mentre suo figlio William ha preso il nome Al Hadi Bi Allah. Nella corte di entrambi gli studiosi arabi, poeti, tecnici e artigiani sono stati accolti e messi in condizione di lavorare. Édrissi, anche se di cultura arabo-islamica, non ha esitato a servire Roger II, il re cristiano di Sicilia. Durante il regno di Federico II di Svevia, la civiltà araba ¬islamica ha continuato a fiorire in Sicilia, nonostante gli atteggiamenti ostili di alcuni ambienti cristiani ancora agitati dallo spirito di crociata.

Cosa possiamo dire oggi di questa civiltà araba in Sicilia? Forse è necessario ricordare alcuni fatti senza andare in troppo dettaglio. La conoscenza della Sicilia araba è costantemente arricchita e diffusa. I fondi pubblici e le collezioni private possono ancora offrire piacevoli sorprese. In collaborazione con l’Università di Al-Manar, l’Istituto Italiano di Cultura di Tunisi ha organizzato un evento culturale per la presentazione della versione araba dei tre superbi volumi del lavoro che Michele Amari ha dedicato alla storia dei Musulmani in Sicilia. Va aggiunto che possiamo ancora vedere i resti di questa civiltà: una moschea nei pressi della Chiesa di San Giovanni degli Ermiti a Palermo, i resti del palazzo della Fawara, costruita ad Agrigento, al momento della Kalbiti.

Altre influenze dell’architettura araba si possono vedere in Galatamauro, Castel del Monte, Ziza e Cuba o nella famosa cappella palatina del Palazzo dei Normanni a Palermo. Costruito tra 1132 e 1143, la decorazione della navata centrale “è costituita da due file di grandi rosette, riccamente decorate con figure isolate e arabeschi ornamentali e incorniciato da stelle ottagonali, diciotto dei quali di questi contengono iscrizioni in Kufico … La parte inferiore del soffitto, composta di stalattiti tipici della decorazione islamica, è caratterizzata da una sovrapposizione di innumerevoli consoles. Il tetto inclinato delle navate laterali è fatta di scanalature profonde che si estendono in semicerchi decorate con busti di personaggi. Tutti gli elementi decorativi sono evidenziati in nero e l’intero soffitto è dipinto con colori vivaci: rosso, blu, verde, bianco e oro”.

Nel valutare i risultati del dialogo etno-culturale tra Spagna, Portogallo e paesi del Maghreb, si deve andare a Cordoba, Granada, Siviglia o Beja, la patria di Avempace, un grande filosofo, emula di EI-¬Ghazali nel XII secolo. In queste metropoli andaluse si può ammirare l’urbanistica i palazzi, le abitazioni, l’idraulica, i bagni, i souk, le medersas, le moschee, ecc.

Cordoba, capitale del Califfo Omayyade dal 756 al 1031, ne arricchì la sua bellezza e gloria. Era orgogliosa dei suoi molti edifici. Ma la meraviglia delle sue meraviglie rimane senza dubbio la moschea la cui fondazione risale all’inizio della dinastia Omayyade. Per due secoli si è lavorato per ingrandirla e abbellirla. In questo spazio sacro colpiscono le forme meravigliose, i volumi, gli archi, le colonne e la loro disposizione; è anche notevole ciò che è scolpito, dipinto o inciso. Nelle immediate vicinanze di Cordoba, i califfi avevano costruito due città: Al-Zahra durante il regno di Abderrahman III (912-961) e Al-Zahra, la fiorente città in cui al-Mansur (976-1009) ha stabilito il suo governo e la sua uffici .

L’altro polo dello splendore andaluso è rappresentato da Granada, la cui Alhambra è uno dei risultati più belli. In questa metropoli ispano-araba, abbiamo l’opportunità eccezionale di conoscere gli edifici, i palazzi, l’architettura domestica e anche l’arte del giardinaggio del tempo della dinastia Nasrida (1238-1492).

Ci sono splendori che non cessano mai di abbagliare. Riflettendo sulle fonti che avevano ispirato gli autori anonimi di questa architettura dai molti splendori, gli storici ritengono di percepire vari echi: storie coraniche, storie bibliche, leggende circa la regina di Saba e il suo rapporto con Salomone; credono di trovarci anche il riflesso dell’antica architettura della Mesopotamia Sassanide e dell’Impero Bizantino, i cui edifici furono ovunque visibili. Dovremmo aggiungere il miraggio della città delle mille e una notte, con le sue costruzioni mitiche con muri avvolti d’oro e incrostati di pietre preziose?

Questa architettura, di cui conosciamo solo i principi mecenati, rimane ancor oggi affascinante perché colpisce tutti i sensi: la vista per forme e volumi così come per i brillanti colori; profumi inebrianti; con il fruscio delle acque (getti e fontane presenti ovunque) si rende piacevole all’udito. Passando attraverso le gallerie e i portici, la mano sensuale non può resistere alla seduzione di marmi scolpiti o modellati. Con i giardini dei palazzi o dei padiglioni costruiti fuori dai muri, ci si ricordadeil Paradiso, un’altra fonte di ispirazione dell’architetto e voto di tutti i credenti.

Ma questo è solo un aspetto dell’espressione materiale; ci sarebbe molto da dire sul verbo, sulle scienze e sulle tecniche: letteratura, poesia, storia, geografia, medicina, astronomia, matematica, ecc. In questi diversi settori, i contributi dell’Andalusia furono notevoli e continuano a meritare l’ammirazione del mondo. Furono il frutto di un vero dialogo delle culture. Tra le figure principali di questa brillante civiltà Ispano-Araba, dobbiamo ricordare Averroè e Maimonide. Durante questi secoli di grandezza e quelli che seguirono la caduta di Granada nel 1492, i paesi del Maghreb e quelli della penisola iberica continuavano ad ascoltarsi l’uno per l’altra, nel bene e nel male.

L’Europa e il Maghreb, in particolare la Tunisia, hanno quindi fette di storia comune, che vanno dai secoli che vanno dalla prototipazione al giorno d’oggi. I paesi del Nord e del Sud del Mediterraneo hanno condiviso i contributi dei Fenici dei Greci, dei Romani e degli Arabi. Proprio come c’è un romanticismo maghrebiano, c’è anche un arabismo europeo. Anche la prova coloniale deve essere presa in considerazione, senza odio o complessità. È la nostra storia; dobbiamo esplorarla per una migliore conoscenza di noi stessi e sfruttarla per il bene della cooperazione in pace, amicizia e solidarietà. Abbiamo un patrimonio comune; per secoli abbiamo condiviso lingue, forme, immagini, comportamenti, credenze, paesaggi, situazioni di felicità e disgrazia. Chiedete di Annibale, Aristotele, Virgilio, Averroè, Maimonide, Agostino, Federico II e molti altri. Non siamo forse fatti per vivere insieme in armonia senza cancellare le nostre differenze, che dobbiamo, al contrario, considerare come fonti di ricchezza?

Sulla base di questa constatazione, cosa possiamo fare per una migliore vita insieme? Quali progetti potremmo progettare e realizzare in comune? Cosa fare per vivere e far riuscire una così bella avventura? Questo è ciò che i Greci chiamavano “il buon rischio”. “Il mondo è a rischio”, scrive Georges Bernanos, nel 1938, “domani il mondo sarà di chi rischierà di più, di chi si assumerà più fermamente il suo rischio.”

Per il successo di una così bella impresa, il prendere in considerazione la nostra storia comune, il nostro patrimonio comune e il dialogo sono necessità primarie. Ma attenzione al concetto di dialogo! Queste non sono conversazioni semplici, colloqui piacevoli, né negoziati laboriosi, soprattutto quando si tratta di un dialogo interculturale. Che cosa è allora il dialogo tra culture e religioni? per rispondere a questa domanda fondamentale, possiamo dire che si tratta di una questione di conoscenza e di riconoscimento, accettando reciprocamente il rispetto delle nostre differenze e il desiderio di conoscerle e di metterle a lavorare per la prosperità, la convivenza e il benessere. Devo conoscerti e riconoscerti rispettando le tue differenze con un buon cuore e, da parte tua, dovete conoscermi e riconoscerti rispettando le mie differenze volentieri facendo tutto per conoscerle senza il minimo vincolo e senza riserva. È l’apertura all’altro per accettarlo e amarlo con le sue differenze.

Il progetto non è semplice. È una lotta per la giustizia e la pace: è una conquista culturale. Sono necessari sforzi; dobbiamo inventare la pedagogia del dialogo interculturale e interreligioso. I nostri programmi devono mirare a vivere insieme in tutta la sua ricchezza e complessità. Ma preliminarmente dobbiamo credere nella necessità e nei vantaggi del vivere insieme e dell’agire in modo che l’idea diventi una realtà vissuta. Questo non è il posto per presentare qui un piano o un programma. Forse, tuttavia, è necessario suggerire la creazione di un forum di riflessione. Ci sono proposte fatte da personalità accademiche, mediatiche e politiche. Il ruolo della società civile deve essere rivitalizzato: accademici, comunicatori, opinion makers, business leaders e altri, qualunque siano i loro orizzonti, devono mettere le loro conoscenze, il loro talento, la loro immaginazione e le loro abilità nel servizio di vivere insieme senza escludere, né le differenze o le ambizioni che, legittimamente, non dovrebbero in alcun modo minare l’equità. La società civile deve agire a favore del dialogo tra culture e religioni. Gli attori della società civile e gli accademici del nord e del sud devono combinare i loro sforzi in favore del progresso, della libertà, della giustizia, della solidarietà e della libera circolazione delle persone, delle merci e della conoscenza. Al fine di federare iniziative e stabilire l’osmosi tra laboratori e centri di ricerca nazionali e regionali, sarebbe utile istituire un Istituto di Studi Prospettici a livello europeo e Mediterraneo ?

