La minaccia dei profughi ambientali

Eva C. Müller Praefcke

“Il riscaldamento della terra è potenzialmente più pericoloso di qualsiasi forma di terrorismo”, così si esprimevano Peter Schwartz e Doug Randall in un rapporto segreto del 2004, redatto espressamente per il Pentagono e solo successivamente reso pubblico.

Già in precedenza, negli anni Novanta, l’esperto di strategia Robert Kaplan aveva scritto un articolo che avrebbe dato un enorme impulso all’attenzione internazionale verso quella disciplina oggi a tutti nota come “environmental security”.

Nel suo “The coming anarchy: how scarcity, crime, overpopulation, tribalism and disease are rapidly destroying the social fabric of our planet”[1], Kaplan metteva in guardia da quelli che sarebbero divenuti tra i maggiori problemi della nostra era: i conflitti per il controllo delle risorse energetiche, per i terreni agricoli e per le risorse idriche, in altri termini, i conflitti originati dall’ambiente.

Proprio l’ambiente e la sicurezza, così come le migrazioni e i conflitti, sono diventati, a quanto pare, delle vere e proprie miscele esplosive, così come ci indicano i dati raccolti dal secondo dopoguerra ad oggi, con oltre cento conflitti nel mondo direttamente imputabili a cause ambientali.

Ogni anno milioni di persone sono costrette ad abbandonare le abitazioni e i terreni a causa di una drammatica catastrofe di natura ambientale. Come evidenziato dai dati del ministero dell’Interno, tra i primi dieci paesi di provenienza dei richiedenti asilo in Italia, sono state registrate tutte quelle aree colpite dagli effetti più disastrosi dei cambiamenti climatici, come l’Africa subsahariana, caratterizzata da gravi problemi legati alla siccità e alla conseguente desertificazione.

Nel 2015, secondo il Global Report on Internal Displacement (Grid)[2] gli sfollati interni nel mondo sono stati 27,8 milioni, e di questi 19,2 milioni in conseguenza di calamità naturali.

In effetti, il cambiamento climatico e i suoi potenziali risultati sono da tempo al centro dell’interesse delle istituzioni politiche, militari e internazionali, che percepiscono in questi cambiamenti un “moltiplicatore di minacce” in grado di acuire tensioni e instabilità già esistenti, amplificandone e estendendone la portata, soprattutto in quelle regioni che appaiono più vulnerabili sul piano geografico e socio-economico.

I flussi migratori possono avere destinazioni interne al territorio statale, o anche superarne i confini, ma in entrambi i casi richiamano costantemente l’attenzione della comunità internazionale, sia per quanto riguarda le politiche ambientali, prima locali e poi destinate a diventare globali, che per il governo stesso del territorio, senza contare la gestione dei trasferimenti e dell’accoglienza nei paesi stranieri interessati al fenomeno[3].

Inoltre, i disastri naturali provocano ingenti perdite che influenzano anche il ciclo economico.

Secondo gli studi  della compagnia assicuratrice Munich Re[4], sin dalla seconda metà del secolo XX  vi è stato un incremento di danni economici, con una decisa accelerazione proprio dalla seconda metà degli anni Ottanta.  Le perdite economiche causate da questi disastri sono passate dai 3,9 miliardi di dollari degli anni Cinquanta, ai 40 miliardi di dollari degli anni Novanta.

Il legame tra sicurezza e ambiente riemerge anche nel Documento Attuativo della politica di sicurezza europea datato 2008, che intravede nel degrado ambientale e nella competizione per le risorse naturali un fattore di accrescimento dei conflitti, soprattutto nei paesi più arretrati.

L’obiettivo presentato dal documento è quello di favorire una crescita economica sostenibile (lotta contro l’inquinamento marittimo, protezione civile, energie alternative) e nello stesso tempo di garantire stabilità all’area sulla base del legame che viene individuato tra ambiente, sviluppo e prevenzione dei conflitti nel Mediterraneo.

Tra i rischi politici analizzati, figura anche l’incremento dei flussi migratori legato al deterioramento del quadro climatico, che a sua volta potrebbe evidenziare il ruolo del Mediterraneo, o meglio quel grande “continente liquido” inteso come baricentro dei movimenti migratori tra Europa, Asia e Africa.

