Davide contro Golia: la guerra di Israele contro i paesi arabi nel 1948. Mito o realtà?

Introduzione

 

Trattare della seconda parte della guerra del 1948, quella fra l’appena nato stato di Israele e gli stati arabi, è un compito difficile.

Occorrerebbe un libro intero per descrivere i fatti e cercherò di farlo nel ridotto spazio disponibile con la consapevolezza di non compiere un lavoro di approfondimento, quanto piuttosto di informazione, lasciando al lettore la possibilità di approfondire gli argomenti che più risultano interessanti.

Argomentazioni particolareggiate sulla genesi di talune situazioni (quali i movimenti che definiremmo oggi oltranzisti di parte ebraica, l’Irgun, il Lehi o la banda Stern, su quanto avessero in comune e quanto invece differissero, sia tra loro, sia con il sionismo ufficiale rappresentato da Ben Gurion e dall’Haganah) appesantirebbero inutilmente il documento e sarebbero inevitabilmente superficiali; si lascia pertanto al lettore la possibilità di informarsi meglio o, comunque, richiedere informazioni più dettagliate al riguardo.

Il perché di una scelta – Premessa dell’autore

 

Nel corso di una conferenza a Treviso, ove partecipavo insieme a Luisa Morgantini, al termine delle presentazioni e della serata, un gentile signore, qualificatosi come ebreo di sinistra, ci ha accusato di non avere compiutamente parlato della paura degli israeliani di fronte agli attacchi a mezzo dei razzi lanciati da Hamas.

Tralasciando il fatto che sarebbe stato interessante se tale domanda fosse stata fatta nel corso della conferenza allorquando è stato ripetutamente chiesto se vi fossero domande, mi sono reso conto che il mio interlocutore mi riportava una serie di dati, relativi alla storia di Israele, che poca corrispondenza avevano con una realtà storica e documentata; infatti, allorquando gli ho chiesto quali fossero le sue fonti di informazione mi ha riposto “ i giornali” e la sua esperienza personale, raccontandomi di quando nel 1967 era in Israele e si era sentito prossimo alla distruzione totale in quanto l’esercito di Nasser aveva invaso Israele.

Non posso mettere in dubbio le percezioni e i sentimenti della persona con cui discutevo, ma mi chiedevo quanto effettivamente avesse studiato la storia vera della sua nazione e quanto invece fosse stato appreso da dati parziali od agiografici tali da dare una immagine di verità, attraverso la costruzione di un mito, lavorando molto sulla percezione della paura e della insicurezza che sembra ormai determinare le sorti del mondo moderno, costruendo pertanto un consenso politico non informato.

L’episodio appena descritto è stato lo stimolo finale alla base del concepimento del presente documento. Ma la volontà di scriverlo era maturata a causa di diversi altri fattori. Tra essi, in primo luogo, la naturale reazione verso il contenuto di una serie di articoli giornalistici che dipingono l’attuale situazione in Palestina slegata dai vari contesti e spesso farcita di personali o nazionali ideologie. Spesso con finalità propagandistiche, spesso con lo scopo di fare controinformazione. Strumenti, entrambi, aventi un ruolo decisivo, poiché travisano la realtà storica, causando nelle persone non adeguatamente informate la formazione di idee vaghe e poco chiare.

D’altronde, proprio da parte dell’opinione pubblica si riscontra poca voglia di informarsi, chiedere, approfondire, affidandosi alla superficialità delle notizie piuttosto che all’“approfondimento”, a presunti esperti che diventano opinion maker solo perché non contrastati dalle nostre personali conoscenze e possono pertanto permettersi di propinarci verità di comodo o ideologiche; e questa superficialità nell’approfondimento, nella ricerca delle origini, cause e sviluppo dei fenomeni non depone certo favorevolmente sulle nostre capacità di gestire una società sempre più complessa anche nel campo dell’informazione, che vien sempre più manipolata per interessi personali o particolari. Non c’è dubbio che in situazioni di disinformazione generalizzata, alla mancanza di assunzione di responsabilità da parte di tanti corrisponde la voglia di accentrare la gestione nelle mani dei pochi. Ricordo al riguardo Bonvi, il vignettista e padre di Sturmtruppen che in una delle sue strisce dipingeva un futuro ormai imminente mentre un gruppo di soldati, come ipnotizzati, guardava un televisore spento e staccato dalla corrente ed un ufficiale esclamava contento; Ach, l’arma finale del dottor Goebbels.

E’ indubbio che i miei viaggi in quelle zone, in tempi diversi, possano aver formato una personale impressione che mi ha spinto ad approfondire studi e ricerche, al di là dei miti; e cercare di distribuire colpe e ragioni in egual numero per blandirsi la coscienza non è mia abitudine e non sarebbe giusto; come ha scritto Desmond Tutu, “If you are neutral in situations of injustice, you have chosen the side of the oppressor. If an elephant has its foot on the tail of a mouse, and you say that you are neutral, the mouse will not appreciate your neutrality.

La storiografia classica

Il mito del Davide contro Golia, della nascente democrazia israeliana che lotta da sola contro l’intero mondo arabo, è stato trascritto in tanti libri di storia e tramandato da un mito collettivo, tanto da diventare parte della nostra conoscenza collettiva. Ma è tutto vero?

Da quanto scritto in un testo di Colin Shindler, non certo uno degli storici revisionisti (o nuovi storici) israeliani, che ripercorre i sessant’anni della storia di Israele: [1] qualche ora dopo (la dichiarazione d’indipendenza, NdA), appena gli Inglesi furono partiti, come era prevedibile, gli stati arabi invasero. Nel giro di poche settimane gli Egiziani erano avanzati fino a dodici chilometri da Rehovot, i Siriani si erano attestati nell’alta Galilea e i Giordani erano stanziati tra Ramla e Lod, a mezz’ora di automobile da Tel Aviv. Gli attacchi di Israele tra Latrun e Jenin erano stati respinti dalla Legione Araba. Significativamente erano rari i Giordani che occupavano l’area designata quale sede dello stato ebraico nel novembre del 1947. Le forze di invasione contavano 22-28 mila effettivi, a cui si aggiungevano varie migliaia di irregolari. Oltre ai contingenti principali di Egiziani, Giordani e Siriani, anche l’Iraq, il Libano, l’Arabia Saudita e lo Yemen avevano contribuito inviando le loro truppe. Le forze armate israeliane (Zva Hahaganah Leysrael abbreviato in ebraico con l’acronimo ZAHAL, in inglese Israel Defence Forces, con quello di IDF) a quel punto potevano mettere in campo 27mila-30 mila effettivi, oltre ad una guardia civile di seimila veterani e a due-tremila membri dell Irgun. L’11 giugno 1948 iniziò un cessate il fuoco destinato a durare un mese. Ygal Allon commentò riguardo alle possibili conseguenze che ne sarebbero derivate qualora l’avanzata araba non fosse stata arrestata. (NdA, le frasi seguenti sono inserite nel libro citato ma virgolettate in quanto riprese dalla fonte indicata nella nota (2) a piè di pagina).

Poiché il nemico era così forte e così vicino alle aree più densamente popolate dagli ebrei, gli Israeliani non avrebbero osato adottare una strategia puramente difensiva. Era chiaro che se gli eserciti invasori avessero potuto godere del vantaggio dell’azione offensiva, avrebbero potuto sfondare la debole linea di difesa di Israele, spazzare via le sue forze e prendere possesso di tutto il suo territorio, che sarebbe stato fin troppo facile da sottomettere in quanto mancante di profondità.[2]

I combattimenti ripresero l’8 luglio, con una offensiva di dieci giorni di Israele in cui vennero conquistate Lod, Ramla e Nazareth. Il successivo cessate il fuoco durò fino al 15 ottobre 1948 e consentì agli Israeliani di riarmarsi, riorganizzare le forze e addestrare nuovi emigranti. Alla fine del 1948 Israele era in grado di schierare in campo 100.000 effettivi.

E’ paradossale che la maggior parte delle armi che salvarono l’IDF da una sconfitta quasi certa provenissero dalla Cecoslovacchia comunista in seguito ad un accordo firmato nel gennaio 1948 quando i fornitori ufficiali negli Stati Uniti ed in Europa non erano autorizzati a vendere ai sionisti. (NdA, nella realtà è opportuno ricordare che l’Unione Sovietica di Stalin fu la seconda nazione a riconoscere Israele dopo gli USA e che, all’epoca, da parte comunista vi era ancora la speranza di poter attrarre Israele nella sua orbita, o – almeno – non farla entrare in quella statunitense. Per quanto attiene al divieto di vendere armi, come si vedrà in seguito, fu largamente aggirato mentre rimase completamente in vigore nei confronti delle forze arabe).

I Cecoslovacchi fornirono cinquantamila fucili, seimila mitragliatori e novanta milioni di proiettili. Oltre a questo, fornirono degli aerei Messerschmitt, e i piloti e i tecnici israeliani vennero addestrati a usarli in Cecoslovacchia. Ciò si rivelò un potente contrappeso agli Spitfire che erano stati forniti agli Egiziani dai Britannici. La maggior parte dell’equipaggiamento, comprese le uniformi che indossavano gli Israeliani, era stato fabbricato in Cecoslovacchia dai nazisti.

Durante la guerra fra Israele e il Mondo Arabo che ne seguì, altri 300.000 Arabi Palestinesi se ne andarono: alcuni, stavolta, vennero espulsi in numero considerevole dai comandanti israeliani a livello locale. Senza alcun dubbio c’era il risentimento per la mancanza di volontà del mondo arabo di prendere in considerazione negoziati e compromessi, preferendo scatenare una guerra a tutto campo in seguito alla quale, secondo i calcoli degli invasori, essi dovevano risultare vincitori. C’era risentimento per l’elevato livello di perdite subite dagli Israeliani per il fatto che così poco tempo dopo la Shoah venisse compiuto un altro tentativo per decimare gli ebrei. Tutto questo accentuava il desiderio di amplificare al massimo l’esodo che era iniziato prima della proclamazione dello Stato e ridurre la popolazione araba di Israele ad un minimo politicamente e militarmente impotente. C’era anche una probabile approvazione, ancorché silenziosa, da parte di molti politici.

E qui si interrompe la descrizione delle attività belliche da parte di Shindler che dedica il resto del capitolo a cercare una spiegazione plausibile della diaspora palestinese, che costituisca una spiegazione buonista dell evento.

Ma prima, giusto per dimostrare quanto la saggistica italiana sull’argomento pecchi di superficialità ed approssimazione, tanto da scivolare nella partigianeria, trascrivo quanto riportato da Giovanni Codovini:[3]Gli Ebrei, numericamente inferiori (650.000 contro oltre 1.000.000 di Arabi nella sola Palestina), male armati (9 brigate per un totale di 30.000 uomini, già il 30 maggio videro cadere il settore orientale di Gerusalemme nelle mani della Transgiordania, ma a giugno (esattamente l’11, il giorno della prima tregua) l’avanzata era ormai arrestata. Anzi la direzione si era capovolta.

In quei giorni, anche se la stampa mondiale espresse simpatia per Israele (persino la Pravda) (NdA, sembra esser facile dimenticanza di numerosi presunti studiosi neutrali scordare il riconoscimento immediato dell’Unione Sovietica di Stalin della neonata repubblica e la vendita di armi dalla Cecoslovacchia verso Israele), non mancarono tuttavia tentativi di rimettere in discussione l’esistenza del giovane stato. Tali tentativi trovarono un interprete nel conte Folke Bernadotte, un diplomatico svedese presidente della Croce Rossa. Il 20 maggio egli fu nominato dalle Nazioni Unite mediatore per il problema della Palestina e nel rapporto del 1° luglio propose una nuova frontiera tra gli Stati Arabi e Israele. Il progetto, che tra l’altro assegnava Gerusalemme ed il Negev alla Transgiordania, finì per esasperare la frangia più estremista dell’opinione pubblica israeliana: il 17 settembre alcuni terroristi, ex membri del LEHI, uccisero Bernadotte e un suo collaboratore. Il piano non ebbe seguito.

Dopo aver ripreso l’iniziativa militare nel luglio 1948, grazie alle truppe di Moshe Dayan (futuro ministro della difesa tra il 1967 e il 1974) e l’abilità dell’aviazione che bombardò il Cairo e Damasco (le nuove armi provenivano dalla Francia e Cecoslovacchia) e dopo aver respinto nel gennaio 1949 l’ultima offensiva egiziana, Israele arrivò a una serie di armistizi separati con i vari stati arabi (conferenza di Rodi nel febbraio/luglio 1949) tranne che con Iraq, Arabia Saudita e Yemen, stati che addussero come pretesto di non avere confini comuni con Israele.

Come si vede, sull’argomento non si entra affatto nel dettaglio, salvo attribuire delle responsabilità di voler portare il mondo indietro al conte Folke Bernadotte, sulla cui figura non viene spesa alcuna parola.

In numerosi libri che trattano di Israele, più che dei conflitti guerreggiati, sopratutto in chiave favorevole allo stato ebraico, da un punto di vista critico questa parte della storia poco viene trattata, salvo allegorie o richiami alla lotta di Davide contro Golia; vedi ad esempio Eli Barnavi, “Storia di Israele”, in cui questa parte di storia, a pag. 67, viene trattata in pochissime righe che narrano solo del conflitto interno fra Haganah da una parte ed Irgun e Lehi dall’altra, con una minima menzione a una piccola frangia di dissidenti oltranzisti, frase che non si sa bene a chi si intendesse riferire.