Come che sia, per riuscire a vivere insieme in pace e solidarietà, il ruolo degli attori politici, socioeconomici e accademici mi sembra fondamentale. Devono incontrare, consultare, condividere informazioni e ridurre il divario digitale in modo che le speranze di oggi diventino le esperienze di domani. I paesi mediterranei, in partenariato con l’Unione europea e la sua partecipazione attiva come parti interessate, devono inventare una struttura in cui le loro élite intellettuale e le personalità scientifiche, politiche e socioeconomiche possano incontrarsi per fissare obiettivi e concordare accordi pratici. Forse è necessario ricordare la necessità di costruire uno spazio euro-mediterraneo di scambi, ridicendo le divisioni per sostituirle con ponti e passerelle multiple. In tal modo, dobbiamo difendere insieme valori universali come la giustizia, la pace, la solidarietà, la democrazia, il rispetto per gli altri, qualunque cosa sia, e qualunque sia la loro cultura e le convinzioni religiose. Ma per l’efficacia della loro azione, gli accademici nell’area euro-mediterranea devono aprire la loro struttura agli attori economici e agli organi dell’intera società civile in modo che esista un’osmosi e che le decisioni prese siano adeguate e ben accolte.

È così che la ricerca e le imprese possono andare di pari passo. Così concepita, questa struttura euro-mediterranea garantirà lo scambio e la mescolanza tra le rive del Mediterraneo, cioè tra accademici, attori economici, decisori politici e amministrativi. Si può quindi sperare di ridurre il divario cognitivo e di colmare le lacune del divario socioeconomico a beneficio di tutti. All’interno di questo think tank, potranno essere studiate importanti questioni regionali e globali come l’ambiente, l’acqua, la povertà, la malattia, la società della conoscenza, l’agricoltura, il turismo, la pace nel mondo, i diritti umani, la desertificazione, l’energia e molte altre questioni.

Ma nel frattempo, il processo potrebbe essere avviato creando una struttura bi-o multilaterale che accolga studiosi, ricercatori, comunicatori, esperti economici, leader aziendali, ecc. Per scambiare idee e condividere conoscenze e talento al servizio del Mediterraneo e dell’Africa. A questo proposito, la Tunisia mi sembra favorevole a questa partnership bilaterale. Sarebbe un bel matrimonio tra l’Europa e l’Africa nel suo complesso. Per essere e diventare mediterranei dobbiamo guardare alla buona salute di questo mare generoso e come nutrirlo in modo che rimanga quello che è sempre stato: una fonte di ricchezza e di felicità, uno spazio dove è bello vivere, nella pace, sicurezza e solidarietà con tutti i popoli del mondo. Dobbiamo anche garantire la conservazione e la valorizzazione del patrimonio archeologico e storico, senza frontiere. È il nostro patrimonio comune, la nostra storia comune. Si tratta di un progetto esaltante per cui tutti i popoli del Mediterraneo devono, mano a mano, contribuire a farne una realtà vissuta.

Intervento del Prof. Mhamed Hassine FANTAR, Professeur émérite des universités

La Méditerranée, il suffit d’en prononcer le nom pour que surgissent les Mycéniens, les Phéniciens, les Grecs, les Carthaginois, les Ibères avec Tartessos, les Etrusques, les Romains, les Byzantins, les Arabes et bien d’autres peuples et cultures dont les empreintes sont partout visibles, notamment aux pays du Maghreb, en Grèce, en Italie, en Espagne, en France, au Portugal et à Malte, cet archipel qui constitue le cœur de la Méditerranée. Mais Qu’est-ce que la Méditerranée.

Que signifie donc la Méditerranée? En plus de la géographie et d’une histoire vieille comme le monde, elle constitue une géopolitique. Loin d’être une barrière, elle assure l’osmose entre les peuples et les cultures. Aux âges de la pierre, elle tissa des liens entre le Nord et le Sud: les grottes aménagées et les constructions mégalithiques en témoignent. Aux grottes de Cassibile et de Pantalica en Sicile correspondent et répondent les grottes d’El-Harouri, de Khroumirie et des Mogods en Tunisie. Mais auparavant, il y eut la culture ibéro-maurusienne pour raconter les échanges qui se faisaient entre l’Espagne, le Portugal et les pays du Maghreb. Entre ces deux univers, autrefois comme aujourd’hui, il n’y a qu’un pas à franchir. Avant Gibraltar, ce furent les colonnes de Milqart-Héraclès, une vieille divinité phénicienne qui protégea les fondateurs de Gadès, Lixus, Nora, Palerme, Utique Carthage, Leptis, Sabrata, Rachgoun, etc. Malte leur servait d’étape et de refuge. La péninsule ibérique a bien reçu les Phéniciens et les Carthaginois. Il serait merveilleux d’en parler. Nul ne peut raconter l’histoire de l’Espagne sans évoquer Amilcar, Asdrubal, Hannibal et ses deux frères, et, de ce fait, tous les acquis de la veille civilisation qui prospéra en Méditerranée orientale, irriguée par les eaux du Tigre, de l’Euphrate et du Nil.

A tous ces acteurs méditerranéens, nous devons l’invention de l’individu et la création de la Cité avec ses structures et ses institutions. Mais avec la fondation de Carthage, les échanges s’intensifièrent en se diversifiant. Sept siècles durant, la Métropole punique était comme un navire à l’ancre, prêt à appareiller: sa flotte fréquentait les ports de Sicile, de Grande Grèce, de Grèce, d’Asie mineure, de Sardaigne, de Malte, de Corse, d’Espagne, du Portugal, d’Algérie, du Maroc, de Libye jusqu’au-delà de Cyrène, au bord de la grande Syrte.

Dès la fin du VIème siècle avant J.C., Carthage et Rome, signèrent un traité de coopération et de bon voisinage. Au fil du temps et des générations, il fut mis à jour et adapté à la conjoncture. Polybe, historien grec du second siècle avant J.C., nous en garda les différentes moutures, dont la dernière remonte à 279 avant J.C.

Au terme du conflit qui éclata entre les deux Etats au sujet de la Sicile, Hamilcar Barca reçut l’ordre d’évacuer la forteresse d’Eryx, et de négocier la paix avec les autorités romaines. Il dut se rendre à Carthage qu’il sauva en écrasant la révolte des mercenaires. En 237 avant J.C., il partit pour la péninsule ibérique. Son fils, Hannibal l’accompagna; il n’avait alors que neuf ans. Ce fut le démarrage d’un projet hispano-carthaginois : les Barcides réussirent à séduire et à se faire admettre au sein de l’univers ibérique. C’était un véritable dialogue culturel. Asdrubal, le beau, fonda Carthagène; Hannibal épousa une princesse ibère. Les deux ethnies conjuguèrent leur sang, leurs cultures et leur savoir-faire pour générer une nouvelle culture et une nouvelle société dont la gestation fut hélas perturbée par la violence de la seconde guerre dite punique. Pourquoi cette guerre? On a proposé de multiples réponses selon des lectures qui relèvent d’une réflexion historicisante souvent esclave de l’historiographie antique et marquée par la conjoncture. Pour Hannibal, à notre humble avis, il ne s’agissait pas de détruire Rome. Il semble avoir voulu s’engager dans une guerre dissuasive dans l’espoir d’une Méditerranée tripolaire, voire poly polaire. Voilà pourquoi le pacte avec Philippe V de Macédoine. A la question relative au faciès du monde si Hannibal avait gagné la guerre, on peut dire qu’en Méditerranée on aurait eu trois puissances responsables de l’équilibre du monde d’alors: Rome, Carthage, et La Macédoine représentant le monde grec. Mais Rome voulait tenacement rester l’unique et incontestable Puissance. Aussi dut-elle détruire et Carthage et Corinthe en 146 avant J.C.

C’est au cours de ce conflit que nous assistons à l’émergence des royaumes de Numidie et de Maurétanie avec des Aguellids comme Massinissa, Syphax, Baga et leurs successeurs. Ils participèrent à l’intensité des échanges en Méditerranée. Les rois numides avaient des rapports avec les cités grecques; comme les Carthaginois, ils étaient philhellènes. D’après Tite–Live, Mastanabal, fils de Massinissa, roi de Numidie, était «Graecis litteris eruditus». La dynastie des Bocchus et des Bogud en Maurétanie qui correspondrait au Maroc, ne pouvait, quant à elle, rester à l’écart de la péninsule ibérique. Après la conquête romaine et la fin de la guerre civile, Jules César, vainqueur à Thapsus, en Tunisie, à quelques kilomètres sur la côte au sud de Sousse, l’antique Hadrumetum, laissa un testament qui confiait à son fils adoptif et successeur par le génie et par la force des armes, la très noble tâche de ressusciter la Métropole punique, l’antique rivale de Rome, en lui restituant tout le prestige de son nom d’origine sémitique: Carthage.