In Asia, secondo l’Internal Displacement Monitoring Centre, solamente nel periodo che va dal 2010 al 2011, più di 42 milioni di persone sono divenute sfollate a cause di tempeste, siccità e altre calamità naturali, ai quali si aggiungono tutti gli individui minacciati dall’innalzamento del livello del mare (in particolare, il Bangladesh è diventato il paese simbolo dei profughi ambientali).

Negli ultimi anni, a causa della siccità che ha colpito tutto il Mediterraneo, compresa la regione settentrionale, si vanno aggravando esponenzialmente i problemi legati allo sfruttamento dell’acqua. Africa e Medio Oriente registrano inoltre un aumento demografico che incide fortemente sullo sfruttamento delle già scarse risorse idriche.

Rientrano sempre nello stesso scenario le dispute per le acque del Giordano e dei suoi affluenti, che da mezzo secolo contrappongono i paesi rivieraschi del bacino, sino alla conquista di Israele di alcuni territori considerati strategici per il controllo delle fonti idriche, come le Alture del Golan e la Cisgiordania. Il bacino del Tigri e dell’Eufrate, dove la realizzazione del grande progetto idrico del sud-est anatolico (Gap) da parte della Turchia rischia di compromettere analoghi progetti di sviluppo da parte della Siria e dell’Iraq, è uno dei tanti esempi, come quello del bacino del Nilo, sulle cui acque l’Egitto esercita storicamente una sorta di prelazione, decisamente contestata dai paesi limitrofi.

Nel Mediterraneo, una delle aree a maggior rischio di sommersione, secondo uno studio della Banca Mondiale, è quella del delta del Nilo in Egitto (paese che rappresenta un caso unico di convergenza di fenomeni strettamente collegati al cambiamento climatico: desertificazione, penuria idrica e rischio di sommersione delle aree più popolate del paese) dove è concentrato un terzo della popolazione del paese.

Nonostante molte agende nazionali, così come quelle di alcuni organismi intergovernativi, dedichino studi e analisi all’ambiente[5], alle migrazioni e allo sviluppo, ancora poca attenzione viene però diretta verso analisi più approfondite delle relazioni tra queste complesse tematiche.

Un’eccezione in questo panorama è rappresentata dallo studio pubblicato nel mese di maggio del 2017 sul Journal of Environmental Economics and Management[6] dell’Environmental Defense Fund di New York, che riferendosi al trentennio 1980-2010 ha individuato un legame molto stretto tra l’aumento della temperatura e il numero dei migranti provenienti da paesi con un’economia quasi completamente dipendente dall’agricoltura.

D’altronde, già l’analisi della bibliografia internazionale aveva evidenziato una difformità lessicale nell’uso dei termini con i quali si indicano i migranti oggetto di questo fenomeno.

L’espressione “rifugiato ambientale” fu inizialmente proposta nel 1972 da Lester Brown, ricercatore del Worldwatch Institute, e da allora si è assistito ad una moltiplicazione di termini. Nel Rapporto del United Nation Development Program (Unep), che risale al 1985, il direttore Essam el Hinnawi, analizzando il fenomeno delle migrazioni ambientali, fece proprio ricorso alla definizione di rifugiati ambientali.

E ancora, l’International Organisation for Migration, si riferisce ai migranti ambientali definendoli come “persone o gruppi di persone che, a causa di improvvisi o graduali cambiamenti nell’ambiente che influenzano negativamente le loro condizioni di vita, sono obbligati a lasciare le proprie case, o scelgono di farlo, temporaneamente o permanentemente, e che si muovono all’interno del proprio paese o oltrepassando i confini nazionali”[7]. Si possono così individuare tre tipologie:

Environmental emergency migrant: persona che migra temporaneamente a causa di un disastro ambientale, come uragani, tsunami, terremoti, etc.;

Environmental forced migrant: persona costretta a partire a causa del deterioramento delle condizioni ambientali, quali deforestazione, salinizzazione delle acque dolci, etc.;

Environmental motivated migrant o environmentally induced economic migrant: chi sceglie di migrare in risposta a problemi che si vanno intensificando, come ad esempio chi parte in risposta alla diminuzione della produttività agricola causata dalla desertificazione.