Altrettanto fa Claudio Vercelli in “Israele, storia dello Stato dal sogno alla realtà 1881-2007” che da pagina 170 a 175, glissa abbondantemente sia sui rapporti di forza, definiti “similari” a pagina 170 riferendosi a 30.000 combattenti per poi parlare a pagina 173 di 60.000 elementi per la forza combattente israeliana e dell’assunzione di iniziativa da parte di Tsahal, sia sugli obiettivi delle due parti e le combinazioni ed implicazioni politiche che abbiamo in precedenza visto trattate da altri autori.

Analoga situazione, che non entra affatto nel dettaglio, si trova in La terra contesa di Federico Steinhaus, nella versione con prefazione di Giuseppe Spadolini.

Eppure i dati non mancavano già all’epoca, tali da mettere in dubbio tale ricostruzione e definirla superficiale o partigiana, se non falsa.

Sir John Bagot Glubb, meglio conosciuto come Glubb Pasha, l’ultimo comandante inglese della Legione Araba Giordana, già nel 1957 aveva scritto della forza della componente ebraica e della debolezza degli eserciti arabi, dando anche i seguenti numeri: “On the whole the Israeli Forces in May 1948 were probably fourteen times as great as the Arab Legion in numbers. In their heavier armament, the Arab Legion had a few British weapons, with very little ammunition. The Israelis had many locally made weapons with ample ammunition”.[4]Thus the total Arab forces which took the field on May 15TH, 1948, may be estimated as follows:

Egypt

10.000

Arab Legion

4,500

Syria

3,000

Lebanon

1,000

Iraq

3,000

This gives a total of 21,500, as against the Jewish figure of 65,000.”[5]

Nella sua onestà, il vecchio militare britannico ammette che i numeri sono supposti in quanto non esistevano dati certi e ben precisi, ma certamente deve essersi avvalso di notizie di intelligence, probabilmente fornite dai suoi colleghi britannici. Da buon militare, non guarda solo il fattore numerico, ma anche quello logistico, notando come il movimento per linee interne delle forze israeliane fosse decisamente più favorevole di quello per linee esterne degli eserciti arabi, ricordandoci che la distanza fra Baghdad e Haifa è di circa 700 miglia come quella da Londra a Berlino e che le forze armate egiziane avevano una linea di rifornimenti di 250 miglia nel deserto; senza contare che la maggior parte delle forze armate dei paesi arabi, dovettero rimanere in patria per questioni di sicurezza interna.[6]

E, comunque, dopo questa analisi della situazione conclude dicendo: “In 1948, the number of armed Israelis in the field was always much greater than that of the combined Arab armies attacking them”.[7]

Secondo lo stesso autore, che – ricordiamolo ancora – era il comandante di una delle unità impegnate in questa guerra, tale situazione, che vedeva le forze armate israeliane enormemente superiori a quelle arabe, fu uno dei motivi che spinsero il re Abdullah a cercare un accordo con gli Israeliani.

Simha Flapan, che dal 1954 al 1981 ha ricoperto la carica di segretario generale del partito Israeliano Mapam, nel suo “The birth of Israel-Myths and Realities” del 1987, aveva messo in evidenza tale situazione indicandola come “mito numero sei”.[8]

Questi documenti erano, pertanto, ben noti a coloro che hanno scritto sulla guerra del 1948, come lo avrebbero potuto essere altri, a seguito di interviste o ricerche negli archivi civili militari; ma tanto valeva ignorarli e continuare nella costruzione del mito di Davide contro Golia.

Altrettanto noti erano i documenti relativi alla prima parte della guerra del 1948, quella fra Palestinesi e sionisti che vide il forzato trasferimento di palestinesi, indipendentemente dalla loro appartenenza religiosa altro che ebraica, come testimonia la lettera del 12 novembre 1957 del Cancelliere del Patriarcato Armeno di Gerusalemme, Zaven Chinchinian e indirizzata al giornalista italiano Ugo Dadone, in cui viene stimato in 5.000 il numero degli Armeni “obbligati (forzati)” ad abbandonare la Palestina a causa dell’occupazione sionista.[9]

Il mediatore delle Nazioni Unite, conte Folke Bernadotte

E’ doveroso spendere qui qualche parola su questa persona e sulla vicenda, che tende a cadere nell’oblio.

Nato a Stoccolma nel 1895, Folke Bernadotte ottenne unanimi riconoscimenti come responsabile della Croce Rossa svedese durante la seconda Guerra Mondiale; usò la sua posizione ed influenza per negoziare con Heynrich Himmler e salvare migliaia di ebrei dai campi di concentramento. [10]

Nominato mediatore dalle Nazioni Unite il 20 maggio del 1948, fu grazie al suo intervento che fu negoziata una tregua di 30 giorni l’11 giugno 1948 [11].

Propose un nuovo piano di pace rigettato da ambedue le parti.

Fu ucciso da membri del Lehi[12] (il 16 settembre del 1948) insieme all’osservatore delle Nazioni Unite Andrè Seraut, mentre si recava dal governatore militare di Gerusalemme  Dov Joseph.[13]

Pur conoscendo tutti il nome dell‘assassino, Yehoshua Cohen, parte terminale di un piano congegnato ed organizzato all’uopo, che faceva capo ai vertici dell Irgun e quindi anche a quello che sarà poi uno dei primi ministri di Israele, Ytzak Shamir, [14] lo stesso non fu mai né arrestato né perseguito penalmente. Anzi, in seguito, divenne responsabile della sicurezza di Sde Boker, il luogo ove si ritirò Ben Gurion. Guardia del corpo dello stesso, secondo altre fonti.[15]

I nuovi storici e la nuova storiografia di Israele

Per avere un quadro più chiaro di quanto è successo non si può prescindere dai nuovi storici israeliani e dal contenuto dei documenti scoperti e presentati in numerose pubblicazioni.

Scrive Benny Morris,[16]La seconda metà della guerra: Israele contro gli stati arabi. 15 maggio 1948-primavera 1949 – I rapporti di Forza: ”Le aree ebraiche erano difese da nove brigate dell’Haganah. Altre tre sarebbero state organizzate nelle settimane seguenti. Il 15 maggio l’Haganah disponeva di 30.000÷35.000 uomini; l’Irgun e LHI, insieme, di altri 3.000 circa. Seimila combattenti dell’Haganah appartenevano alle tre brigate delle Palmah. In giugno, l’Israel Defence Force poteva contare su 42.000 combattenti tra uomini e donne. Grossi carichi di armi leggere erano giunte in maggio e nel mese successivo, secondo Ben Gurion, l’IDF <<aveva un surplus>> di materiale. L’industria bellica dell’Yshuv aveva già prodotto in proprio 7.000 Sten,[17] saliti a 16.000 in ottobre.

Alla fine di maggio gli ebrei erano autosufficienti nella produzione di fucili mitragliatori e delle relative munizioni, di mortai di piccolo e medio calibro, di razzi anticarro, di bombe a mano, mine e granate. Il principale handicap dell’Haganah[18] nelle prime due settimane dell’invasione era nel campo delle armi pesanti. Essa era riuscita a sottrarre o comprare dai britannici in partenza tre carri armati, 12 autoblindo, (quattro delle quali con cannoncino), tre semicingolati e tre guardiacoste. Alla fine di maggio erano stati consegnati altri 10 carri armati e una dozzina di semicingolati acquistati all’estero. Inoltre, dal 15 maggio furono disponibili quattro o cinque pezzi di artiglieria da campagna di piccolo calibro (45 alla fine del mese) 24 cannoni antiaerei anticarro,[19] 75 Bazooka PIAT [20] (Projectors, infantry, antitank) e un centinaio di autocarri blindati (per lo più in modo artigianale) per il trasporto di uomini e materiali. L’Haganah disponeva anche di 700 mortai da due pollici e di 100 mortai da tre pollici, più pochi mortai pesanti prodotti in loco (i così detti Davidka), che, nell’insieme, compensarono in certa misura l’iniziale carenza di artiglieria vera e propria.

Per quanto riguarda l’aviazione, l’Haganah aveva  aerei leggeri da ricognizione e trasporto, ma nessun caccia (anche se alcuni erano dotati di mitragliatrice e furono usati per sganciare piccole bombe). Ma entro il 29 maggio Israele aveva ricevuto, montato e inviato in missione, quattro caccia cecoslovacchi Messerschmitt Avia 199.[21] [22]

Entrambe le parti tendevano a sopravvalutare la forza dell’avversario; la strategia dell’Yshuw è incomprensibile se non si tiene conto del suo sincero timore di essere sconfitto ed annientato, che cominciò a dissolversi solo dopo la constatazione che gli eserciti arabi erano molto più piccoli e disorganizzati del previsto. A metà del 1947, Ben Gurion credeva che la Legione Araba della Transgiordania consistesse in non meno di 15.000÷18.000 uomini con 400 carri armati, mentre in realtà essa non aveva alcun carro armato e i suoi soldati in quel momento erano non più di 6.000. Gli eserciti arabi erano molto meno temibili di quanto Ben Gurion pensasse e non impegnarono mai la loro intera forza in Palestina. Solo il regime giordano si considerò abbastanza solido da gettare nella mischia quasi tutto il suo esercito.

Le forze arabe in Palestina consistevano (fino alla fine di maggio) in non più di 28.000 uomini. Circa 5.500 egiziani, tra 6.000 e 9.000 legionari arabi, 6.000 siriani, 4.500 iracheni, un pugno di libanesi; gli altri erano irregolari e volontari stranieri.

Sulla carta, secondo stime dell’Haganah, la coalizione degli eserciti arabi disponeva di 75 aerei da guerra, 40 carri armati, 500 blindati, 140 cannoni da campagna e 220 cannoni antiaerei. In effetti, il loro equipaggiamento era ben più modesto e in parte inutilizzabile (specialmente gli aerei, mentre un’altra parte non varcò mai i confini palestinesi).

Dopo l’invasione entrambi gli schieramenti potenziarono sensibilmente le loro forze armate, ma la corsa alla mobilitazione fu vinta dagli ebrei con ampio margine. A metà luglio l’IDF schierava quasi 65.000 uomini, che salirono a 115.000 nella primavera del 1949. I paesi arabi disponevano probabilmente in Palestina e nel Sinai di circa 40.000 uomini a metà luglio e di 55.000 in ottobre con un ulteriore modesto incremento entro al primavera del 1949.

Ci fu quindi un declino relativo della forza araba nel corso del conflitto, sfociato nel settembre-ottobre 1948 in una chiara, benché non soverchiante, superiorità israeliana. Ciò dipese dalla “vittoria“ ebraica contro l’embargo internazionale sugli armamenti, imposto dal consiglio di sicurezza dell ONU ai belligeranti dal 29 maggio 1948 all’11 agosto 1949. Ancora prima, il 14 dicembre 1947, gli Stati Uniti avevano dichiarato un embargo unilaterale. All’inizio di febbraio del 1948 la Gran Bretagna – unico fornitore di materiale bellico a Iraq, Egitto e Transgiordania – cominciò a ridurre le consegne in tutto il Medio Oriente. L’embargo fu applicato con grande rigore da Stati Uniti e Gran Bretagna oltre che dalla Francia, tradizionale fornitore di armi a Siria e Libano. Oggi è possibile affermare che esso danneggiò gli arabi molto più dell’Yshuw.

Gli stati arabi non avevano fornitori alternativi, e da luglio in poi i loro eserciti soffrirono di una grave carenza di armi, munizioni e pezzi di ricambio.

Teoricamente nell’ottobre 1948, l’aviazione egiziana possedeva 36 caccia e 16 bombardieri; ma non potevano alzarsi in volo mai più di una dozzina di caccia e di tre o quattro bombardieri, con poche munizioni e equipaggi male addestrati. L’Haganah, d’altra parte, aveva creato un’ampia rete segreta di approvvigionamenti in Europa e e nelle Americhe.

Circa 129 milioni di dollari, in liquidi o variamente garantiti, furono raccolti tra gli ebrei all’estero; di questi, 78,3 milioni furono spesi per l’acquisto di materiale bellico tra l’ottobre 1947 e il marzo1949. All’inizio della guerra, trattative andarono a buon fine con la Cecoslovacchia, bisognosa di valuta pregiata e con società private in Europa Occidentale e negli Stati Uniti; invii di armi relativamente ingenti si ebbero il 30 marzo 1948 e sopratutto dopo la proclamazione dello stato di Israele il 14 maggio. Né i cecoslovacchi, né le società private si curarono dell’embargo delle Nazioni Unite, ma gli stati arabi non disponevano né delle risorse economiche né dei contatti necessari ad accedere a quei potenziali fornitori.

Migliaia di ebrei ben addestrati e molti volontari gentili[23] – più di 300 spesso reduci della seconda guerra mondiale e in gran parte statunitensi e canadesi – prestarono servizio nell’aviazione israeliana nel 1948; 198 come equipaggi d’aeroplano. Quindi l’IAF (Israeli Air Force, l’aviazione israeliana), aveva più personale addestrato del necessario, gli arabi molto meno del necessario; ciò spiega perché nell’ottobre 1948, con appena una dozzina di caccia, l’IAF conquistò la superiorità area sugli egiziani. L’abbondanza di personale addestrato, di munizioni e di pezzi di ricambio fu decisiva.