Agissant ainsi, il laissait entendre que non delenda est Karthago. Carthage est immortelle. Ayant compris le message, Virgile se chargea de chanter la Saga romano-africaine. Pour ce faire et le réussir, le chantre d’Auguste fit appel à deux muses: Clio pour l’histoire et Melpomène pour le chant et la romance. Le mythe fondateur de Carthage est remis en circulation aeternum. Énée s’adresse à Didon, reine fondatrice de Carthage, en ces termes: «Non, il n’est pas en notre pouvoir, Didon, de reconnaître dignement tes bienfaits, non plus qu’au pouvoir de ce qui reste de la nation dardanienne, dispersée sur la vaste terre. Que les dieux, s’il est des divinités favorables à la piété, si la justice et l’amour du bien ont quelque part leur prix, te procurent les récompenses dont tu es digne. Quels siècles fortunés t’ont vu naître ! Quels parents considérables ont donné le jour à une princesse telle que toi! Tant que les fleuves courront à la mer, tant que les ombres des forêts couvriront les flancs des montagnes, tant que le ciel nourrira les constellations, sans cesse ta gloire, ton nom et tes louanges demeureront parmi nous, en quelque lieu que le destin m’appelle».

Quand l’historien évoque la mémoire de Carthage et son imaginaire, il ne saurait passer sous silence des noms majestueux comme ceux d’Enée et d’Auguste.

Avec la romanisation, les pays du Maghreb et l’Europe méditerranéenne eurent à cohabiter dans un grand espace où l’unité ne s’opposait guère à la diversité. C’était un véritable vivre ensemble, une certaine mondialisation qui favorisait les différences ethno-culturelles pour en faire fructifier les avantages. Le pays de Carthage, la Numidie, la Maurétanie, la Tripolitaine et la Cyrénaïque formaient alors les provinces de l’Africa romana. C’est le Maghreb d’aujourd’hui. Sans paranoïa ni schizophrénie, on peut dire que les Maghrébins de l’époque mirent leurs acquis et leur génie à contribution pour participer à faire la romanité au matériel et au spirituel. A l’instar de l’Italie, l’Espagne, le Portugal, la Gaule, Malte, l’Egypte, la Syrie, la Palestine, etc., les pays du Maghreb étaient, eux-aussi, parties prenantes pour la réalisation et la réussite d’un projet civilisationnel où la globalisation n’exclut pas le spécifique. Pendant des siècles, tous ces pays parlaient la langue de Virgile et de Tite-Live. Fier de sa romanité, Apulée de Madaure se disait mi numide, mi gétule. S’adressant à ses concitoyens de Carthage, il leur dit:

«Et quel titre à louange plus grande et plus solide que de célébrer Carthage, où je ne vois parmi vous, dans la cité entière, que des hommes cultivés, et où tous sont versés dans toutes les sciences: enfants pour s’en instruire, jeunes gens pour s’en parer, vieillards pour enseigner! Carthage, école vénérable de notre province, Carthage, Muse céleste de l’Afrique, Carthage enfin, Camène du peuple qui porte la toge».

Evoquant l’apport littéraire d’Apulée, Jean d’Ormesson, membre de l’Académie française, lui a décerné le titre de Père fondateur du roman. Pour l’Africa romana, Apulée n’était pas fils unique: au domaine des lettres et des arts, l’Afrique libyco-punique et romaine, donna naissance à bien d’autres figures illustres. Paul Monceaux leur consacra un passionnant ouvrage paru en France à la fin du XIXe siècle. Voilà pourquoi, nous autres Maghrébins, nous pouvons dire que nos ancêtres étaient, eux- aussi, romains et qu’aujourd’hui, nous pouvons nous prévaloir d’un héritage libyco-punique et romain.

Nos pays ont également vécu l’épopée du Dieu Unique. Ne faut-il pas se souvenir de la Carthage paléochrétienne et lui rendre hommage pour avoir engendré et nourri Tertullien, Cyprien, Augustin, Perpétue et bien d’autres serviteurs de la foi chrétienne? On ne peut pas ne pas exalter la mémoire de Tertullien qui avait osé écrire à Scapula, proconsul de Carthage: «Il est de droit humain et de droit naturel que chacun puisse adorer ce qu’il veut. La religion d’un individu ne nuit ni sert autrui. Il n’appartient pas à une religion de contraindre une religion».

Comme l’Europe méditerranéenne, les pays du Maghreb subirent, eux-aussi, les méfaits des invasions barbares et connurent les atrocités du fanatisme religieux. Plus tard, il y eut la conquête arabe qui, apportant une langue et une religion, créa les conditions favorables à l’épanouissement de la culture et du savoir. L’Espagne, le Portugal, la Sicile, la France elle-même et Malte ont reçu des graines et des boutures arabo-maghrébines. La civilisation arabo-islamique n’est pas une; elle s’impose multiple. C’est dans cette perspective qu’il convient de la percevoir en Sicile. Elle est arabo-islamique, mais générée et par des Arabes de souche et par des autochtones acculturés, c’est-à-dire, par les conquérants et par les conquis; ils eurent, les uns et les autres, à verser leurs acquis dans le grand fleuve de l’arabité qui se présente à la fois comme une somme et une synthèse. C’est la somme de toutes les cultures des peuples intégrés mais c’est également le résultat de leurs interférences. Mis en contact, ces diverses cultures réagissent les unes sur les autres ou les unes par rapport aux autres et finissent par sécréter un nouveau produit culturel. En Sicile, la civilisation arabo-islamique relève d’une véritable alchimie. Pour en saisir la spécificité, il faut prendre en compte de nombreux paramètres: la géographie, l’histoire, c’est-à-dire, le temps et l’espace, la structure et la conjoncture, l’essence et la contingence. En tout état de cause, on ne saurait accuser les conquérants arabes de scénophobie, ni, encore moins, de génocide, d’un crime qu’ils n’avaient pas commis. Aussi faut-il éviter les présomptions et relativiser leur rôle dans la genèse et la formation de la civilisation dite arabe. Elle est telle, parce que produite et véhiculée par la langue du Coran. Elle doit ses contenants et une part de son contenu au génie de la langue arabe et au souffle de l’islam. Voilà les deux outils qui ont modelé l’argile de cette civilisation. Mais ces deux outils ont été utilisés par des Arabes et par des allogènes d’origines différentes, c’est-à-dire, des peuples arabisés qui n’ont pas manqué de puiser dans leurs acquis respectifs des matériaux pour enrichir et façonner, à leur manière et en harmonie avec leur environnement, la nouvelle civilisation. Il est donc tout à fait normal d’en reconnaître le caractère multiple.

Pendant des siècles (828-1266), la Sicile fut un champ fertile où une civilisation arabo-islamique aux spécificités occidentales, voire chrétiennes, put s’enraciner, fleurir et produire dans le matériel mais aussi dans les sciences pures, les lettres et les arts. Palerme en était la capitale aux multiples splendeurs; elle servit de résidences aux gouverneurs aghlabides et fatimides avant de s’ouvrir aux princes Kalbites (947-1040) et de voir s’épanouir les merveilles des rois normands qui ne se gênaient pas de porter des noms arabes. Roger II de Sicile se nomma Al Mu‛tazz Bi Allah, alors que son fils Guillaume porta le nom d’Al Hâdi Bi Allah. Dans la cour de l’un et de l’autre, des savants, des poètes, des techniciens et des artisans arabes étaient bien accueillis et mis à contribution. Édrissi, bien que de culture arabo-islamique, ne se gênait pas de servir Roger II, roi chrétien de Sicile. Sous le règne de Frédéric II Hohenstaufen, la civilisation arabo-¬islamique continua de flamboyer en Sicile, nonobstant les attitudes hostiles de certains milieux chrétiens encore agités par l’esprit de croisade.

Que peut-on dire, aujourd’hui, de cette civilisation arabe de Sicile? Peut-être faut-il rappeler quelques faits sans trop entrer dans les détails. La connaissance de la Sicile arabe ne cesse de s’enrichir et de se répandre. Les fonds publics et les collections privées peuvent encore nous réserver d’agréables surprises. En collaboration avec l’université Al- Manar, l’Istituto Italiano di Cultura a Tunisi organisa une manifestation culturelle pour la présentation de la version arabe des trois superbes volumes de l’œuvre que Michele Amari avait consacrée à l’Histoire des Musulmans en Sicile. Il convient d’ajouter qu’on peut encore y admirer les vestiges de cette civilisation: une mosquée près de l’Eglise San Giovanni degli Ermiti à Palerme, les restes du palais de la Fawara, bâti à Agrigente à l’époque des Kalbites.