All’interno del regime di protezione internazionale, i profughi ambientali si ritrovano però in un vuoto normativo. Infatti, né la Convenzione di Ginevra, né il Protocollo aggiuntivo del 1967, riconoscono lo status di profugo ambientale, mentre tra i paesi europei solamente la Svezia e la Finlandia hanno incluso questa categoria nella definizione delle loro politiche migratorie.

Secondo l’approccio hotspot della Commissione europea, sono infatti presi in considerazione solo i profughi di guerra (con diritto alla protezione internazionale) e i migranti economici (da rimpatriare).

Il peacekeeping cosiddetto verde, o environmental peacekeeping, rappresenterebbe quindi una prospettiva avanzata sul fronte della lotta globale ai cambiamenti climatici e ai conflitti ambientali.

Si tratta di una forza d’intervento (caschi verdi) sotto il diretto controllo del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite con capacità d’intervento nelle emergenze ambientali, oggi riconosciute come in grado di compromettere la tenuta istituzionale dell’intero paese colpito, senza contare i riflessi sui profughi ambientali, un fenomeno che i caschi verdi vorrebbero risolvere con un’esplicita competenza tecnico-scientifica e operativa.

L’ex segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, nel 2011 aveva definito il cambiamento climatico “una miscela diabolica che potrebbe creare pericolosi vuoti di sicurezza, capace di esacerbare le minacce già presenti e minaccia essa stessa alla pace e alla sicurezza internazionale”.

Una dichiarazione energica, cui hanno fatto seguito prese d’atto altrettanto incisive, ma che non sono bastate a far superare ai caschi blu un’etichetta priva di contenuti effettivi, presumibilmente a causa della resistenza di paesi come la Cina, gli Stati Uniti e la Germania[8], intenzionati a non estendere ulteriormente le già “ingombranti” competenze del Consiglio di Sicurezza.

Il fenomeno non è quindi ancora riconosciuto internazionalmente nella sua gravità, e di fatto non esistono politiche coordinate mirate alla sua soluzione.

Un tentativo di risolvere la questione è comunque identificabile nell’Accordo di Parigi (Cop 21), che prevede un preciso piano di azione per limitare il riscaldamento globale al di sotto dei 2°C, anche se il suo successo sembra oggi in discussione per il recente abbandono degli Stati Uniti.   Intanto, il moltiplicatore di minacce non accenna ad arrestarsi, anche se proprio l’ex segretario di Stato americano, John Kerry, aveva pubblicamente evidenziato il nesso tra la crisi siriana e la grave carestia che ha colpito il paese.

Sia l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) che l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni hanno recentemente dichiarato che entro il 2050 si raggiungeranno i 200-250 milioni di rifugiati ambientali, con una media di 6 milioni di persone costrette ogni anno a lasciare il loro paese.

Purtroppo, nonostante questi drammatici appelli, non si intravedono al momento i segnali di una reale disponibilità verso il contrasto del fenomeno.

Eva C. Müller Praefcke (*)

(°) Eva C. Müller Praefcke è laureata in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali alla Sapienza, si occupa di attività di studio e analisi delle politiche migratorie europee e di rispetto dei diritti umani.

[1] R. Kaplan, The coming anarchy: how scarcity, crime, overpopulation, tribalism and disease are rapidly destroying the social fabric of our planet, in «Atlantic Monthly», February 1994 Issue, pp.44-76, disponibile anche online al sito: https://www.theatlantic.com/magazine/archive/1994/02/the-coming-anarchy/304670/.

[2] http://www.internal-displacement.org/globalreport2016/.

[3] L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim) ha denunciato che nel 2017 il numero delle vittime lungo la rotta del Mediterraneo centrale ha già superato la quota di 1.000;

http://www.italy.iom.int/it/notizie/1000migrantimortinel2017.

[4]https://www.munichre.com/site/touch-publications/get/documents_E-381885496/mr/assetpool.shared/Documents/5_Touch/_Publications/302-07228_it.pdf.

[5] Si veda il rapporto del Worldwatch Institute disponibile online al sito: http://www.worldwatch.org/beyond-climate-refugee-migration-adaptation.

[6] http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0095069616304910.

[7] http://publications.iom.int/system/files/pdf/meccinfosheet_climatechangeactivities.pdf.

[8] https://www.theguardian.com/environment/2011/jul/20/un-climate-change-peacekeeping.