E già quanto scritto da Morris, che sull’argomento ha avuto accesso a fonti ebraiche e israeliane in particolare, getta una luce di sfiducia su quanto scritto anche da Codevini, citato in precedenza, in quanto a superficialità e mancanza di approfondimento, sia per quanto riguarda i numeri, che armamenti, logistica, disponibilità economiche ed addestramento.

Continuiamo. Scrive Martin van Creveld: [24] In base alle informazioni contenute nel diario di Ben Gurion, alla metà del 1947 gli stati arabi potevano arruolare un totale di 160.000 uomini nonché 40 carri armati e mezzi blindati. Tuttavia, queste forze non parteciparono certo tutte all’invasione della Palestina. Alcuni regimi arabi, segnatamente la Siria e la Giordania, non potevano impegnare in quel senso tutto il loro potenziale, a causa di problemi di sicurezza interna, una questione che allora, come in seguito, Israele non dovette mai affrontare se non in modo molto marginale. La rispettiva posizione geografica dell’Egitto e dell’Iraq comportava che gli eserciti di questi due paesi fossero costretti ad operare al capo terminale di lunghe linee di comunicazione, le quali avrebbero dovuto rivelarsi oltremodo vulnerabili.

Alla fine, la consistenza delle forze di invasione si limitò approssimativamente a 30.000 uomini. Il singolo contingente più forte era quello giordano che abbiamo già descritto. Si trascrive, per completezza di informazione, anche quanto citato da van Creveld in relazione al contingente giordano[25] <<Pagata dal ministero del tesoro di sua maestà e comandata da circa 50 ufficiali britannici, per gran parte della sua storia la Legione Araba aveva preso ordini più dall’ambasciatore britannico ad Amman che dal re Hashemita Abdullah.[26] Nel 1946, tuttavia, alla Transgiordania era stata concessa l’indipendenza e, in ogni caso, la necessità di portare la maggior parte possibile di territorio palestinese sotto il controllo del re Abdullah, alleato del loro impero, era un obiettivo sul quale il re giordano ed i suoi ufficiali pagatori concordavano perfettamente. Sui 20.000 uomini della legione araba, poco meno della metà erano a disposizione in caso di guerra. Inoltre, contrariamente alle leve palestinesi, si trattava di una forza regolare fornita di un’organizzazione adeguata, con tanto di artiglieria e mezzi blindati. Si rivelò anche meglio addestrata e più motivata rispetto al resto delle forze arabe in campo>>.

L’altro nuovo storico israeliano Ilan Pappè, scrive:[27]Anche se l’esercito giordano era il più forte tra le forze arabe e avrebbe potuto quindi costituire un nemico formidabile per lo stato ebraico, esso fu neutralizzato sin dal primo giorno di guerra a causa della tacita alleanza stretta tra il re Abdullah e il movimento sionista.[28] Non stupisce quindi che il comandante in capo inglese della legione araba, Glubb Pasha, abbia chiamato la guerra di Palestina del 1948 “la guerra finta” (Phony war, nella versione inglese). Glubb era al corrente non solo delle restrizioni imposte da Abdallah alle operazioni della Legione, ma anche delle generali consultazioni panarabe e dei vari preparativi. Come i consiglieri militari inglesi dei vari eserciti arabi – ed erano molti – anch’egli sapeva che i preparativi degli altri eserciti arabi per un’operazione di salvataggio in Palestina erano del tutto inefficaci, “patetici” secondo alcuni suoi colleghi, ivi compreso l’ALA.[29]

L’unico cambiamento nel generale comportamento arabo al termine del mandato si verificò nella retorica. I tamburi di guerra suonavano sempre più forte e con più violenza, ma non riuscivano a vincere l’inerzia, lo scompiglio e la confusione. Forse la situazione era davvero diversa nelle varie capitali arabe, ma il quadro era complessivamente lo stesso. Il governo egiziano decise di inviare truppe in Palestina solo all’ultimo momento, due giorni prima del termine del mandato. I 10.000 soldati predisposti comprendevano un ampio contingente, quasi il 50 % di volontari della fratellanza musulmana … omissis … ma naturalmente mancavano di addestramento militare e, nonostante il loro fervore, non costituivano un vero pericolo per le forze ebraiche.[30]

Le forze siriane erano meglio addestrate e i loro capi politici più impegnati, ma erano passati solo pochi anni dalla loro indipendenza, avvenuta con la fine del mandato francese, e il numero esiguo di truppe inviate dai siriani in Palestina ottenne risultati così scarsi che già prima della fine di maggio del 1948 la Consulta[31] aveva cominciato a valutare la capacità di espandere i confini dello stato ebraico sul lato nord-orientale in Siria annettendo le alture del Golan.[32]

Ancora più esigue e ancora meno impegnate erano le unità libanesi, che per quasi tutta la durata della guerra si accontentarono di restare dalla loro parte del confine palestinese cercando con poca convinzione di difendere i villaggi circostanti.

Nella pubblicazione The War for Palestine – rewriting the History of 1948 – edited by Eugene L Rogan and Avi Shlaim, a page 80-81, si legge: “as far as the military balance is concerned, it was always assumed that the Arabs enjoyed overwhelming numerical superiority. The war was accordingly depicted as one between the few against the many; was a desperate, tenacious, and heroic struggle for survival against the many, as a heavy odds. The desperate plight and the heroism of the Jewish fighters are not in question. Nor is the fact that they had inferior military hardware at their disposal, at least until the first truce, when illicit arms supplies from Czechoslovakia decisively tipped the scales in their favor.

But in mid-May 1948 the total number of Arab troops, both regular and irregular, operating in the Palestine theater, was under 25.000 troops. By mid-July the IDF mobilized 65.000 men under arms, and by December its number has reached a peak of 96.441. The Arab states also reinforced their armies, but they could not match this rate of increase. Thus, at each stage of the war, the first round of fighting, it outgunned them too. The final outcome of the war was therefore not a miracle but a fateful reflection of the underlying military balance in the Palestine theater. In this war, as in most wars, the stronger side prevailed”

Una particolare trattazione merita[33] il ruolo della Transgiordania all’interno della coalizione araba e di come la dinastia Hashemita perseguisse interessi propri legati sia all’espansione del territorio che alla sopravvivenza della monarchia stessa, cose che una possibile futura entità palestinese avrebbe posto a rischio. In tale quadro vanno letti gli incontri – citati anche in questo testo – fra Golda Meir ed Abdullah a Naharayim il 17 novembre 1947 e di cui parla diffusamente Alan Hart.[34] [35]

Nel suo libro[36] vengono analizzati sia i rapporti di forze fra gli eserciti rivali, sia il ruolo giocato dalla Transgiordania all’interno della coalizione araba; e per meglio chiarire tale concetto, Hart riporta un colloquio avuto con la stessa Meir sull’argomento: ”Through his personal surgeon in Jerusalem, Dr Mohammed el Saty, she (NdA, Meir) could communicate directly with the Hashemite monarch. When Arab newspapers reported that Transjordan was about to follow Egypt and commit to war against the Jews, Golda sent Abdullah a short message . “Is this indeed so?” she asked.[37] (Many years later Golda’s recall of the prompt reply from Amman included this <<King Abdullah was astonished and hurt by my question. He asked me to remember three things: that he was a Bedouin and therefore a man of honor, that he was a king and therefore a doubly honorable man; and finally that he would never break his word to a woman. So there could not possibly be any justification for my concern”>>. Ma è soprattutto importante riportare una frase del libro di Hart, a pagina 47 del quale scrive: “and you did not have to be a genius of any kind to work out that the frontline Arab rulers, in constant fear of being toppled from within, would not even dream of committing to war in Palestine more that a portion of their regular forces. Fighting the Jews might be quite important, but protecting their own backs at home was much more important”.

E il solo impegno da parte di Abdallah, secondo quanto riporta Hart, fu con la temuta Legione Araba per salvare Gerusalemme dall’attacco delle forze ebraiche che cercavano di occuparla militarmente; in questo caso per un rendiconto personale visto che vi era stata una dichiarazione da parte del segretario della Lega Araba, Azzam, di dichiararlo re di Gerusalemme qualora avesse utilizzato la Legione nella difesa di Gerusalemme stessa.

Secondo quanto testimoniato dal comandante della Legione Araba Giordana, John Bagot Glubb, detto Glubb Pasha, la Legione Araba varcò il ponte di Allenby il 15 maggio 1948, quando già dal 14, all’evacuazione delle ultime truppe britanniche e del High Commissioner dalla città, era seguita, dopo neanche mezz’ora, la presa di possesso delle caserme e delle piazzeforti britanniche da parte dell’Haganah, che, avanzando su tre colonne, aveva occupato la stazione ferroviaria, la colonia tedesca e le caserme Allenby, stabilendo il contatto a nord con la guarnigione ebraica che controllava l’ospedale Hadassa e l’Università Ebraica sul monte Scopus, con solo gli irregolari arabi che si erano ritirati nella città vecchia chiudendone la porte nonostante gli inviti degli ufficiali ebraici di abbandonare la città e di scappare attraverso la strada di Jericho. Evidentemente Deyr Yassin aveva insegnato qualcosa.[38] Ma quello che è importante rammentare è che nel piano di ripartizione Gerusalemme non era stata assegnata ad alcuna delle due parti; per cui, se sono da biasimare gli eserciti arabi per aver iniziato le operazioni militari contro Israele in violazione dell’accordo, non si comprende perché non si sia biasimato il nascente stato per il suo tentativo di occupare militarmente una zona internazionale.

Chi desiderasse approfondire l’argomento afferente alle reali intenzioni di Abdullah e al suo mancato coinvolgimento reale all’interno della coalizione, visto l’accordo preso con la dirigenza sionista, può utilizzare i documenti e quanto scritto da Ilan Pappè nel suo Arab-Israeli conflict 1947-1951, in particolare nel 4° capitolo, The Arab World Goes to War or Does It ? The General Arab Preparation.

Qualora servissero ulteriori punti di vista nel confermare tale situazione, si possono trovare in quanto scrive Charles D. Smith [39]: “Plans for a coordinated Arab attack had been made in april under Arab League auspices.[40] The fighting forces included units from Iraq, Syria, Lebanon, Egypt and Jordan with a token from Saudi Arabia. Nevertheless, the Israelis held a manpower advantage over the Arab armies backed by superior military training and commitment; the only comparable units were those of Jordan’s Arab Legion. In addition there was no coordination of Arab military movements because the participants were mutually suspicious of one another’s territorial ambitions. All richly suspected Jordan’s Abdullah of seeking to acquire control of the area allotted to the Palestinians Arabs under the partition plan in order to incorporate it into his kingdom, thereby enlarging his country and defeating the mufti in process. The Israelis were well aware of Abdullah aspirations. Zionist representatives had been in contact with him in 1947 and again in 1948 when he expressed his acceptance of partition. Abdullah felt constrained to attack Israeli forces after independence because they were taking over areas within the Arab partition zone, but his Arab Legion, the best of the Arab forces, did not undertake sustained offensives, preferring to establish defensive perimeters around the areas Jordan coveted. Israeli and Jordanian aims generally coincided with the exception of Jerusalem, where Jordan was able to retain control of the old, eastern sector, leaving the Israeli the newer, western sector.”

Scrive Hart,[41] parlando della riunione tenuta dai vertici israeliani prima della dichiarazione di indipendenza per valutare la situazione prima dell attacco da parte della coalizione araba: “Slowly and dramatically Ben Gurion read out the contents of the files, pausing to let each figure make an impression on his audience. From file one: 25.000 rifles; 5,000 machine guns; 58m millions rounds of ammunition; 175 howitzer; and 30 airplanes with options on more. From File two: 10 tanks; 35 anti aircraft guns; 12 120 millimeter mortars; 50  65 millimeter cannons; 5.000 rifles, 200 heavy machine guns, 97.000 artillery and mortar shells of assorted calibres; and 9 million rounds of small arms ammunition” puntualizzando poi[42] l’equipaggiamento di cui nel corso del conflitto disponeva la forza aerea israeliana: 20 Messerschmitt, 5 P-51 Mustang, 4 Beaufighters, 7 Sansons,[43] 3 B17 Fortezze Volanti, 3 Constellation, 15 C46, 2 DC4 e 10 DC3

Ma probabilmente la parte più importante è laddove scrive:

“After both reports had been presented there was a final military briefing by Yigael Yadin, the Haganah’s chief of operations and Ysrael Galili, its de facto commander in Chief. The assessment of both men was that the Jewish State would have a “50-50” chance of surviving a concerted Arab tack. As Yadin put it” we are as likely to win as we are to be defeated”.[44] In fact the 50-50 assessment was much too pessimistic. It was made on the worst case scenario including the wrong assumption that Abdullah was going to break his promise and join a concerted Arab attack on the Jewish State of the partition plan. If the reality of Abdullah’s position had been factored in, the assessment of Israel’s ability to survive would have been much better than 50-50: perhaps 70-30 or even 80-20”.