D’autres influences de l’architecture arabe sont perceptibles dans la Galatamauro, au Castel del Monte, dans la Ziza et la Cuba ou encore la fameuse chapelle palatine du Palais des Normands. Construite entre 1132 et 1143, la décoration de sa nef centrale «consiste en deux rangées de grandes rosaces, richement décorées de personnages isolés et d’arabesques ornementales et encadrées par des étoiles octogonales, dont dix-huit d’entre elles contiennent des inscriptions en Coufique… La partie inférieure du plafond, composée de stalactites typiques de la décoration islamique, est façonnée à partir d’une superposition d’innombrables consoles. Le toit en pente des nefs latérales est fait de cannelures profondes qui se terminent en demi-cercles décorés de bustes de personnages. Tous les éléments décoratifs sont soulignés de noir et le plafond tout entier est peint en couleurs brillantes : rouge, bleu, vert, blanc et or»

Pour apprécier le résultat du dialogue ethno-culturel entre l’Espagne, le Portugal et les pays du Maghreb, il faut se rendre à Cordoue, à Grenade, à Séville ou à Béja, la patrie d’Avempace, un très grand philosophe, émule d’EI-¬Ghazali au XIIe siècle. Dans ces métropoles andalouses, on peut admirer l’urbanisme, les palais, les habitations, l’hydraulique, les bains, les souks, les medersas, les mosquées, etc.

Capitale du Califat omeyyade de 756 à 1031, Cordoue en profita pour sa beauté et sa gloire. Elle était fière de ses nombreux édifices. Mais la merveille de ses merveilles demeure incontestablement la Mosquée dont la fondation remonte au début de la dynastie omeyyade. Durant deux siècles, on s’évertuait à l’agrandir et à l’embellir. Dans cet espace sacré, le merveilleux relève des formes, des volumes, des arcs, des colonnes et de leur agencement; il relève également de la décoration sculptée, peinte ou gravée. Aux environs immédiats de Cordoue, les Califes firent construire deux autres cités: AI-Zahra sous le règne de Abderrahmane III (912-961) et AI-Zahira, la cité florissante où Al-Mansour (976-1009) installa son gouvernement et ses bureaux.

L’autre pôle de la splendeur andalouse est représenté par Grenade dont l’Alhambra constitue l’une des plus belles réalisations. Dans cette métropole hispano-arabe, nous avons la chance exceptionnelle de pouvoir connaître les édifices palatiaux, l’architecture domestique et même l’art du jardin au temps de la dynastie nasride (1238-1492).

Voilà des splendeurs qui ne cessent d’éblouir. S’interrogeant à propos des sources qui eussent inspiré les auteurs anonymes de cette architecture aux multiples splendeurs, les historiens croient y percevoir des échos divers: récits coraniques, récits bibliques, légendes relatives à la reine de Saba et à ses rapports avec Salomon; ils croient y saisir également le reflet d’architectures antiques de la Mésopotamie sassanide et de l’empire byzantin dont les édifices étaient partout visibles. Faut-il y joindre le mirage de la cité des mille et une nuits et ses édifices mythiques aux parois lambrissées d’or et incrustées de pierres précieuses?

Cette architecture, dont on ne connaît que les princes promoteurs, retient, parce qu’elle flatte tous les sens: la vue par les formes et les volumes ainsi que par le chatoiement des couleurs; les parfums enivrent; le bruissement des eaux (jets et fontaines partout présents) se fait plaisant à l’ouïe. En traversant les galeries et les arcades, la main, sensuelle, ne peut résister à la séduction des marbres sculptés ou moulurés. Avec les jardins des palais ou des pavillons bâtis extra muros, l’on se rappelle le Paradis, une autre source d’inspiration de l’architecte et vœu de tous les croyants.

Mais ce n’est là qu’un aspect de l’expression matérielle; il y aurait beaucoup à dire sur le verbe, les sciences et les techniques: littérature, poésie, histoire, géographie, médecine, astronomie, mathématiques, etc. Dans ces multiples secteurs, les apports de l’Andalousie furent considérables et continuent de mériter l’admiration mondiale. C’est le fruit d’un véritable dialogue des cultures. Parmi les figures de proue de cette brillante civilisation hispano-arabe, il faut se souvenir d’Averroès et de Maïmonide. Au cours de ces siècles de grandeur et ceux qui suivirent la chute de Grenade en 1492, les pays du Maghreb et ceux de la Péninsule ibérique restèrent à l’écoute réciproque pour le meilleur et pour le pire.

L’Europe et le Maghreb, notamment la Tunisie ont donc des tranches d’histoire commune, couvrant des siècles qui s’étalent de la protohistoire à nos jours. Les pays du Nord et du sud de la Méditerranée ont su partagé les apports des Phéniciens des grecs, des Romains et des Arabes. De même qu’il y a une romanité maghrébine, il y a bien une arabité européenne. L’épreuve coloniale doit être, elle aussi, prise en compte, sans haine ni complexe. C’est notre histoire; nous nous devons de l’explorer pour une meilleure connaissance de nous-même et de l’exploiter au profit de la coopération dans la paix, l’amitié et la solidarité. Nous avons donc un héritage commun; pendant des siècles, nous avons partagé des langues, des formes, des images, des comportements, des croyances, des paysages, des situations faites d’heur et de malheur. Interrogez en Hannibal, Aristote, Virgile, Averroès, Maïmonide, Augustin, Frédéric II, Hohenstaufen et bien d’autres. Ne sommes-nous pas faits, pour vivre ensemble dans la concorde sans gommer nos différences, qu’il faut, bien au contraire, considérer comme autant de sources de richesse?

Partant de ce constat, que pouvons-nous faire pour un meilleur vivre ensemble? Quels projets pourrions-nous concevoir et réaliser d’un commun accord ? Que faire pour vivre et réussir une si belle aventure? C’est ce que les Grecs appelaient «le beau risque». «Le monde est au risque, écrit Georges Bernanos, en 1938, le monde sera demain à qui risquera le plus, prendra plus fermement son risque».

Pour le succès d’une si belle entreprise, la prise en compte de notre histoire commune, de notre patrimoine commun et le dialogue s’avèrent une nécessité primordiale. Mais attention au concept de dialogue! Il ne s’agit, ni de simples entretiens, ni d’agréables causeries, ni de laborieuses négociations, surtout quand il est question de dialogue interculturel. Qu’est-ce donc le dialogue des cultures et des religions? pour répondre à cette question fondamentale, on peut dire qu’il s’agit de nous connaître et de nous reconnaître en nous acceptant les uns les autres avec le respect de nos différences et le désir de les connaître et de les mettre à contribution pour la prospérité, le vivre-ensemble et le mieux-être. Je me dois de vous connaître et de vous reconnaître en respectant de bon cœur vos différences et, de votre côté, vous vous devez de me connaître et de me reconnaître en respectant de bon cœur mes différences en faisant tout pour les connaître sans la moindre contrainte et sans réserve aucune. C’est l’ouverture sur l’autre pour l’accepter et l’aimer avec ses différences.

Le projet n’est pas simple. Il s’agit d’un combat pour la justice et la paix: il s’agit d’une conquête culturelle. Des efforts sont nécessaires; il nous faut inventer la pédagogie du dialogue interculturel et interreligieux. Nos programmes doivent avoir pour objectif le vivre-ensemble dans toute sa richesse et dans toute sa complexité. Mais au préalable, il faut croire à la nécessité et aux avantages du vivre ensemble et agir pour que l’idée devienne réalité vécue. Ce n’est pas le lieu de présenter ici un plan ou un programme. Peut-être faut-il cependant suggérer, la création d’un forum de réflexion. Il y a des propositions faites par des personnalités académiques, médiatiques et politiques. Il faut, disent-elles, dynamiser le rôle de la société civile: les universitaires, les communicateurs, les faiseurs d’opinions, les chefs d’entreprises et d’autres, quel qu’en soit l’horizon, doivent mettre leur savoir, leur talent, leur imagination et leurs compétences au service du vivre ensemble sans exclure, ni les différences, ni les ambitions qui, légitimes, ne doivent, en aucune façon, porter atteinte à l’équité. La société civile se doit d’agir au profit du dialogue des cultures et des religions. Les acteurs de la société civile et les universitaires du nord et du sud se doivent de conjuguer leurs efforts au profit du progrès, de la liberté, de la justice, de la solidarité et de la libre circulation des hommes, des biens et du savoir. Pour fédérer les initiatives et établir l’osmose entre les laboratoires, les centres de recherches nationaux et régionaux, il serait utile de créer un Institut de prospective à l’échelle de l’Europe et de la Méditerranée?

Quoi qu’il en soit, pour réussir le vivre ensemble dans la paix et la solidarité, le rôle des acteurs politiques, socio-économiques et des universitaires me paraît fondamental. Ils doivent se rencontrer, se concerter, partager l’information et réduire le fossé numérique afin que les espoirs d’aujourd’hui deviennent le vécu de demain. Les pays de la Méditerranée, toutes rives confondues, en partenariat avec l’Union Européenne et avec sa participation active en tant que partie prenante, se doivent d’inventer une structure où leurs élites intellectuelles et leurs cadres scientifiques, politiques et socio-économiques pourront se rencontrer pour fixer les objectifs et convenir des modalités pratiques. Peut-être faut-il rappeler la nécessité de bâtir un espace euro-méditerranéen d’échanges en mettant à bas les cloisons pour les remplacer par des ponts et par de multiples passerelles. Ce faisant, nous devons ensemble défendre les valeurs universelles telles que la justice, la paix, la solidarité, la démocratie, le respect de l’autre, quel qu’il soit et quelque différentes que soient sa culture et ses convictions religieuses. Mais pour l’efficacité de leur action, les universitaires de l’espace euro-méditerranéen doivent ouvrir leur structure, aux acteurs économiques et aux organes de la société civile tout entière, afin qu’il y ait osmose et que les décisions prises soient adaptées et bien reçues.

Voilà comment la recherche et l’entreprise peuvent avancer la main dans la main. Ainsi conçu, cette structure euro-méditerranéenne assurerait l’échange et le brassage entre les rives de la Méditerranée, c’est-à-dire, entre les universitaires, les acteurs économiques, les décideurs politiques et administratifs. On peut ainsi espérer réduire la fracture cognitive et colmater les brèches de la fracture socio-économique au profit de tous. Au sein de ce think-tank, on peut examiner les grands dossiers régionaux et mondiaux tels que ceux de l’environnement, l’eau, la pauvreté, la maladie, la société du savoir, l’agriculture, le tourisme, la paix dans le monde, les droits de l’homme, la désertification, l’énergie et bien d’autres questions.

Mais en attendant, on pourrait amorcer le processus en créant une structure bi ou multilatérale qui accueillerait des universitaires, des chercheurs, des communicateurs, des experts économiques, des chefs d’entreprises, etc, pour échanger leurs idées et mettre leur savoir et leur talent au service de la Méditerranée et de l’Afrique. A ce propos, la Tunisie me semble tout à fait favorable à ce partenariat bilatéral. Ce serait un beau mariage entre l’Europe et l’Afrique tout entière. Pour être et devenir Méditerranéens, nous nous devons de veiller à la bonne santé de cette mer généreuse, et combien nourricière afin qu’elle demeure ce qu’elle a toujours été: une source de richesse et de bonheur, un espace où il fait bon vivre, dans la paix, la sécurité, et la solidarité avec tous les peuples du monde. Nous nous devons de veiller également à la conservation et à la mise en valeur de notre patrimoine archéologique et historique sans frontière. C’est notre patrimoine commun, notre histoire commune. Voilà un projet exaltant auquel tous les peuples de la Méditerranée doivent, la main dans la main, apporter leur contribution pour en faire une réalité vécue.

Intervento del Presidente dell’Associazione ATLAS,

Salah Hannachi,

«La Méditerranée, Notre Mer Patrie»

«Mare Nostrum Edifikenda Est»

I. Introduzione: Sulle orme di S. Agostino:

1. Sant’Agostino è una figura importante, un’eredità fondamentale della civiltà mediterranea, africana e occidentale. Agostino unisce non solo Tagaste, Madaura (Madaura), Annaba (Hippo), Cartagine, Roma e Milano, non solo algerini, tunisini e italiani, ma anche tutte le popolazioni dell’Africa e dell’Europa , Nord e Sud.

Nato nel 354 aD in Thagaste, oggi Souk Ahras, Algeria, si stabilì a Cartagine in Tunisia, dove continuò gli studi e insegnava retorica. Più tardi, nel 383, lasciò Carthage per sta bilirsi a Roma, in Italia, dove insegnava la retorica. Successivamente si recò a Milano, capitale dell’Impero romano, dove incontrò San Ambrogio e si convertì al cristianesimo nel 386, all’età di trentadue anni. Tornato in Africa nel 388 a passare il resto della sua vita, facendo spesso il percorso tra il suo arcivescovato a Ippona, ora Annaba in Algeria, e Cartagine, fino alla sua morte nel 430 dC Sant’Agostino ha fatto avanti e indietro su questa strada per partecipare nei consigli, predicando la lotta contro i donatisti, i manichei e pelagiani, amministrando la giustizia, ecc, a Cartagine e le città nel suo percorso, come Majaz al Bab, Bulla Regia, etc.

2. Le ONG Via Augustina, un’ONG francese creata nel 2011 con sedi anche a Milano e a Pavia, ATLAS, un’ONG tunisina fondata nel 1990 con sede a Tunisi, Tunisia, e CEFA, un’ONG italiana fondata nel 1970 con sede a Milano, lavorano insieme sullo sviluppo, la marcatura e l’accreditamento degli itinerari culturali del Mediterraneo, in questo caso il percorso “sulle orme di sant’Agostino,” e su argomenti del tutto nello spirito del nostro dibattito oggi sul Mediterraneo.

3. Due rotte sono già stati segnate, l’itinerario del sud da Cartagine a Kef, attraverso Majaz al Bab e percorso medio da Cartagine nel Ain Soltane in Ghardimaou in territorio Feïja, nel Parco Khroumirie-Moogod a Nord Ovest della Tunisia, passando da Bulla Régia. Speriamo di completare queste rotte fino ad Annaba in Algeria, passando per il luogo di nascita di Sant’Agostino, Souk Ahras. In seguito speriamo di continuare il percorso verso nord lungo la costa mediterranea di Cartagine a Annaba attraverso Tabarka, in Tunisia e la Sardegna, per poi arrivare a Genova, Milano e Pavia, la sua sepoltura in Italia.

Abbiamo organizzato escursioni, eventi, conferenze, proiezioni di film, ecc. sul carattere di Sant’Agostino. Allo stesso modo, stiamo incoraggiando e sostenendo progetti per creare relais di riposo e di soggiorno nel Maghreb, mediterranei, europei e internazionali dove i “pellegrini” possono fermarsi e eventualmente partecipare a eventi locali.

Speriamo di sviluppare molti altri itinerari in giro per importanti figure storiche del Mediterraneo, in tanti siti naturali o archeologici, eventi storici, come il viaggio di Ulisse, Periplo di Annone, Hannibal, Ibn Khaldoun, Ibn Battuta, il Forte Genovese a Tabarka, Tabarquinis, Il percorso andaluso, ecc.

II. Verso un’identità mediterranea

4. Lo scopo dello sviluppo delle rotte culturali mediterranee è un obiettivo economico, culturale e geopolitico. Abbiamo lo scopo di sviluppare, parallelamente al turismo balneare e allo shopping classico limitato alle zone costiere, un nuovo turismo continentale di escursioni e attività economiche, sociali e culturali lungo tutti questi percorsi, all’interno del paese. In tal modo speriamo di migliorare il territorio, l’entroterra mediterraneo, i suoi paesaggi naturali, i suoi eventi storici, i suoi siti archeologici, i suoi prodotti e le sue tecnologie, le sue tradizioni artistiche, culinarie e di abbigliamento ecc. La nostra azione si estenderà a Tunisia, Algeria, Marocco, Italia, Francia, Spagna, Portogallo, ecc., In tutto il Mediterraneo, sia a sud in Africa che a nord in Europa.

5. Stiamo anche aspirando a realizzare attraverso la nostra azione uno scopo culturale.

Il nostro obiettivo è di fare incontri e scoperte di individui e popolazioni, di produrre emozioni, per creare una consapevolezza e l’orgoglio di appartenere ad una storia condivisa e di una cultura mediterranea comune e sviluppare valori e comportamenti tolleranza, armonia e comprensione reciproca.

6. Infine, il nostro ultimo obiettivo è quello di realizzare con la nostra azione un obiettivo geopolitico. Aspiriamo a riscoprire, rivivere, istituzionalizzare e rendere operativa la consapevolezza di un’identità mediterranea, culturale ma anche politica, simile alla identità europea, del Maghreb, dell’Africa, dell’Asia orientale, e altri.

Questi elementi sono i blocchi di un progetto per la rinascita e la ricostruzione di uno spazio geopolitico mediterraneo.

III. “Il Mediterraneo, il nostro mare madre”

7. Nel suo interessante intervento oggi, il dottor Marco Lombardi ha affermato che i principali cambiamenti nelle tecnologie dell’informazione, della comunicazione e dei trasporti, nonché dei cambiamenti politici, economici e sociali hanno messo in prospettiva il paradigma del “paese-nazione”. Hanno ridotto la capacità di questo paradigma di tenere conto degli eventi e delle sfide geopolitiche che viviamo attorno a noi ogni giorno e della sua capacità di gestirli in questa “cintura di fuoco” che è divenuto il sud del Mediterraneo.

8. Il dottor Marco Lombardi ha descritto l’attuale crisi nel Mediterraneo meridionale che si estende all’intera regione mediterranea, come il disordine di un parco giochi su cui le squadre presentano ognuna di loro il gioco e secondo le proprie regole. Una crede che sia impegnata in una partita di calcio, la squadra avversaria contro cui gioca crede di essere impegnata in una partita di pallavolo e l’arbitro, quando ce ne è uno, ritiene che sta giudicando un gioco di basket. Le loro visioni non hanno nulla in comune, eccetto la palla rotonda e poco altro! Questo sottolinea l’imperativo di costruire una visione quadro di percezioni, valori, interessi e regole di gioco condivise.