Se vogliamo ignorare il lavoro di Hart, relegandolo al semplice ruolo di attività giornalistica, sebbene le sue fonti e i suoi riferimenti siano sempre stati puntuali e precisi, ritorniamo nel campo degli storici, con quanto scrive Avi Shlaim[45]: “The conventional Zionist version portrays the 1948 war as a simple, bipolar no-holds barred struggle between a monolithic Arab adversary and a tiny Israel. According to this version, seven Arab armies invaded Palestine upon expiration of the British mandate with a single aim in mind: to strangle the Jewish state as soon as he come into the world. The subsequent struggle was and unequal one between a Jewish David and an Arab Goliath. The infant Jewish state fought a desperate, heroic, and ultimately successful battle for survival against overwhelming odds. During the war hundreds of thousands of Palestinians fled to the neighboring states, mainly in response from their leaders and in the expectations of a triumphal return. After the war, the story continues, Israel’s leaders sought peace with all their heart and all their might, but there was no one to talk with on the Arab side. Arab Intransigence was alone responsible for the political deadlock that persisted for three decades after the gun fell silent.

This popular, heroic, moralistic version of the 1948 war has been used extensively in Israeli propaganda and is still taught in Israeli schools. It is a prime example of the use of nationalist versions of history in the process of nation building. In a very real sense history is the propaganda of the victors, and the history of the 1948 war is no exception… omissis… following the release of the official documents, however, this version was subjected to critical scrutiny. The two main claims about the official phase of the 1948 war concern the Arab – Israeli military balance and Arab war aims.

As far as the military balance is concerned, it was always assumed that the Arabs enjoyed overwhelming numerical superiority. The war was persistently portrayed as a war of the few against the many. The desperate plight and the heroism of the Jewish fighters are not in question. Nor is the fact that they had inferior military hardware at their disposal, at least until the first truce, when illicit arms supplies from Czechoslovakia decisively tipped the scales in their favor. But in mid 1948 the total number of Arab troops, both regular and irregular, operating on the Palestine theater was under 25.000, whereas the IDF folded over 35.000 troops. By mid-July the IDF mobilized 65.000 men under arms, and by December sits numbers had reach a peak of 96.441. The Arab states also reinforced their armies, but they could not match this rate of increase. Thus, at each stage of the war, the IDF significantly outnumbered all the Arab forces arrayed against it and by the final stage of the war its superiority ratio was nearly two to one. The final outcome of the war was therefore not a miracle but a reflection of the underlying Arab Israeli military balance. In this war, as in most wars, the stronger side ultimately prevailed.[46]

As far as Arab war aims are concerned, the older generation of Israeli historians have maintained that all the forces sent to Palestine were united in their determination to destroy the newborn Jewish state and to cast the Jews into the sea. In this they simply expressed the prevalent perception on the Jewish side at the time. It is true that the military experts of the Arab league had worked out a unified plan for the invasion, but king Abdullah, who was given nominal command over all the Arab forces in Palestine, wrecked this plan by making last minute changes. His objective in sending his army into Palestine was not to prevent the establishment of a Jewish state, but to make himself the master of the Arab part of Palestine. There was no love between Abdullah and the other Arabs rulers, who resented his expansionist ambitious and suspected him of being in cahoots with the enemy. Each of the other Arab states was also moved by dynastic or national interest, which were hidden behind the fig leaf of securing Palestine for the Palestinians … omissis … Ben Gurion had a grand strategy which he presented at the general staff on 24 may, ten days after the declaration of independence and which stewed a number of key points. first he had a clear order of priorities: Jerusalem, Galilee in the north and the Negev in the south. Second, he preferred an offensive to a defensive strategy. Third, his method of dealing with the hostile Arab coalition, and one that become a central tenet in Israel’s security doctrine was to pick off the Arabs one by one; to attack on one front at a time while holding on in the other fronts. Fourth, he wanted  to force a showdown with Jordan’s Arab Legion, in the belief that if the mighty legion cold be defeated, all the other Arab armies would rapidly collapse”.

 

Se necessitasse ancora un supporto a tale tesi, ricordiamo quanto scritto da Shlomo Ben Ami[47]: “Perfino Ben Gurion, durante un incontro del gabinetto israeliano verso la fine della guerra (19 dicembre 1948) ammise che non era vero che si trattava di una guerra dei pochi contro i molti. E in altra occasione ribadì: <<sebbene possa suonare incredibile, all’epoca possedevamo un esercito ben più grande dei loro>>.[48]

Appare ovvio, da tutto quanto detto e ormai disponibile grazie ad una attenta opera di ricerca dei nuovi storici, in particolare Morris, Pappe e Shlaim, che vi era una situazione del tutto favorevole al nuovo stato; dal puro e semplice rapporto di forze in campo, tra personale, armamenti e logistica, al comando e controllo. Né può essere ignorato il livello di addestramento del personale.

Tra le fila delle forze ebraiche vi erano i combattenti che avevano militato nella “Brigata Ebraica” dal 1944 e prima ancora nel Palestine Regiment formatosi nel 1941 e nelle compagnie ebraiche dell’East Kent Regiment e dei gruppi del Palmach (Plugot Ha Mahatz), quando si radunarono tutte le forze possibili per contrastare un possibile sfondamento tedesco-italiano in Egitto, per un totale di circa 5000 unità.[49] Da sottolineare che alcuni reparti ebrei vengono impiegati in missioni speciali in Iraq, in Siria ed in Libano, ed in una di queste missioni muore il capo dell Irgun, David Raziel e che una compagnia del King’s West African Rifles composta da quattrocento ebrei palestinesi viene impegnata in Libia a Bir Hakeim, scontrandosi anche con le forze italiane della Ariete.[50]

La Brigata Ebraica[51] aveva combattuto al seguito della 8a Armata Britannica in Italia[52] e qui era rimasta sino allo scioglimento avvenuto nel 1946. I suoi membri, ripartiti in unità di fanteria, artiglieria e servizi logistici, erano quindi in grado di conoscere non solo le tecniche di combattimento individuale, ma anche quello organizzato e di manovra, avendo partecipato ai combattimenti che portarono allo sfondamento del Senio[53] e che condussero le forze britanniche poi sino a Trieste.[54]

La forza di difesa dell’Haganah, che più tardi si trasformerà, come detto, nelle forze armate israeliane, aveva già visto le sue origini nel 1920 su ispirazione di Vladimir Ze’ev Jabotinsly e di Elihau Golomb[55] e raccoglieva dei gruppi già costituiti fra il 1909 ed il 1920, raccolte nell’Hashomer (la guardia), il cui motto era “ bedam va’esh Yehudah Naflah- bedam va’es Yehudah takun (nel sangue e nel fuoco la giudea è caduta, nel sangue e nel fuoco la giudea risorgerà). Già alla sua nascita, l’Haganah aveva incorporato i militari ebrei impegnato nel 1915 nell’esercito britannico; né va sottaciuto l’addestramento fornito dall’ufficiale britannico Orde Wingate, giunto in Palestina nel 1936 che, cristiano, ma animato dall’idea che il sionismo fosse uno strumento di un piano divino, organizzò numerose aggregazioni ebraiche in gruppi chiamati SSN (squadre speciali notturne), che operarono contro delle bande arabe, attaccando i villaggi sospettati di dare loro rifugio. Nel 1939, considerati i suoi troppo stretti legami con gli ebrei, fu trasferito ad altra sede dai suoi superiori. L’importanza della sua azione è stata descritta da Ben Gurion con le seguenti parole “i migliori ufficiali dell’Haganah furono addestrati nelle squadre speciali notturne e le teorie di Wingate furono rilevate e fatte proprie dalle forze di difesa israeliane”.[56]

Al contrario della parte ebraica che, nonostante indecisioni e tentennamenti, ed anche opposizioni, aveva scelto di stare al fianco della componente britannica durante la 2^ guerra mondiale, quella araba aveva parteggiato per la componente tedesco-italiana, né poteva essere altrimenti.

Di fatto, gli Inglesi si ponevano come potenza occupante del Medio Oriente, vuoi a mezzo di governi controllati, che di creazioni politiche artificiali quali i mandati; il possesso di tali aree era strategicamente importantissimo in quanto assicurava il controllo del Canale di Suez, da cui transitava la linea vitale dei rifornimenti da e per l’India, e delle riserve petrolifere Medio Orientali, in particolare quelle persiane.

Ovviamente, le numerose dichiarazioni di intenti da parte tedesca e italiana di vicinanza con i popoli dell’Islam e, soprattutto, la promessa della concessione della libertà ed indipendenza per tali nazioni – la cui costruzione artificiale e foriera di innumerevoli conseguenze negative è stata decisa a seguito degli accordi fra le potenze vincitrici della prima guerra mondiale, in particolare Francia e Gran Bretagna, per consentire la prosecuzione del loro impegno colonialista e di perseguimento dei propri interessi – aveva ingenerato sentimenti di profonda sfiducia da parte della potenza occupante britannica nei confronti della popolazione araba.

Era chiaro alle due potenze coloniali che la creazione di una nazione araba, che avrebbe cementato tale unione attraverso esperienze comuni quali il discorso religioso o l’appartenenza ad una cultura comune, avrebbe potuto portare al sorgere di una potenza regionale sostitutiva di quella ottomana, con conseguente rischio per i traffici e le vie di comunicazione con l’oriente, oltre che creare le premesse per uno sfruttamento della nuova risorsa energetica del petrolio, di cui gli inglesi si erano già resi conto. L’intero progetto coloniale sarebbe stato posto a rischio. E quanto contassero tali idee emerge da una completa lettura degli accordi di Sevres, in occasione dei quali si osserva il sorgere di piccole strutture nominalmente autonome, ma in realtà sotto stretto controllo coloniale, quali la Siria e la Mesopotamia, addirittura privi di confini che dovranno essere delineati dalle potenze suddette, e l’ossessione per il passaggio dei traffici mercantili, che pone condizioni al re dell’Hejaz, quel Feysal che pure era stato alleato delle potenze vincitrici.

Al di là della Legione Araba della Transgiordania, che, sotto guida e comando britannico, partecipò alle operazioni militari Britanniche contro il governo Iracheno di Rashid Ali, favorevole alla Germania,[57] non furono presenti forze di paesi mediorientali nella seconda guerra mondiale in particolare di quelle che invasero la Palestina.

–         Egitto: “La seconda guerra mondiale appare all’opinione pubblica egiziana come un contrasto che vede da una parte gli alleati, padroni delle colonie e dominatori di altri paesi, tra i quali l’Egitto, e dall’altra le nuove potenze che disputano loro la supremazia. I seguaci dell’asse in Egitto sfruttano a fondo la crisi alimentare e l’irritazione sempre più viva provata dall’uomo della strada contro lo stato d’assedio e la trasformazione del paese in base militare per il Middle East Command. Nel gennaio-febbraio 1942 ha luogo l’avanzata del maresciallo Rommel fino ad el Alamein, a 80 chilometri ad ovest di Alessandria. E’ vista da tutti come il preludio ad una liberazione dell’Egitto da parte delle truppe italo-tedesche. Le manifestazioni contro la mancanza di viveri degenerano in una esplosione anti-britannica al grido di ILAL AMAM JA ROMMEL (avanti Rommel) e di HIZA FARUK FAUKA RASAK JA GEORGE (la scarpa di Faruk[58] sulla tua testa, George). II mattino del 4 febbraio 1942 i tank britannici circondano il palazzo di Abdin e impongono a Faruk un ministero presieduto da Mustafa el Nahas che accetta di tornate al potere “sulla punta delle baionette inglesi” come in seguito si dirà”.[59] Dalle parole di Abdel Malek appare chiaro quale fosse il sostegno e l’apprezzamento della popolazione egiziana verso l’occupante inglese ed infatti il re Faruk riuscì ad evitare al suo paese l’entrata in guerra a fianco dei britannici, almeno sino agli ultimi giorni; qualsiasi altra decisione avrebbe infatti potuto costargli il trono,[60] cosa che difatti accadde nel 1952 ed i cui prodromi vanno cercati proprio nella sconfitta subita nel 1948[61]. La preparazione delle forze armate egiziane si rivela dalle parole di Zakaria Mohiedin, uno dei futuri vice – presidenti egiziani che studiava all’epoca in una accademia militare:” Orders came that we had to stop studying so that could be distributed to units entering Palestine. there was not enough preparation-mentally or militarily. They said that we had to be ready within twenty four hours. We could not object because, in the army, no one objects to supreme orders. But we were not thinking about the problems of Palestine. What we had in mind was how to get rid of the British colonization in Egypt”.[62] E lo stato delle forze egiziane, le più consistenti in questa raffazzonata alleanza, sono così descritte da Bregman ed El-Tahri: “The 15.000 men sent from Egypt were the largest Arab league force. But they had no battle experience and no more than Three days logistic supplies. They thought they could count on the backing of the other four invading Arab armies- the Iraqi, Syrian, Lebanese and Jordanian forces. And, anyway, how could the Jewish fighters stand up to the troops of five regular armies? Within a month, the Egyptian attack was practically halted by the Jewish troops, and the Jews found they had little to fear from the Iraqi, Syrian and Lebanese troops who were very few and badly equipped”.[63]

–         Libano: Nel 1943 al Libano era stata concessa l’indipendenza dopo che il governo francese di Vichy, che controllava l’area, era stato esautorato dalle forze britanniche e della Francia libera nel 1941; [64] nella realtà, le truppe francesi rimasero sino al 1947 pervenendo ad un confronto quasi fisico con quelle britanniche, non volendo la nuova Francia rinunziare a determinate prerogative coloniali. [65]

–         Iraq: Jon Kimche [66] ci descrive quali siano stati i forti sentimenti anti britannici che condussero ad uno cambio di governo nell’Iraq del 1941 e che portarono ad un bombardamento della RAF[67] nei confronti dell’esercito iracheno e ad un successivo intervento di truppe britanniche per ristabilire un governo favorevole alla Gran Bretagna.

Appare chiaro, dal quadro appena dato, come nessuna forza araba, o quasi, ad eccezione della Legione Araba sotto pieno controllo britannico, abbia partecipato ai combattimenti, perdendo così la capacità di acquisire conoscenze militari e di organizzazione logistica, oltre a verificare il vero e proprio combattimento; da parte britannica, sopratutto, e poi francese, non vi era interesse ad addestrare e formare militarmente eserciti che erano dichiaratamente a favore della completa esclusione del controllo coloniale e che avevano manifestato simpatie per le potenze dell’asse, non in quanto ne condividessero gli obiettivi, ma perché erano nemiche del proprio nemico.

Ma anche questa ultima supposizione si rivelò errata, come dimostra proprio la situazione irachena, dove l’aiuto proposto dai tedeschi ai militari che nel 1941 avevano dato vita ad un cambio di governo in funzione anti britannica, non si realizzò mai in pratica.[68]

L’accondiscendenza verso il governo coloniale britannico da parte dei governi in carica dei paesi elencati, soggezione su cui si basava il supporto militare ed economico fornito dalla Gran Bretagna, aveva portato, inoltre, alla nascita di forti movimenti nazionalistici e islamici nei vari paesi citati contrari ovviamente alle politiche di dipendenza coloniale, talché gli eserciti erano più impegnati in funzioni di ordine e sicurezza pubblica che in qualcosa di simile ad una vera e propria attività di difesa o militare, e pertanto solo una piccola parte di essi poteva essere distratta per fini diversi dalla sicurezza interna.

Gli obiettivi politici degli arabi

Mentre da parte ebraica l’unico obiettivo era quello della costituzione di uno stato di Israele sulla maggior parte possibile di territorio della Palestina, gli obiettivi dei vari stati arabi erano completamente diversi.

Bregman ed el-Tahri ci raccontano come l’obiettivo della sparuta dirigenza palestinese non fosse quello di un’invasione degli eserciti arabi: ”Haj Amin Husseini, the Head of the arab High committee and the main Palestinian spokesman in exile, was fiercely opposed to the intervention od Arab regular armies. He favored intensifying attacks by local fighters. He did not hide his anxiety that if the Arab armies entered Palestine, king Abdullah of Jordan would occupy Jerusalem and claim it as part of his Kingdom”.[69]

Anche da parte di numerosi politici egiziani l’entrata in guerra era considerata negativamente. “The Egyptian prime mister, Mahmoud Fahmi El-Nokrashi Pasha, also opposed intervention. During a Parliamentary session held in Cairo on 25 April 1948, he argued that Egypt’s primary objective was to persuade Britain to leave the Suez canal zone rather than to enter a costly war with the Zionist. After extensive debate – during which no preparations were undertaken – and barely a fortnight before 15 may – Egypt decided to abide by the Arab League members’ decision to go to war. Azzam Pasha,[70] now the main advocate for a concerted Arab attack, did not hide his unease about the lack of preparation. The Arab rulers, he was convinced, had totally underestimated the strength of the Jewish fighters”. In realtà l’Egitto entrò in guerra essenzialmente per motivi legati alla necessità del re Farouk di recitare un ruolo di primo attore nel mondo arabo. Come scrive Alan Hart, fu il primo ministro Libanese Riad Sohl che, attraverso i buoni uffici del di Antonio Pulli, il ministro di Farouk per gli affari personali – ossia il procacciatore di donne per il suo harem – ebbe un incontro privato in cui riuscì a convincere il re che la lotta contro gli ebrei sarebbe stata una passeggiata e che, se l’Egitto non avesse partecipato, tutta la gloria sarebbe ricaduta sul re Abdullah di Transgiordania.[71] Per comprendere questa situazione basta rifarsi a quanto scrivono Shlaim e Rogan: “Tuttavia la lega araba era divisa fra un blocco Hashemita, composto da Transgiordania ed Iraq, ed un blocco anti Hashemita guidato da Egitto ed Arabia Saudita. Le rivalità dinastiche giocarono un ruolo fondamentale nel definire l’approccio arabo alla Palestina. Re Abdullah di Transgiordania era guidato dalla vecchia ambiziose di diventare il dominatore della grande Siria, composta oltre che dalla Transgiordania, Siria, Libano e Palestina. Re Farouk considerava l’ambizione di Abdullah una minaccia diretta alla supremazia dell’Egitto nel mondo arabo. I governanti di Siria e Libano vedevano in Abdullah una minaccia all’indipendenza dei loro paesi e sospettavano anche che fosse in combutta con il nemico”.[72]

Appare chiaro, quindi, il gioco delle varie nazioni arabe, pochissimo interessate alla questione palestinese, se non nella forma, tanto che furono negati gli aiuti a quel che rimaneva della dirigenza palestinese.[73]

L’intenzione della Transgiordania di annettersi il territorio riservato dalla spartizione delle U.N. all’entità palestinese avrebbe comportato un allargamento del regno Hashemita e sicuramente una posizione di preminenza all’interno del mondo arabo, foriero di una possibile unione per la ricostruzione di un grande regno arabo, il sogno promesso da Mac Mahon nel suo carteggio con Husayn nella prima guerra mondiale, e per cui si originò la rivolta araba contro gli ottomani, sogno poi rimasto tale. Sogno che, ovviamente, collideva con gli interessi egiziani e sauditi e che non teneva in alcun conto le aspirazioni palestinesi. Sogno che da parte israeliana era ben conosciuto, che portò ad una generale intesa sugli obiettivi ebraici ed Hashemiti nell’intera area.[74]

La situazione internazionale

Né può essere ignorata la situazione internazionale del momento che permise ad Israele di essere protetta dalle due potenze uscite maggiormente vincitrici dalla guerra: USA e URSS., senza contare Francia e Gran Bretagna.

Douglas Little,[75] mette in luce come “Israele era visto dai media americani come una derelitta unità geopolitica avversata dai vicini orientali a causa del suo riconoscersi in valori occidentali”. E continua “quando l’Arabia Saudita e gli alleati arabi furono sul punto di sviare i piani statunitensi per il pronto riconoscimento di Israele nella primavera del 1948, il consigliere della casa Bianca Clark Clifford sollecitò una azione decisiva. <<Gli Stati Uniti appaiono nel ruolo ridicolo di chi trepida di fronte alle minacce di poche tribù nomadi del deserto. Come dovrebbero trattarci, se non con disprezzo, la Russia, la Jugoslavia o qualsiasi altra nazione alla luce della nostra titubante acquiescenza con gli arabi?>> scrisse a Truman al principio di marzo. Anche dall’altra parte della città, a Foggy Bottom,[76] dove gli esperti del dipartimento di stato apparivano simpatizzanti degli arabi assai più che degli ebrei, i funzionati di vertice consideravano i vicini di Israele irrazionali e irrealistici. <<non mi interessa un fico secco di come la pensano gli arabi>>, grugnì il primo luglio un caustico funzionario addetto alla Palestina, Robert McClintock, <<E’ tuttavia importante per l’interesse di questo paese che un popolo così fanatico e sovreccitato non arrechi danni ai nostri interassi strategici con rappresaglie contro gli investimenti petroliferi>>. Come McClintock, George Kennan, il maggior sovietologo del dipartimento di stato e neo direttore dello staff di pianificazione politica, metteva in dubbio l’opportunità del supporto USA a Israele. Ma egli non era amico degli arabi, da cui in tempo di guerra in Iraq aveva ricevuto la durevole impressione di un popolo propenso <<all’egoismo e alla stupidità, disposto ad ogni comportamento da bigotto e da fanatico>>. Pochi politici vedevano ragioni per metter in dubbio l’interpretazione orientalista di Clifford o di Kennan circa l’atteggiamento dei musulmani durante il secondo mandato di Truman.

Né, come riporta sempre Little, si può ignorare quanto detto da Truman nel 1946 <<debbo rispondere a centinaia di migliaia di persone che trepidano per il successo del sionismo>>, disse ad un contestatore del dipartimento di stato. <<Non ho tra i miei elettori centinaia di migliaia di arabi>>.

E i voti erano decisivi all’interno della battaglia elettorale che opponeva nel 1948 Truman a Thomas E. Dewey nel novembre di quell’anno; scrive sempre Little <<convinti che accontentare Ben Gurion fosse un buon affare, gli assistenti di Truman ritennero che solo un pronto riconoscimento del costituendo stato ebraico avrebbe ridato al Presidente il sostegno elettorale degli scontenti sionisti americani. Il 5 maggio, un influente democratico newyorkese disse <<francamente il presidente non potrebbe avere con sé lo stato di New York nelle attuali circostanze. Il voto degli ebrei contro di lui sarebbe schiacciante>>. In meno di due settimane le prospettive di Truman sarebbero migliorate clamorosamente. Il 12 maggio il presidente fece da arbitro ad un dibattito tra il segretario di stato Marshall e Clifford sulla Palestina <<uno stato separato ebraico è inevitabile>> argomentava Clifford e, dal momento che il Cremlino avrebbe probabilmente stabilito presto relazioni con il nuovo regime, <<è meglio riconoscere ora e battere sul tempo l’Unione Sovietica>>. Chiamiamolo “un chiaro espediente per ottenere pochi voti” Marshall ribatte che <<il parere offerto da Mr Clifford si basava su considerazioni di politica interna, mentre il problema con cui ci si confrontava era internazionale>>. Inoltre, <<se il Presidente dovesse seguire il consiglio di Mr Clifford e se io dovessi votare, voterei contro il Presidente>>, aggiunse adirato il segretario di Stato, di norma sempre moderato.

Dopo alterne vicende, descritte nel libro, alla fine l’amministrazione Truman sposò la causa sionista sopratutto perché, come scrive ancora Little “durante le ultime ore prima dello storico annuncio, il 14 maggio, Clifford disse a Lovett [77]che <<il Presidente era sotto pressione insopportabile perché riconoscesse prontamente lo Stato di Israele>> e che l’argomento era <<per il Presidente importantissimo da un punto di vista interno>>”.

Per quanto attiene ancora alla posizione statunitense ed in particolare della presidenza Truman, rimando a quanto scritto da Antonio Donno,[78] che confermano il supporto fornito ad Israele.

Se servissero ulteriori prove de supporto fornito al novello stato sionista nell’occasione, non solo diplomatico e politico, si veda quanto scrive Hart:[79] “the decision which most determined the outcome of the first Arab-Israel conflict was taken on 22 May. On that day Britain withdrew her veto on the security council’s order for a ceasefire. It was to include an embargo on ammunition and rams to both sides, with severe sanctions against any of the combatants who did not keep to the rules of the ceasefire once it was on place. The British had been fully aware that Ben Gurion wanted war in order to grab more Arab land by fighting than he could get from diplomacy; and when the war started Britain’s unstated but real position was that events should be allowed to take their own course for a while. London’s hope was that the Arab armies would be competent enough to prevent the Israelis taking territory that had been allotted to the proposed Arab state of the vitiated partition plan. Why on 22 May the eight day of the war, did Britain change its position and remove her veto on the security council’s call for a ceasefire and arms embargo? The short answer is that Washington told London that Britain could forgery assistance for economic recovery if it did not fall into line on the Middle East. In the years to come, British diplomats would recall with great bitterness the pressures exerted by America to prevent Britain supplying the Arabs with a single bullet while the Israelis were importing everything they needed to impose their will on the Arabs-not just the Palestinians, but the Arabs”.

Al contrario di questo atteggiamento negativo verso la costituzione di uno stato Palestinese e sopratutto nei confronti degli arabi, corrispondeva, come abbiamo appena visto un atteggiamento esternamente favorevole alla causa sionista, da parte della Presidenza degli Stati Uniti e di una parte dell amministrazione.

Solo allorquando Israele ruppe la seconda tregua il 15 ottobre 1948, lanciando la sua offensiva che intendeva non solo distruggere quello che rimaneva delle forze egiziane nel sud e chiarificare la situazione sul campo con quello siriano nel nord, ma continuare l’espulsione della popolazione araba dai territori occupati, l’amministrazione americana tergiversò nel suo supporto; il presidente Truman espresse il disappunto sulla situazione attraverso una nota “deep disappointment at the Israel refusal to make any of the desired concessions on refugees and boundaries” richiedendo “Israel withdraw to the boundaries of the partition plan” e richiedeva urgentemente a Israele “ to allow Palestinian refugees too return to their homes”; Truman specificò inoltre che l’atteggiamento di Israele era “in opposition to the general assembly Resolutions” e “dangerous to peace”, aggiungendo che se il nuovo stato avesse perseguito nella sua azione “The US will regretfully be forced to the conclusion that a revision of its attitude toward Israel has become unavoidable”.[80]

La risposta di Israele era compendiata nelle seguenti parole “The war has proved the indispensability to the survival of Israel of certain vital areas not comprised originally in the share of the Jewish state”. In quanto al problema di profughi essi erano “ members of an aggressor group defeated in a war of its own making”.

Ma certamente da parte del Governo statunitense, nonostante l’ufficiale dichiarazione di non consentire ai combattenti delle due parti di approvvigionassi militarmente, non fu fatto quanto dovuto e potuto.