9. Infatti, nello stato attuale della mobilità, del trasporto, della comunicazione, dell’ampia diffusione di Internet, dell’accesso e dello scambio di informazioni, gli attori non statali sono diventati quasi potenti come lo Stato e indipendenti da e le frontiere dello Stato Nazione sembrano diventate porose e obsolete, come prima le mura della città e il paradigma “Stato-Città” del XV e XVI secolo. Dobbiamo quindi trovare altri paradigmi, quadri e altri modi di intervento e azione per affrontare queste nuove sfide e questo nuovo ambiente.

10. Da parte sua, il dottor Germano Dottori, in un intervento così interessante, pensa che il concetto o il paradigma “Nazione-Stato” è insostituibile e inevitabile. Ha concluso che siamo condannati ad usare vecchi strumenti e ricette per affrontare nuove sfide, un complesso nuovo ambiente geopolitico e nuove questioni transfrontaliere.

11. Il professor M’hamed Hassine Fantar, nel suo discorso, propone il ritorno alla “romanza”, cioè alla “cittadinanza” dell’Impero romano, oggi il Mediterraneo, per affrontare le sfide demografiche, sociali, economiche e di sicurezza che la regione deve affrontare.

12. Questo dibattito sottolinea l’imperativo e l’urgenza di trovare e sviluppare un paradigma per sostituire o rafforzare il paradigma “Nazione-Stato” nella regione mediterranea.

13. In Europa, nel XV e XVI secolo, simili cambiamenti tecnologici nella stampa, nel trasporto marittimo e nel trasporto terrestre, viaggi e scoperte, armi da fuoco e tecnologie di guerra, religione nel commercio con il Levante e l’Asia dalle strade di seta, soprattutto dopo le crociate, ecc., si era evoluto in misura tale che i “muri” della città non potevano più contenere e segnalare il gioco e gli scambi commerciali, economici, sociali e culturali, o assicurare a una sua efficace governance. Il gioco intramurale della città era obsoleto. Il concetto di “City-State” era diventato obsoleto e doveva essere sostituito da un nuovo paradigma, il paradigma del “Stato Nazione” che alcuni storici, come Spengler e altri, considerano come la più grande invenzione della civiltà Europea, anche umana. In Portogallo, Spagna, Francia prima nel XV e XVI secolo, e più tardi nel resto d’Europa, il paradigma “Nazione-Stato” ha sostituito il paradigma “Stato-Città” o Stato-Città nella governance locale e nelle relazioni internazionali, commerciali e diplomatiche.

14. A sua volta, il paradigma di “Stato Nazione” viene messo in discussione. Infatti, qualche decennio fa, molto prima dell’attuale rivoluzione nei trasporti, nelle tecnologie dell’informazione e nella comunicazione, lo storico britannico Arnold Toynbee aveva cominciato a mettere in discussione il concetto di uno Stato-nazione. Nel suo sintesi libro “Storia” edito da Bordas in francese nel 1972, riassumendo il suo capolavoro “A Study of History” del 1961, Toynbee sostiene che il concetto o di paradigma “Stato nazionale” è stato un concetto superato e inadeguato come strumento o unità di analisi della storia, proprio come il concetto di famiglia, dinastia o tribù e che è il concetto “civiltà” che è il concetto più appropriato per l’analisi storica. Samuel P. Huntington nel

suo libro The Clash of Civilizations, pubblicato nel 1996, giunge ad una conclusione che richiama la posizione di Toynbee. Huntington sostiene che oggi il concetto di “stato – nazione” è scaduto e che solo il concetto di “civiltà” può aiutare a interpretare e comprendere gli attuali eventi e le relazioni internazionali.

15. La domanda allora è: il concetto di civiltà, che può essere utilizzato non solo come uno strumento per l’analisi accademica storica come chiama Toynbee, o l’interpretazione degli eventi attuali e delle relazioni internazionali come auspicato da Huntington, può anche essere usato come strumento operativo di governance politica interna ed esterna e come paradigma di azione e intervento nelle relazioni internazionali e nelle sfide globali?

16. In caso affermativo, possiamo usare il concetto di “civiltà mediterranea” per questi scopi e come paradigma per la gestione delle sfide che affrontiamo nella regione mediterranea e la fondazione o la fondazione di un progetto rinascimentale mediterraneo?

17. Infatti il Mar Mediterraneo è stato emarginato dalle grandi scoperte, in particolare dall’Atlantismo dopo la scoperta del Nuovo Mondo nei secoli XV e XVI. Questa emarginazione è stata ulteriormente aggravata dall’Atlantismo dopo la prima e la seconda guerra mondiale e l’aumento dell’importanza del Pacifico nel XX secolo.

Oggi, all’alba del 21° secolo, con l’avvento del Pacifico e dell’Asia, con iniziative come “una cinghia, One Road”, il presidente Xi Jinping della Cina, per produrre un rilancio dell’intero bacino commerciale e culturale dell’antica strada di seta, tra Asia, Europa e Africa, con l’inevitabile aumento di rilevanza dell’Africa, con l’innalzamento a grande potenza dell’India, il Mediterraneo, è destinato a diventare di nuovo ancora “Il Mare Medio”, uno spazio geopolitico naturale tra l’emisfero occidentale e l’Atlantico, l’Eurasia, l’Asia Pacifico, l’Oceano Indiano e l’Eurafrica.

18. “Il Mar Bianco Medio” dei cinesi (per il quale il Bianco rappresenta l’Occidente, il Rosso il Sud, da qui il nome del Mar Rosso e del Nord Nero, da qui il nome del Mare nomenclatura nero poi adottato dagli arabi), la punica Cartagine bordo del Mare Nostrum dell’Impero Romano, il “Mediterraneo” di Braudel, è stato a lungo e ancora oggi riconosciuto come una lunga civiltà e uno spazio culturale vibrante, creativo e innovativo.

19. Abbiamo parlato e parlato ancora di paesaggi e climi mediterranei, flora mediterranea, fauna e agricoltura, architettura, turismo, musica, dieta, stile di vita Mediterraneo e persino personalità e identità mediterranea. Infatti, l’identità mediterranea precedentemente precede molte altre identità che sono oggi identità geopoliticamente riconosciute, operative e ben consolidate. Inoltre, per molti asiatici e altri terzi, l’etichetta “Mediterraneo” o l’identità mediterranea è più facile da riconoscere e definire di molte altre identità o etichette geopolitiche.

20. Possiamo allora approfondire e operare questa verità profondamente radicata nel reale e nell’immaginario, nel passato e nel presente, nei cuori e nella mente, nella storia e nella geografia? Potremmo valorizzare questo capitale culturale acquisito per renderlo non solo uno strumento culturale e commerciale ma anche uno strumento geopolitico, in particolare uno strumento di sicurezza per la lotta al terrorismo?

21. Possiamo utilizzarlo come piattaforma e come principio organizzativo della governance locale e regionale, come strumento per la gestione delle relazioni regionali e internazionali e le sfide che affrontiamo, e come punto di partenza per il nostro dibattito e dei nostri sforzi da immaginare e del nostro lavoro per realizzare un progetto di ricostruzione e costruzione di una zona mediterranea “Mare Nostrum Edificanda Est”?

IV. Mare Nostrum Edificanda Est

22. Nella sua grande opera “La città di Dio”, S. Agostino invoca il concetto di una comunità costruita intorno a una fede religiosa. “La città di Dio” è composta da tutti coloro che condividono questa fede religiosa nel tempo e nello spazio. Nella “Città di Dio” la Chiesa Cattolica è uno spazio concreto, territoriale come il concetto di Nazione-Stato, ma anche comunità, transnazionale e universale come il concetto di Umma nell’Islam.

23. Tunisia e Italia, eredi di Cartagine e Roma sono due storici partner mediterranei, tra i più colpiti dalla situazione attuale nella regione, dalle attuali sfide del Mediterraneo come ha sottolineato il dottor Marco Lombardi.

24. I due paesi possono e devono invocare un progetto “Mare Nostrum Edificanda Est”, di costruzione, più precisamente di ricostruzione, di “Il Mar Mediterraneo, la nostra patria”. Essi possono essere guidati nella loro difesa di questo Mediterraneo da ciò che S. Agostino e il suo paradigma ‘Città di Dio’ afferma, se si uniscono gli sforzi di tutti coloro, anche molto diversi fra loro, purché abbiano fiducia in questo progetto civiltà.

V. Istituto Mediterraneo di percorsi culturali

25. In questo paradigma, “Il Mediterraneo, la nostra patria” è uno spazio territoriale e comunitario basato sulla fede ne “La civiltà mediterranea”, il suo passato, il presente e il futuro. È composto da tutti coloro che condividono la fede storica ne “La civiltà mediterranea”.

Un istituto mediterraneo di percorsi culturali, come l’Istituto europeo di percorsi culturali a Lussemburgo, sarà utile, anche necessario per la realizzazione di questa visione.

Gli obiettivi dell’Istituto saranno quelli di raggiungere la coscienza nazionale collettiva, attraverso il coinvolgimento di importanti figure regionali e internazionali dei luoghi di itinerari culturali e naturali, materiali e immateriali; ciò per affrontare le sfide e gli eventi storici del Mediterraneo e favorire lo sviluppo dell’industria dell’arte, del turismo culturale e dell’economia sociale e solidale.