La rete clandestina ebraica di approvvigionamento delle armi

a)      L’Italia

Non si spiega altrimenti come la rete clandestina di acquisto di armi messa in piedi dall’agenzia ebraica e diretta da Teddy Kollek e Yehuda Arazi, potesse attingere alle immense scorte di materiale militare statunitense.[81] L’amministrazione Truman ha decretato l’embargo sulle armi, ma le stesse riescono a partire dagli USA ed arrivare in Israele.

E non si tratta, fra l’altro, di materiale di poco conto: 12 bimotori Curtiss Commando (C46) e tre quadrimotori Constellation, aerei che partiranno da Burbank (USA) per dirigersi verso l’Italia all’aeroporto di Castiglione del Lago, dove un industriale italiano, Angelo Ambrosini, proprietario del campo, faciliterà il volo iniziale; anche se, per motivi di agibilità della pista, il luogo di raccolta diventerà l’aeroporto di Perugia.[82]

L’Italia è il luogo ove l’unico tentativo di contrabbandare armi, circa 6.000 fucili verso la Siria, viene vanificato dal fatto che i membri delle organizzazioni sioniste affondano con esplosivi ed attraverso una operazione di sommozzatori il battello Lino nel porto di Bari la notte del 9 aprile 1948.[83]

Le armi, in seguito recuperate ed in attesa di essere trasferite in Siria con il veliero Agire, verranno invece trasferite in Israele attraverso l’occupazione della nave a Mola di Bari di personale Israeliano travestito da finanzieri italiani, obbligando i marinai a navigare verso Israele. Quando ci potrebbero essere ripercussioni internazionali per la palese operazione di pirateria, le casse vengono trasferite in mare aperto sulle due corvette della marina israeliana J.Wedgewood e Haganà,[84] il veliero italiano si inabissa a causa di una falla. L’equipaggio italiano verrà, all’arrivo in Israele, internato e rilasciato solo il 29 marzo 1949, salvo per un membro che morì di tubercolosi in prigionia.[85] Le armi verranno distribuite alla brigata Etzioni.[86]

Un’Italia di fatto sotto il controllo statunitense nel 1948 e messa in scacco da un vero e proprio ricatto politico, secondo quanto racconta Ada Sereni, una delle organizzatrici, se non la responsabile della rete dell’Intelligence israeliana[87] in Italia, quella che verrà poi conosciuta come Mossad. E la lettura del libro della Sereni svela su quale complessa e capillare rete di complicità potesse contare la struttura ebraica in Italia, soprattutto ai livelli decisionali, vuoi per interessi politici che per interessi economici o ideologici, nata per favorire l’allora illegale immigrazione ebraica in Palestina e quindi utilizzata anche per l’approvvigionamento di armi.

Scrive al riguardo Eric Salerno[88] riprendendo quanto raccontato da Ada Sereni:[89]Un incontro a tre organizzato da Massimo Teglia, un noto aviatore ebreo di Genova che ha avuto un ruolo fondamentale negli eventi di quegli anni difficili. Presenti Ada Sereni, Yehuda Arazi e, di fronte a loro, Alcide de Gasperi. Il presidente del consiglio democristiano investe la donna con una raffica di domande sul Medio Oriente. Infine concluse: <<quello che voi chiedete è praticamente di farvi vincere la guerra in Palestina. Quale è l’interesse dell’Italia alla vostra vittoria?>> La mia risposta fu pronta: <<Primo: l’Italia non ha nessun interesse a essere circondata da paesi arabi troppo forti; noi siamo uno degli elementi equilibratori contro una futura arroganza araba nel Mediterraneo. Secondo: sono tre anni che ci aiutate a far defluire dall’Italia i profughi. Se noi perderemo la guerra in Palestina ci sarà un deflusso di masse di profughi; per ragioni geografiche la maggior parte arriverà in Italia; che interesse avete a riprenderveli?>> De Gasperi rimase un attimo in silenzio, poi disse: <<Allora cosa dobbiamo fare per voi?>> <<Chiudere un occhio e possibilmente due sulle nostre attività in Italia>>.

<<Va bene>>, disse De Gasperi alzandosi.[90]

La vera contropartita, al di là del paventato ricatto della Ada Sereni sui profughi? Come scrive ancora Eric Salerno, “e, a parte i rapporti ambigui, costruiti ad arte, per non precludere i potenzialmente ricchi mercati arabi e favorire una soluzione pacifica del conflitto mediorientale, l’Italia non sarebbe stata ostile nemmeno a Israele, che, come ricompensa per una certa amicizia, aveva offerto più volte di fare da intermediaria tra gli “amici americani dello stato ebraico” e l’Italia postfascista.

Né ritengo che vada sottovaluto il timore di De Gasperi di essere coinvolto in una situazione particolare, quale era quella dello scontro in Palestina e che aveva già avuto ripercussioni in Italia; la notte del 31 ottobre 1946 l’ambasciata britannica a Roma era stata distrutta in buona parte da una esplosione di 50 Kg circa di tritolo;[91] operazione concepita, organizzata e messa in atto dall’Irgun Zva Leumi.[92]

Alcuni autori dell’attentato furono arrestati, ma le indagini evidenziarono come a Roma, in via Sicilia, fosse stata impiantata una vera e propria scuola per atti di sabotaggio in quanto il territorio italiano era stato reputato il più adatto allo svolgimento dell’attività segreta[93]. Bombe carta erano state fatte esplodere nel 1947 in otto città italiane – Bari, Firenze, Milano, Napoli, Roma, Padova, Torino e Venezia – per richiamare l’attenzione degli Italiani sulla lotta condotta dalla comunità ebraica in Palestina contro gli inglesi.

Tutto questo, come racconta una nota del ministro dell’Interno italiano datata 23 gennaio 1943, nella quale si legge: “la situazione, in mancanza di opportuni provvedimenti per fronteggiarla, va evolvendosi rapidamente e tende a capovolgersi e da un problema di ordine pubblico ne consegue uno politico, anche perché gli interessati fanno apertamente comprendere di poter influire – a seconda del nostro atteggiamento – sull’opinione pubblica americana nei riguardi dell Italia, problema questo che sfugge alla valutazione degli organi di Polizia”, e pertanto “sta di fatto che, non affrontando tempestivamente il problema, esso può avere riflessi molto gravi in avvenire, in quanto ci verremmo a trovare in casa nostra una continuazione della Palestina, con tutti i guai che sono successi nell’Europa centrale”.[94] L’immanente situazione italiana, fortemente influenzata dalle elezioni alle porte e dal prevedibile scontro politico, deve avere indotto De Gasperi, decisamente una persona solida e pragmatica, a fare scelte tali da allontanare qualsiasi rischio di intromissione esterna in una situazione politica italiana ove già troppi erano i problemi interni per vedersi aggiungere anche quelli esterni. Né sarà sfuggita a qualche organismo di informazione italiano, fra i tanti che proliferavano all’epoca, il legame già esistente fra la parte più intransigente dei movimenti politici ebraici, quelli così detti revisionisti e facenti capo alle idee di Ze’ev Jabotinsky, ed il fascismo.

Riporta Salerno[95]: “Scrive Parlato,[96] in realtà due testimonianze convergenti, quella di Marina Romualdi, figlia di Pino, e quella di Carlo Dinale, all’epoca giovane militante del MSI e stretto collaboratore di Romualdi, fanno nuova luce sulla episodio. Se viene confermata l’ideazione e la realizzazione dell’attentato da parte dell’organizzazione ebraica (NdA, Irgun), l’esplosivo, secondo le due testimonianze, sarebbe stato fornito dai neofascisti dei FAR.[97] Romualdi, che successivamente ne avrebbe parlato in diverse occasioni, pubbliche e private, sarebbe stato contattato per la fornitura dell esplosivo da un personaggio che disse di chiamarsi Jabotinsky; il leader neofascista fornì agli ebrei l’occorrente per l’attentato recuperandolo per l’occasione dagli opportuni nascondigli dove era stato occultato prima del 25 aprile. A queste due testimonianze va aggiunta l’importante dichiarazione del senatore Alfredo Mantica, in passato stretto collaboratore di Romualdi, in sede di commissione stragi: ponendo una domanda a Francesco Cossiga, Mantica ricordava come i fascisti avessero utilizzato le armi nascoste al crepuscolo della RSI, fornendole poi ai servizi segreti israeliani” e, giustamente, aggiunge: “L’ideologo del revisionismo sionista Jabotinsky è morto nel 1940. Quelli dell’Irgun si erano serviti del suo nome per contattare Romualdi come se fosse una parola in codice.”

Se a molti appare strano e impossibile il legame fra fascismo e nazismo e comunità o gruppi ebraici, significa che la storia di tali regimi non è stata pienamente conosciuta. In Italia fu creata, per volere ovviamente di Mussolini, la prima scuola della marina ebraica proprio a seguito di accordi fra le idee di Jabotinsky e quelle di Mussolini; quest’ultimo, infatti, vedeva il Betar[98] e le idee revisioniste del movimento come un potente alleato ideologico in Medio Oriente anche in funzione anti-britannica. [99]

A Civitavecchia nel 1934 sorse l’accademia Navale del Betar, il movimento fondato da Jabotinsky,[100] le cui caratteristiche si ispiravano alla cultura ed ideologia fascista e che in Italia aveva passato una parte della propria vita considerando tale nazione la sua madrepatria spirituale avendo sviluppato una enorme ammirazione per Garibaldi e per la lotta italiana per l’indipendenza nazionale[101]; la scuola fu chiusa nel 1938, non prima tuttavia che la nave Quattro Venti, acquistata da un generoso donatore Belga, Mr Kirschner, e ribattezzata Sarah partisse per una crociera nel Mediterraneo raggiungendo poi Haifa, sempre con equipaggio totalmente ebraico di aderenti all’idea di Jabotinsky.[102]

A Milano nel 1932 si tenne la prima conferenza del sionismo revisionista italiano, visto come controparte della World Zionist Organization, e i cui obiettivi politici erano in linea con il governo fascista; sulle pagine del giornale revisionista “L’idea Sionistica”, pubblicato in Italia, apparvero articoli nei quali si tracciava una netta demarcazione fra l’antisemita nazismo, idea derivante da un mondo nord atlantico e che contemplava anche il razzismo contro i neri presente negli USA, e il fascismo, che, essendo di radici latine, non contemplava tali idee. I pezzi furono scritti a cavallo del 1936 mentre fra Hitler e Mussolini esistevano ancora divergenze riguardanti l’Austria. Ma non vi è da illudersi ritenendo che i revisionisti favorissero un progresso civile che vedeva tutti i pioli eguali, in quanto i revisionisti sionisti erano decisamente a favore di una attività coloniale italiana, in questo già indicando quale fosse la loro idea riguardo popolazioni non occidentali ed europee.[103]

Si è a lungo parlato anche di un accordo segreto fra Stern, il fondatore della banda Stern e l’Italia di Mussolini, con cui sarebbe stato approvato un documento, il così detto “accordo di Gerusalemme”, con cui il Mediterraneo sarebbe stato considerato come un mare italiano e un regime di tipo fascista sarebbe stato instaurato in Palestina con Haifa che sarebbe diventata una base della marina italiana, in cambio del riconoscimento della sovranità ebraica sulla Palestina mandataria dai due lati del Giordano, con l’eccezione di Gerusalemme e dell’aiuto dell’Italia per organizzare il trasferimento degli ebrei europei in Palestina; e si è anche reputato che tale accordo sia stato una provocazione dei servizi segreti inglesi. Di fatto, i contatti ci sono stati.[104]

Come si può quindi rilevare, i legami erano solidi fra i fascisti e la dirigenza ebraica, in particolare quella facente capo ai gruppi più oltranzisti quali l’Irgun, derivato proprio dal Betar.

Inoltre l’Italia fornisce al novello stato ebraico un deciso aiuto militare; alcuni uomini della X MAS, al comando di Fiorenzo Capriotti[105], con il consenso e la volontà dello stato italiano, partono per il Medio Oriente ed addestrano i primi nuclei di incursori israeliani che affondano la nave egiziana El Amir Farouk nel porto di Gaza.[106][107]

Né, al contrario di quanto scrive la Sereni nel suo libro citato, ritengo che l’esplosivo usato per l’affondamento del Lino, di cui si è in precedenza trattato, sia stato prodotto artigianalmente attraverso materiale comprato nelle farmacie di Roma da parte del responsabile del gruppo operativo subacqueo ebraico incaricato di compiere l’attentato, tale Iossel. Appare molto più verosimile che il materiale sia stato ricevuto da esperti nel settore delle demolizioni navali subacquee, e chi più degli operativi della X MAS aveva esperienza al riguardo? Ricordo i bauletti esplosivi applicati dal compianto  Luigi Ferraro ad Alessandretta sotto la chiglia delle navi da trasporto alleate innescate attraverso un semplice meccanismo ad elica che attivava l’esplosione solo ben lontano dai porti, al fine di fare ritenere l’esplosione opera di un attacco di sommergibili, il successivo invio di esperti in attività di guerra non convenzionale in Israele, come più su detto, e secondo quanto accennato dalla stessa Sereni nel suo libro citato riguardo al desiderio di poter disporre per l’operazione sul Lino anche di subacquei italiani, lascia comprendere che i fatti citati vanno ancora investigati e studiati.

Altra indicazione del fatto che la Sereni abbia volutamente scelto di non entrare in particolari, lo dimostra quanto scritto da Lapierre e Collins proprio in relazione all’affondamento del Lino, quando parlano della bomba usata per affondarlo come composta di TNT e “lardellata di detonatori”.[108]

Non solo, ma nella versione della Sereni non si fa affatto menzione della presenza all’operazione di Munya Mardor,[109] probabilmente per non fare risaltare il nome di una delle persone chiave del progetto militare nucleare israeliano negli anni dal 1955 in avanti e si parla della possibilità di affondare il Lino attraverso un bombardamento aereo a mezzo di un Piper, piccolo aeroplano a due posti che sarebbe dovuto decollare dall’aeroporto di Bari, a disposizione della organizzazione ebraica,[110] quando invece Lapierre & Collins parlano del tentativo, effettuato da parte di Freddy Fredkens di bombardare la nave, con due bombe da duecento libbre l’una, a bordo di un bombardiere Anson decollato dall’aeroporto francese di Toussous-le Noble, per Roma; impresa non riuscita, secondo gli autori, in quanto non venne trovata la nave. Una versione differente ci viene fornita da Janusz Piekalkiewicz che parla di un C46, tra quelli comprati negli Stati Uniti e giunti all’aeroporto di Perugia, di cui si è in precedenza parlato, che ha l’incarico di trovare nell’Adriatico una nave le cui caratteristiche corrispondano a quelle del Lino.[111]

Ulteriore versione viene data da Eric Salerno, che fa anche il nome del capo degli incursori israeliani, Yossele Dror.[112]

Probabilmente nulla di più preciso si potrà conoscere sull’argomento, in quanto, ovviamente, si tratta qui di preservare fonti, informazioni delicate e sensibili; ma certamente possiamo dire che esisteva una struttura con fortissimi addentellati e conoscenze ai vari livelli della struttura militare politica e in generale nella società italiana, tale da poter compiere qualsiasi attività anche alla luce del sole.

Ritengo che De Gasperi, già alle prese con problemi di politica interna, abbia in realtà cercato di evitare ulteriori elementi di tensione alla nazione stremata che doveva recarsi alle urne ed in cui erano già presenti forti elementi di tensione; si ricorderà l’attentato a Togliatti del luglio 1948, che portò il paese sulla orlo di un’altra guerra civile.

b)     Gli Stati Uniti

Nella realtà, sono gli Stati Uniti che manovrano gran parte delle attività e chiudono occhi ed orecchie.

I rapporti interpersonali fra Reuven Shiloah, Consigliere per gli Affari Speciali del Ministero degli Affari esteri della neonata Repubblica, e l’OSS[113](Office of Strategic Services) statunitense datano alla guerra mondiale da poco conclusa ed erano poi stati incrementati grazie alla conoscenza personale con il capo centro della sezione X2 dell’OSS in Italia, James Angleton; rapporti tenuti anche con Maurice Oldfield, responsabile britannico del SIME (Security Intelligence Middle East)[114] al Cairo, e, spesso, i rapporti fra i vari servizi sorpassavano le rivalità ufficiali fra governi; scrivono Black e Morris:[115] From 1948 onwards according to an authoritative brush source, the SIS station in Tel Aviv, its incumbent, usually one of the few women officers, ensured two way flow of intelligence during years when overt relations between the two governments varied from cool to frigid”.

La dottrina Truman del 1947, benché riferita espressamente alla Turchia ed alla Grecia, aveva un significato abbastanza chiaro: “da un lato essa costituiva la prima attuazione della strategia del containment nei confronti di ogni ulteriore espansione dell’influenza sovietica e, dall’altro, come immediato corollario, implicava una più rigorosa organizzazione politica ed economica nella sfera di influenza americana”.[116] Giova ricordare che nel 1948, per l’esattezza il 18 aprile, si tennero in Italia le elezioni politiche in cui il rischio principale da parte statunitense era una presa di potere delle sinistre in maniera democratica, per cui l’Italia fu in quel periodo un sorvegliato speciale e destinatario di numerosi aiuti economici sottoposti alla condizione che le sinistre non vincessero; dubito, pertanto, che l’Italia fosse in condizioni di fare scelte autonome, in particolare in politica estera, ma sopratutto potesse svolgere attività collegate alla politica estera al di fuori di un quadro voluto dall’alleato e garante statunitense.

Non solo, ma non poteva certo passare inosservato alle autorità statunitensi il continuo flusso di materiale verso Israele. Come accaduto il 3 giugno 1948, allorquando, su un molo del porto di Newark, sulla nave Executor, nello stivaggio di casse recanti l’indicazione di concime, una delle casse si schianta al suolo rivelando la presenza di esplosivi; i successivi accertamenti di polizia porteranno alla scoperta di 250 tonnellate di esplosivo; il tutto probabilmente grazie alla complicità dei due gangster ebrei Abner Zwillman, che controllava i depositi del porto, e Meir Lansky, che collaborava con l’Haganah e controllava i magazzini del porto di New York.[117]

Al riguardo degli aerei comprati negli Stati Uniti e trasportati in Italia, oltre quanto già riferito, sembra opportuno aggiungere che negli Stati Uniti viene comprata la Service Airways Inc che diventa di proprietà di Jehuda Arazi, un uomo del gruppo d’azione del Rehesh che deve acquistare armi ed aerei per l’Haganah. Suo compito è quello di trasferire gli aerei in Palestina per il nascente stato ebraico. A seguito di un controllo dell’FBI, che cercava armi, un’altra società viene costituita a Panama, e gli aerei cominciano partire dagli Stati Uniti verso l’Italia, come abbiamo visto.[118] Non è un caso che il primo aereo carico di armi che arriva in Israele fu un DC4 con insegne panamensi e gestito da piloti statunitensi che operava in Europa.[119]

Golda Meir, inviata da Ben Gurion, riusciva a rastrellare per l’acquisto di armi[120] dalla comunità ebraica statunitense ben cinquanta milioni di dollari, dopo che si era rivelata non sufficiente una precedente operazione di raccolta fondi operata dal gruppo Sonnenborn facente capo all’industriale Rudolph G. Sonnenborn e attraverso cui erano state acquistate due corvette, più tardi ribattezzate Haganah e Wedgwood, altre navi ed aerei. Quantificare la raccolta fondi degli ebrei statunitensi per le necessità della nuova costituenda nazione non è possibile, ma certamente la cifra dell’epoca si aggirava sui diversi milioni di dollari; nel libro “The Jews’ Secret Fleet: Untold Story of North American Volunteers Who Smashed the British Blockade”, di Murray S. Greenfield & Joseph Hochstein, si dà un quadro generale e particolare di alcune di queste somme, alcune delle quali rimaste segrete per quarant’anni, ma certamente il loro ammontare complessivo nel corso di alcuni anni supera le centinaia di milioni di dollari. Dati confermati dalle cifre riportate da Kathleen Christison, che scrive:”From revenues in 1941 of $ 14 million, the United  Jewish Appea [121]increased its monies raised in 1947 and 1948 to an annual total of $ 150 million, virtually all contributed by U.S. Jews”.[122]

Quanto sia influente la comunità ebraica lo si vede non solo dall’enorme cifra raccolta dalla Meir, ma anche dai vari tentativi, fruttuosi, posti in essere dalla stessa per spingere il presidente Truman a favorire la nascita dello stato ebraico, ma, sopratutto, a non considerare i palestinesi.

La famosa lettera scritta al New York Times il 4 dicembre 1948 da numerosi intellettuali ebrei fra cui Albert Einstein ed Hanna Arendt per protestare contro l’ideologia professata da Menachem Begin, allora in visita proprio negli Stati Uniti per cercare fondi e sostegno per le sue idee politiche, e che tratta anche del massacro di Deyr Yassin, evidenzia quanto sia stato importante il sostegno anche economico sino allora fornito dagli ebrei statunitensi agli interessi ebraici prima ed israeliani poi, proprio mentre maggiori erano le esigenze di carattere economico per acquistare quella superiorità in mezzi, armamenti e tecnologia che avrebbe decisamente fatto pendere la bilancia del conflitto a favore di Israele.[123]

La situazione economica viene infatti descritta anche da uno di maggiori storici marxisti ebrei, Nathan Weinstock: “Lo stato israeliano beneficia, sin dalla sua creazione, dell’aiuto americano: nessun ostacolo si frappone al trasferimento di fondi di privati americani a favore d’Israele (questi possono essere detratti dalle imposte a titolo di beneficenza) che servono a pagare le armi ceche acquistate dal nuovo stato”.[124]

Nel periodo in cui si cercano soldi per conseguire la superiorità negli armamenti, tutti i maggiori leader sionisti si recano negli Stati Uniti, bene accolti dall’opinione pubblica e da una accorta opera di propaganda orchestrata dalla comunità ebraica locale.

E gli arabi? All’interno degli Stati Uniti dell’epoca non avevano alcuna voce. L’unico legame era quello petrolifero, attraverso gli accordi fra la presidenza statunitense e la dinastia saudita. Nell’incontro avvenuto nel 1945 fra Franklin Delano Roosevelt, ormai irrimediabilmente malato, e il re d’Arabia Abdul Aziz Ibn Saud, il Presidente Statunitense prese per la prima volta coscienza di un problema palestinese, o meglio di un problema arabo legato alla massiccia e continua immigrazione ebraica. Per la maggioranza della popolazione statunitense il massacro dei campi di concentramento era del tutto sconosciuto, e ne vennero a conoscenza solo dopo il 1945, attraverso un articolo del National Geographic dal titolo “Palestine Today”, in cui ebrei relativamente occidentalizzati reclamavano da arabi orientalizzati il loro posto legittimo in Terrasanta.[125]In miniatura – quasi in scala da laboratorio – una visita in Palestina oggi è piuttosto come una visita all’America di ieri” scriveva il National Geographic,[126] paragonando l’immigrazione ebraica alla ricerca del sogno dei coloni britannici nel nuovo continente; dimentichi, nell’un caso come nell’altro, che vi era comunque una popolazione nativa.

Il numero di novembre 1948 di National Geographic, ad esempio, comprendeva Sailing with Sinbad’s Son, un resoconto di viaggio del Bayan, un’imbarcazione a vela quadrata, alato galeone d’Arabia, che ripercorreva la rotta del vecchio commercio di schiavi e spezie da Aden, all’imboccatura del mar rosso, a Zanzibar, al largo della costa orientale africana. La descrizione dell’equipaggio del Bayan conferma il classico mito orientalista del nativo primitivo, ma felice. <<Come scimmie in cima agli alberi, gli Arabi si arrampicano su un pennone da 130 piedi>> si legge in una didascalia <<la loro paga è irrisoria e il loro cibo scarso, eppure essi sono felici>>[127].

Le terre e popolazioni palestinesi, sconosciute ai più, vengono pertanto osservate solo con l’occhio giornalistico in una visione di quel fenomeno che Edward Said chiamerà “Orientalismo” mentre ad un mondo ignorante, incivile e selvaggio delle popolazioni locali, si oppone una visione di prosperità, civilizzazione e benessere portata dalla civiltà occidentale, in questo caso rappresentata dalle persone di religione ebraica; peccato che in questa visione venga esaminato essenzialmente il mondo ebraico Askenazita che ha le sue radici sopratutto nell’est europeo e, pertanto, usi e costumi riconosciuti come tali dal mondo occidentale, ed ignorato quello Sefardita, ben radicato e rappresentato proprio nel mondo Arabo, Africano e Medio Orientale.

Appare, pertanto, evidente che la conoscenza del problema generale della lotta in Medio Oriente veniva percepito solo con la vicinanza ad una popolazione di cultura occidentale, di cui comunque si conosceva qualcosa e che aveva in comune con una nazione a prevalenza cristiana un senso di affinità derivante dalla comune matrice religiosa: il mondo arabo era ridotto a stereotipi come ci insegna l’impietoso resoconto del viaggio di Mark Twain in Palestina nel 1869, in cui gli arabi vengo descritti come brutali, ignoranti, arretrati e superstiziosi[128]; si potrebbe dire la stessa visione che i popoli bianchi avevano dei nativi americani, come detto in precedenza.

Nel mondo politico statunitense gli arabi erano importanti solo come popolazioni abitanti aree imbevute di petrolio; risale al 1942 la creazione della Petroleum Administration for War, voluta da Roosevelt e presieduta dal segretario degli interni Ickes, allorquando ci si rese conto dello stretto legame fra petrolio e sicurezza nazionale. E la successiva decisione del presidente Truman di ignorare le leggi antitrust nel 1947 in favore di Jersey Standard e Mobil che unirono le forze con Socal eTexaco per diventare partner dell’ARAMCO, contribuendo alla formazione di un cartello del petrolio: ma le risorse energetiche venivano ai primi posti della sicurezza nazionale, come dimostrò la decisione di Truman del gennaio 1953 sposando le tesi dei dipartimenti di stato, difesa ed interno contro quello della giustizia in relazione alla legislazione antitrust violata dalla società petrolifere in quanto[129]erano prioritarie considerazioni di sicurezza nazionale”.

Il petrolio mediorientale serviva dal 1945 in avanti sia per sviluppare l’Europa legata agli Stati Uniti attraverso il piano Marshall, ma anche per non intaccare le riserve statunitensi.