Questi circuiti contribuiranno al ravvicinamento delle popolazioni mediterranee e delle culture mediterranee e contribuiranno così alla costruzione del Mediterraneo in modo sostenibile.

ATLAS, Via Augustina, CEFA e intendono tenere un prossimo dibattito a Tabarka e a Ain Draham la proiezione del film del regista cinematografico-algerino Mahmoud Djedaiet su Sant’Agostino, già proiettato a Cartagine in Tunisia.

Un primo progetto dell’Istituto sarebbe quello di ampliare la prospettiva di questo film, fatta da un punto di vista algerino, per realizzarla da un punto di vista mediterraneo.

Un altro possibile progetto per l’Istituto sarebbe quello di realizzare un Mediterraneo “Chi è Chi” in forma professionale, ma anche in forma popolare e divertente.

L’Istituto sarà quindi il Tempio della Fede in questo sogno e in questo futuro del Mediterraneo che contribuirà a raggiungere attraverso la ricerca, lo studio, la formazione e l’azione.

  1. Introduction: Sur les Pas de Saint Augustin:
  1. Saint Augustin est une figure majeure, une figure patrimoine de proue de la civilisation méditerranéenne, africaine et occidentale. Saint Augustin unit non seulement Thagaste, M’daourouch (Madaure), Annaba(Hippo), Carthage, Rome et Milan, non seulement les algériens, les tunisiens et les italiens, mais aussi tous les peuples de l’Afrique et de l’Europe, du Nord et du Sud.

Né en 354 A.D à Thagaste , aujourd’hui Souk Ahras, en Algérie, il s’était installé à Carthage en Tunisie, où il a poursuivi ses études et enseigné la rhétorique. Plus tard, en 383, il quitta Carthage pour s’installer à Rome en Italie, et enseigner la rhétorique. Il s’est rendu ensuite à Milan, la capitale de l’Empire Romain à l’époque, où il a rencontré Saint Ambrose et s’est converti au Christianisme en 386, à l’âge de trente-deux ans. Il retourna en Afrique en 388 pour y passer le reste de sa vie, faisant souvent l’itinéraire entre son archevêché à Hippo, ou Bône, aujourd’hui Annaba en Algérie, et Carthage jusqu’à sa mort en 430 A.D. Saint Augustin faisait le va et vient sur cet itinéraire pour participer aux conciles, prêcher, combattre les Donatistes, les Manichéens, et les Pélagiens, administrer la justice, etc., à Carthage et dans les villes sur son chemin, comme Medjez El Bab, Bulla Régia, etc.

  1. Trois ONG, Via Augustina, une ONG française créée en 2011 avec siège à Pavie à Milan, ATLAS, une ONG tunisienne créée en 1990, ayant siège à Tunis en Tunisie, et CEFA, une ONG italienne créée dans les années 1970 avec siège à Milan, travaillent ensemble sur le développement, le balisage, et l’accréditation d’itinéraires culturels méditerranéens, en l’occurrence l’itinéraire «Sur les Pas de Saint Augustin», et sur des thèmes tout à fait dans l’esprit de notre débat aujourd’hui sur la Méditerranée.
  2. Deux itinéraires ont été déjà balisés, l’itinéraire sud allant de Carthage au Kef, passant par Medjez El Bab et l’itinéraire moyen allant de Carthage à Ain Soltane à Ghardimaou, dans le parc El Feija du territoire Khroumirie-Moogod, au Nord Ouest de la Tunisie, passant par Bulla Régia. Nous espérons pouvoir compléter ces itinéraires jusqu’à Annaba en Algérie, passant par la ville natale de Saint Augustin, Souk Ahras. Plus tard, nous espérons continuer l’itinéraire nord le long de la côte méditerranéenne de Carthage jusqu’à Annaba passant par Tabarka, en Tunisie, puis jusqu’en Sardaigne, puis à Gênes, Milan et Pavie, son lieu de sépulture, en Italie.

Nous avons organisé des randonnées, des événements, des conférences, des projections de films, etc. sur le personnage de Saint Augustin. De même sommes-nous entrain d’encourager et d’accompagner des projets de création de relais de repos et de séjour où les «pèlerins» maghrébins, méditerranéens, européens et internationaux peuvent s’arrêter et éventuellement participer aux événements locaux.

Nous espérons développer plusieurs autres itinéraires autour de figures méditerranéennes historiques importantes, autour de sites naturels ou archéologiques, d’événements historiques, tels que le Périple d’Ulysse, le Périple de Hannon, Hannibal, Ibn Khaldoun, Ibn Batouta, La Route du Marbre, le Fort Génois à Tabarka, Les Tabarquinis, La Route des Andalous, etc.

  1. Vers une identité méditerranéenne
  1. Le but du développement d’itinéraires culturels méditerranéens est un but à la fois économique, culturel et géopolitique. Nous aspirons à développer, en parallèle avec le tourisme balnéaire et de shopping classique limité aux zones côtières, un nouveau tourisme continental de randonnées et d’activités économiques, sociales et culturelles tout le long de ces itinéraires, à l’intérieur du pays. En ce faisant nous espérons valoriser le territoire le hinterland méditerranéen, ses paysages naturels, ses événements historiques, ses sites archéologiques, ses produits et ses technologies de terroir, ses traditions artistiques, culinaires et vestimentaires, etc. Notre action s’étendra à la Tunisie, l’Algérie, le Maroc,I’Italie, la France, l’Espagne, le Portugal, etc, tout autour de la Méditerranée, à la fois au sud en Afrique et au nord en Europe.
  2. Nous aspirons aussi à réaliser par notre action un but culturel. Nous ambitionnons de réaliser des rencontres et des découvertes, de personnes et de populations, de produire des émotions, de créer une conscience et une fierté partagées d’appartenance à une histoire et à une culture méditerranéennes communes et de développer des valeurs et des comportements de tolérance, d’harmonie, et de compréhension mutuelle.
  3. Notre but ultime enfin est de réaliser par notre action un but géopolitique. Nous aspirons à faire redécouvrir, renaître, institutionnaliser et opérationnaliser la conscience d’une identité méditerranéenne, culturelle mais aussi politique, semblable à l’identité européenne, maghrébine, africaine, est-asiatique, et autres.

Ces éléments sont les fondements constitutifs d’un projet de renaissance et de reconstruction d’un espace géopolitique méditerranéen.

  1. La Méditerranée, Notre Mer Patrie”
  1. Dans son intéressante intervention aujourd’hui, Dr Marco Lombardi a déclaré que les changements majeurs dans les technologies d’information, de communication et de transport, ainsi que les changements politiques, économiques et sociaux ont relativisé le paradigme «Nation-Etat». Ils ont réduit la capacité de ce paradigme à rendre compte des événements et les défis géopolitiques que nous vivons autour de nous chaque jour et sa capacité de les gérer, dans cette «ceinture de feu» qu’est devenu le Sud de la Méditerranée.
  2. Dr Marco Lombardi a décrit le désordre actuel régnant en Méditerranée du Sud et s’étendant à toute la région méditerranéenne, comme le désordre d’un terrain de jeu sur lequel les équipes présentes jouent chacune son jeu et selon ses règles propres. L’une croie qu’elle est engagée dans un match de football, l’équipe adverse contre laquelle elle joue croie qu’elle est engagée dans un match de volley et l’arbitre, quand il y en a un, croit qu’il est entrain d’arbitrer un match de basket. Leurs visions n’ont de commun que le ballon rond et encore!

Cela souligne l’impératif de la construction d’une vision cadre de perceptions, de valeurs, d’intérêts et de règles de jeu partagés.

  1. En effet dans l’état actuel de mobilité, de transport, de communication, d’internet généralisé, d’accès et d’échange d’information, les acteurs non étatiques sont devenus presque aussi puissants que l’Etat et indépendants de lui, et les frontières de l’Etat-Nation semblent être devenues poreuses et obsolètes, comme avant elles les murs de la cité et le paradigme «Etat-Cité» au 15ième et au 16ième siècle.

Nous devons donc trouver d’autres paradigmes, d’autres cadres et d’autres modes d’intervention et d’action pour faire face à ces nouveaux défis et à ce nouvel environnement.

  1. De son côté, Dr Germano Dottori, dans une intervention aussi intéressante, pense que le concept ou paradigme «Nation-Etat» est irremplaçable et incontournable. Il en a conclu en fait que nous sommes condamnés à recourir à de vieux instruments et d’anciennes recettes pour faire face à de nouveaux défis, à un nouvel environnement géopolitique complexe, et à de nouvelles problématiques transfrontalières.
  2. Professeur M’hamed Hassine Fantar dans son intervention, propose le retour à «la Romanité», c’est-à-dire à «la citoyenneté» de l’Empire Romain, aujourd’hui la Méditerranée, pour faire face aux défis démographiques, sociaux, économiques et sécuritaires que confronte la région.
  3. Ce débat souligne l’impératif et l’urgence de trouver et de développer un paradigme de remplacement ou de renforcement du paradigme de “Nation-Etat” dans la région méditerranéenne.
  4. En Europe, au 15ième et 16ième siècle, des changements technologiques semblables dans les modes d’imprimerie, de transport maritime et terrestre, dans les voyages et les découvertes, de l’arme à feu et des technologies de la guerre, de religion, dans les échanges commerciaux avec le Levant et l’Asie par les routes de la soie , surtout après les croisades, etc, avaient évolué à un degré tel que les «muros» de la cité ne pouvaient plus contenir et rendre compte le jeu et des échanges commerciaux, économiques, sociaux et culturels ni aider à sa gouvernance efficace. Le jeu ‘intra-muros ‘de la cité était dépassé. Le concept de «Cité-Etat» était devenu obsolète et a dû être remplacé par un nouveau paradigme, le paradigme de «l’Etat-Nation» que certains historiens, comme Spengler et autres, considèrent, comme la plus grande invention de la Civilisation Européenne, voire humaine. Au Portugal, en Espagne, en France d’abord aux 15ièmes et 16ièmes siècles et plus tard dans le reste de l’Europe, le paradigme «Etat-Nation» a remplacé le paradigme «Etat-Cité» ou de Ville-Etat dans la gouvernance locale et dans les relations internationales, commerciales et diplomatiques.
  5. A son tour aujourd’hui, le paradigme de «Nation-Etat» est remis en cause. En fait, il y a déjà quelques décennies, longtemps avant la révolution actuelle dans les technologies du transport, de l’information, et de la communication, l’historien britannique Arnold Toynbee avait commencé à remettre en cause le concept d’Etat Nation. Dans son livre synthèse «L’Histoire» publié par Bordas en Français en 1972, et faisant la synthèse de son œuvre magistrale «A Study of History» de 1961, Toynbee plaide que le concept ou paradigme «Etat-Nation» était un concept désuet et inadéquat comme outil ou unité d’analyse de l’histoire, tout comme le concept de famille, de dynastie, ou de tribu et que c’est le concept «civilisation» qui est le concept le plus approprié pour l’analyse historique. Samuel P. Huntington dans son livre «The Clash of Civilisations», publié en 1996, arrive à une conclusion rappelant la position de Toynbee. Huntington affirme qu’aujourd’hui le concept d’«Etat-Nation» est dépassé et que seul le concept de «Civilisation» peut aider à interpréter et à comprendre les événements et les relations internationales actuels.
  6. La question est alors: le concept de civilisation peut-il être utilisé non seulement comme un instrument académique d’analyse historique comme le préconise Toynbee, ou d’interprétation des événements et des relations internationales actuels comme le préconise Huntington, mais aussi comme un instrument opérationnel de gouvernance politique intérieure et extérieure et comme un paradigme d’action et d’intervention dans les relations internationales et sur les défis globaux?
  7. Et si oui, pouvons-nous utiliser le concept de «Civilisation Méditerranéenne» à ces fins et comme paradigme de gestion des défis que nous confrontons dans la région méditerranéenne et fondement ou fondation d’un projet de renaissance de la Méditerranée?
  8. En effet La Mer Méditerranée était marginalisée par l’Atlantisme des grandes découvertes, en particulier par l’Atlantisme de l’après découverte du Nouveau Monde au 15ième et 16ième siècles. Cette marginalisation était aggravée plus tard par l’Atlantisme de l’après première et deuxième guerres mondiales et la montée du Pacifique au 20ième siècle.

Aujourd’hui à l’aube du 21ième siècle, avec la montée de l’Asie pacifique et continentale, avec des initiatives comme «Une Ceinture, Une Route» du Président Xi Jinping de la Chine, visant à produire une renaissance de tout le bassin versant commercial et culturel de l’ancienne Route de la Soie, entre l’Asie, l’Europe et l’Afrique, avec la montée inéluctable de l’Afrique, avec la montée de l’Inde, la Méditerranée, est destinée à redevenir de nouveau «La Mer du Milieu», un espace géopolitique naturel entre l’Hémisphère Ouest et l’Atlantique, l’Eurasie, l’Asie Pacifique, L’Océan Indien, et l’Eurafrique.

  1. La Mer Blanche du Milieu” des Chinois (pour lesquels le Blanc représente l’Ouest, le Rouge le Sud, d’où le nom de la Mer Rouge, et le Noir le Nord, d’où le nom de la Mer Noire, nomenclature adoptée plus tard par les Arabes), le Pourtour Punique de Carthage, la Mare Nostrum de l’Empire Romain, la “Mer Méditerranée” de Braudel, a été depuis longtemps et encore aujourd’hui reconnue comme une civilisation longtemps constituée et un espace culturel vibrant, créatif et innovateur.
  2. On a toujours parlé et on parle encore aujourd’hui de paysages et de climat méditerranéens, de flore, de faune et d’agriculture méditerranéennes, d’architecture, de tourisme, de musique, de régime alimentaire, de style de vie, méditerranéens et même de personnalité et d’identité méditerranéennes. En fait l’identité méditerranéenne précède historiquement plusieurs autres identités qui sont aujourd’hui des identités géopolitiquement reconnues, opérationnelles, et bien établies. Plus encore, pour beaucoup d’asiatiques et d’autres tierces parties, le label «Méditerranée» ou l’identité méditerranéenne sont plus faciles à reconnaitre et à définir que beaucoup d’autres identités ou labels géopolitiques.
  3. Pourrions-nous alors, devrions-nous, approfondir et opérationnaliser cette vérité profondément ancrée dans le réel et l’imaginaire, dans le passé et dans le présent, dans les cœurs et les esprits, dans l’histoire et dans la géographie? Pourrions-nous valoriser ce capital culturel acquis pour en faire non seulement un instrument culturel et commercial mais aussi un instrument géopolitique, en particulier un instrument sécuritaire de lutte contre le terrorisme?
  4. Pourrions-nous alors l’utiliser comme plateforme, et comme principe organisateur d’une gouvernance locale et régionale, comme instrument de gestion des relations régionales et internationales et des défis auxquels nous sommes confrontés, et comme point de départ de notre débat et de nos efforts d’imaginer, et de notre œuvre réaliser un projet de reconstruction et d’édification d’un Espace Méditerranéen, «Mare Nostrum Edifikenda Est»?
  1. Mare Nostrum Edifikenda Est
  1. Dans son grand ouvrage “La Cité de Dieu”, Saint Augustin plaide le concept d’une communauté construite autour d’une foi religieuse. ‘’La Cité de Dieu’’ est constituée de tous ceux qui partagent cette foi religieuse à travers le temps et à travers l’espace. Dans «la Cité de Dieu», l’Eglise Catholique est un espace concret, territorial comme le concept d’Etat-Nation, mais aussi communautaire, transnational et universel comme le concept de Umma en Islam.
  2. La Tunisie et l’Italie, héritières de Carthage et de Rome, sont deux partenaires méditerranéens historiques parmi les plus concernés par la situation actuelle dans la région, par les défis courants, par le passé, le présent et le futur de la Méditerranée, comme l’a souligné Dr Marco Lombardi.
  3. Les deux pays peuvent et doivent plaider un projet «Mare Nostrum Edifikenda Est», de construction, plus exactement de reconstruction, de «La Méditerranée, Notre Mer Patrie». Ils peuvent s’inspirer dans leur plaidoyer de cette haute figure méditerranéenne qu’est Saint Augustin et de son paradigme ‘La Cité de Dieu’, et réunir les efforts de tous ceux, nombreux, divers et qui ont foi dans ce projet de civilisation.
  1. Institut Méditerranéen des Itinéraires Culturels
  1. Dans ce paradigme, «La Méditerranée, Notre Mer Patrie» est un espace territorial et communautaire fondé sur la foi dans «La Civilisation Méditerranéenne», son passé, son présent et son futur. Il est constitué de tous ceux qui partagent la foi historique dans «La Civilisation Méditerranéenne». Un institut méditerranéen des itinéraires culturel, à l’exemple de l’Institut Européen des Itinéraires Culturels à Luxembourg, sera utile, voire nécessaire pour la réalisation de cette vision.

La mission de l’institut sera de réaliser une prise de conscience collective nationale, régionale et internationale des grandes figures, des hauts lieux, des itinéraires culturels et naturels, matériels et immatériels, des défis, et des événements historiques méditerranéens et leur incorporation dans l’industrie de l’art, du tourisme culturel et de l’économie sociale et solidaire durable.

Ces circuits contribueront au rapprochement des peuples méditerranéens et des cultures méditerranéennes et participeront ainsi à la construction de la Méditerranée sur des bases durables.

Déjà, ATLAS, Via Augustina, et CEFA ont l’intention d’organiser une projection débat à Tabarka et à Ain-Draham du film du cinéaste algérien Mahmoud Djedaiet sur Saint Augustin, déjà projeté à Carthage en Tunisie. D’autres initiatives seront prises.

Un premier projet de l’Institut serait d’élargir la perspective de ce film, réalisé d’un point de vue algérien, pour le réaliser d’un point de vue méditerranéen.

Un autre projet possible pour l’Institut serait de faire le «Who is Who» méditerranéen sous forme professionnelle mais aussi sous forme populaire et ludique.

L’Institut sera ainsi le Temple de la foi dans ce rêve et dans ce futur de la Méditerranée qu’il contribuera à réaliser par la recherche, l’étude, la formation et l’action.