Nell’aprile 1946 il Segretario alla marina, James Forrestal disse <<se dovessimo imbarcarci in un’altra guerra mondiale, potremmo non avere accesso alle riserve del M.O., ma fino a quel momento l’uso di tali riserve eviterebbe l’esaurimento delle nostre, un esaurimento che potrebbe diventare preoccupante nei prossimi 15 anni>>. Con il consumo postbellico salito del 20% rispetto ai livelli prebellici e con le riserve accertate dell’America incrementate solo del 7%, la sicurezza nazionale sembrò dipendere in modo crescente dalla espansione della produzione mediorientale. Anche se la produzione era ancora superiore alla domanda, John Lotus, del Dipartimento di Stato, ipotizzò che entro pochi anni gli USA sarebbero diventati una nazione importatrice di quantità significative di petrolio. Per minimizzare la loro vulnerabilità, essi dovevano sfruttare <<le ricche aree del M.O.>> e ridurre <<il salasso delle riserve dell’emisfero occidentale, caratteristico del modello di commercio mondiale di petrolio nel passato>>.[130]

E’ evidente come gli interessi statunitensi fossero circoscritti al solo mondo petrolifero in un’ottica di sfruttamento delle risorse altrui in un quadro in cui già si delineavano i futuri assetti della guerra fredda; ma ancora il colosso statunitense non ha soppiantato nell’area medio orientale il colonialismo britannico e le velleità francesi, cosa che avverrà in seguito, nel 1956 con la crisi di Suez ed il disperato tentativo anglo-francese di continuare ad esercitare un controllo sull’area attraverso un patto con l’ambizioso stato di Israele in cerca di espansione territoriale ai danni della nuova repubblica egiziana, che aveva nazionalizzato il canale.

Ritornando al discorso iniziale, si può quindi affermare che gli Arabi fossero… nessuno.

Non importanti per l’opinione pubblica che aveva di essi un’immagine distorta basata su una visione “ orientalistica”, e neppure per il Governo o la Presidenza, al di là di eventuali ripercussioni sul piano petrolifero.

c)      La Francia

Ed a proposito di embargo e di come la realtà sia ben diversa rispetto alla teoria, non va sottovalutato l’aiuto francese dato all’Irgun, che porterà ad una resa dei conti fra le organizzazioni sioniste, con il problema della nave Altalena. Partita da Port-de-Bouc in Francia e diretta verso Israele, dopo essere stata acquistata dall’Irgun negli Stati Uniti ed avere attraversato l’Atlantico, il mercantile recava a bordo 5.000 fucili britannici Lee Enfield, 3 milioni di cartucce, 250 mitragliatori Bren, 250 pistole mitragliatrici Sten, 150 mitragliatrici Spandau, 50 mortai da 81 mm, 5.000 granate, centinaia di tonnellate di esplosivo, concessi gratuitamente dal capo di stato maggiore delle forze armate francesi generale Revers, su indicazioni del proprio governo, al gruppo estremista sionista.[131] [132]

L’Irgun, dopo l’attentato avvenuto a Roma contro l’ambasciata britannica, decise di trasferire, per sicurezza, il suo centro europeo da Roma a Parigi e ad uno dei responsabili principali dell’organizzazione, Eliyahu Lankin, fu concesso il visto di entrata nonostante ricercato dalle autorità inglesi.[133]

Samuel Ariel, altro membro dell’Irgun, il cui compito consisteva sopratutto nell’organizzare il trasferimento degli ebrei in Palestina sfidando il blocco britannico, ebbe legami molto stretti con le autorità francesi che lo appoggiarono notevolmente e, grazie a tali contatti, il quartier generale dell’Irgun a Parigi poté agire indisturbato.[134]

I legami fra francesi e membri ebraici, in particolare delle organizzazioni più estremiste, non sono nuovi. Cominciano con dei contatti fra qualche esponente della così detta banda Stern e ufficiali della Francia Libera.[135]

I motivi non sono dipendenti da simpatia verso le idee sioniste, ma molto dallo scontro che sta opponendo in Medio Oriente la Francia alla Gran Bretagna, ove ognuna delle due cerca di recuperare le posizioni colonialiste e l’influenza nell’area avuta prima della guerra. Il 31maggio 1945, dopo il bombardamento del parlamento di Damasco e la sparatoria contro la popolazione civile da parte delle truppe francesi su ordine del generale francese Olivet-Roget, Churchill lancia un ultimatum al generale de Gaulle rivelando di aver dato l’ordine alle forze britanniche “di intervenire per impedire nuovi spargimenti di sangue; il governo francese è invitato a dare l’ordine di cessare il fuoco e riportare le truppe nei loro acquartieramenti” e il comando militare britannico sul posto assume, di conseguenza, lo stesso tipo di atteggiamento dichiarando “Se i militari francesi aprono di nuovo il fuoco, farò bombardare le loro caserme”.[136]

I Britannici hanno ancora conservato una posizione di predominio nell’area del Mashreq e cercano di conservarla; i francesi non più, anche se cercano di riottenerla, in ciò collidendo con gli interessi britannici. I rapporti fra le organizzazioni ebraiche e il governo di de Gaulle sono ottimi, tanto che il quartier generale europeo dell’Haganah e la stazione radio vengono sistemate a Parigi. Il responsabile del Lehi in Francia, Yashka Levstein, contatta il colonnello Alessandri, un ex appartenente alla Francia Libera e governatore militare di Bizerte; vengono stretti accordi, anche in questo caso ufficiosi; purché vengano creati problemi alla Gran Bretagna.

Vengono accettati Irgun, Stern e qualsiasi altra organizzazione; se non ufficialmente, di certo ufficiosamente.

All’Irgun venne, pertanto, lasciata mano libera purché non venissero compiuti attentati anti britannici sul suolo francese. Anche in Francia una donna, Claire Weyda, giocò un ruolo importante per l’organizzazione ebraica, al pari dia auto abbia fatto Ada Sereni in Italia.

Obiettivo? fare in modo di stringere rapporti privilegiati con la nascente nazione dall’altra parte del Mediterraneo, creando un asse che possa riportare in auge la politica colonialista francese nell’area, estromettendone quella inglese; se la Francia aveva perso la Siria e il Libano, avrebbe avuto Israele con cui attuare la sua politica.

Il progetto indicato da Samuel Ariel, ossia un interesse comune fra la Francia e il nuovo stato di Israele nel costituire un asse strategico sulle due sponde del Mediterraneo, subentrando pertanto alla Gran Bretagna in quella zona in cui gli interessi francesi erano sempre stati notevoli, trovò notevoli adepti all’interno della dirigenza decisionale francese, come racconta lo stesso Samuel[137].

La storia dell’Altalena, interessante riguardo ai rapporti di forza all’interno delle strutture militari e politiche sioniste prima ed israeliane poi, è poco pertinente seppure interessante nel contesto; ma qui serve a puntualizzare come in realtà il tanto sbandierato embargo funzionava solo a senso unico; contro i Paesi arabi.

d)     La Russia ed i paesi satelliti

Golda Meir, recatasi negli USA su incarico di Ben Gurion, nel 1948 riesce a raccogliere 50 milioni di dollari dalla comunità ebraica[138] .

Saranno soldi che, unitamente ad altri, serviranno per acquistare armi dall’altra superpotenza, l’URSS di Stalin.

Perché, ci si chiede oggi, Stalin ha aiutato così sfacciatamente Israele? Le risposte sono molteplici, ma vanno viste in quel clima post bellico in cui l’area medio orientale era ancora in via di formazione, e – sopratutto – in quanto l’Inghilterra ancora dominava la scena locale. Le attività sioniste contro la presenza inglese in Palestina avevano indotto a ritenere che da parte del nuovo stato vi sarebbe stata la possibilità di schierarsi su posizioni favorevoli all’URSS nel nascente conflitto ideologico.

Non erano estranee a tale visione le numerose visite fatte da esponenti ebraici in Russia, fra cui lo stesso Ben Gurion, i legami comuni, essendo numerosi ebrei in Palestina di provenienza od origine sovietica e la supposta idea socialista sbandierata dalla dirigenza sionista.

Vi furono contatti fra membri del LEHI e le varie organizzazioni comuniste, cercando di fare arrivare messaggi direttamente a Stalin, come nel caso di Yitzhak Markin che, amico del premier bulgaro Georgi Dimitrov, attraverso lui ebbe contatti con un emissario di Stalin, al fine di ottenere il supporto sovietico. La banda Stern presentò addirittura la sua candidatura al Cominform nel 1948, pur di ottenere l’aiuto sovietico.[139]

Nonostante i contrasti in relazione alla dimensione interna della realtà ebraica in Russia, tuttavia la dirigenza sionista cercò ripetutamente l’appoggio dell’Urss. Si segnala, al riguardo, la documentazione prodotta da Leonid Mlecin nel suo “Perché Stalin creò Israele”. La sintesi dell’argomento che qui interessa si trova a pag. 118-119. “il 5 febbraio 1948 Moshe Shertok si recò da Gromyko e lo pregò di intervenire, da una parte per bloccare la vendita di armi cecoslovacche agli arabi, e dall’altra per far recedere la Yugoslavia dal suo rifiuto di vendere armi agli ebrei. Stalin aveva già impartito l’ordine di armare gli ebrei palestinesi, perché potessero difendere il loro stato, che stava per essere costituito, perciò Gromyko senza lungaggini burocratiche, domandò a Shertok se gli ebrei fossero in grado di scaricare al loro arrivo le armi che sarebbero state vendute. Shertok telegrafò immediatamente a Ben Gurion, che diede subito risposta affermativa. I governanti cecoslovacchi avevano sempre simpatizzato per gli ebrei palestinesi e il primo presidente del paese, Tomas Masaryk, aveva caldamente sostenuto i sionisti … omissis … (pag. 120-121) delle forniture militari alla Palestina si occuparono a Praga due esponenti di spicco del PCC, entrambi emigrati a Mosca negli anni trenta: Bedrich Geminder e Bedrich Rejcin la Cecoslovacchia destinò uno dei suoi aeroporti all’invio in Israele di armi e munizioni; equipaggiamenti, artiglieria, mortai e aerei da caccia Messerschmitt, armi che erano già state date in dotazione all’esercito tedesco, il che rendeva praticamente impossibile risalire a chi le avesse vendute agli ebrei palestinesi … (pag 122) i piloti volontari giungevano clandestinamente all’aeroporto cecoslovacco di Ceske Budejovice, dove imparavano a conoscere le macchine che avrebbero pilotato e partivano poi alla volta di Israele. Nello stesso luogo venivano anche addestrati carristi e paracadutisti. Millecinquecento fanti israeliani si prepararono ad Olomouc, e altri duemila a Mikulov, costituendo la Brigata Gottwald, che giunse in Palestina passando per l’Italia. Il personale sanitario fu istruito a Velka Strebna, i radiotelegrafisti a Liberec, gli elettromeccanici a Pardubice, mentre insegnanti sovietici tenevano ai giovani israeliani lezioni sui argomenti politici… (pag. 123). <<Non sappiamo – ricordò Golda Meir – se avremmo potuto resistere senza le armi e le munizioni comprate in Cecoslovacchia e trasportate attraverso la Yugoslavia e i Balcani in quel terribile inizio della guerra, prima che la situazione mutasse nel giugno del 48. Durante le prime sei settimane potemmo contare sulle mitragliatrici e le munizioni che l’Haganah era riuscito a compare nell’Europa dell’est, mentre perfino l’America aveva messo l’embargo sull’invio di armi in Medio Oriente. Nonostante in seguito l’URSS ci abbia duramente avversato, il riconoscimento di Israele da parte sovietica fu allora importantissimo per noi. Per la prima volta dopo la seconda guerra mondiale, le due maggiori potenze sostennero lo stato ebraico di comune accordo e noi sapemmo di non essere soli, nonostante fossimo in pericolo mortale. Da questa consapevolezza e dallo stato di terribile necessità, attingemmo quella forza, se non materiale, almeno morale che ci condusse alla vittoria>>.

Per motivi diversi e in un quadro geopolitico caratterizzato già dall’insorgere della guerra fredda, le due superpotenze si erano schierate in favore di uno stato ebraico senza alcuna considerazione per la realtà palestinese e sopratutto caratterizzato dalla rispettiva diffidenza verso tutto quello che era arabo, anche per gli ancora prevalenti interessi britannici nell’area. Occorre anche tener presente quanto fosse importante il canale di Suez per la politica e l’economia anglo-francese; i due stati saranno disposti nel 1956 a rischiare una guerra internazionale sfruttando proprio l’alleanza con Israele per recuperare tale “assett” dalle mani di Nasser che lo aveva nazionalizzato. Inoltre, da parte inglese non vi era alcun interesse alla nascita di uno stato palestinese, privo di controllo e che recava il peccato originale di avere come maggior leader quel Muftì di Gerusalemme – Haj Mohammed Effendi Amin el-Husseini – sostenitore della Germania Nazista durante la seconda guerra mondiale.

Che lo stesso abbia sopratutto supportato gli interessi tedeschi in funzione antibritannica, in vista della creazione di un futuro stato palestinese, non lo rendeva certamente affidabile per la potenza mandataria uscente che gradiva continuare a esercitare un controllo sull’area in via indiretta. Gli interessi Britannici all’epoca erano caratterizzati non dalla nascita di una nuova realtà politica, quale quella palestinese, ma sopratutto dal portare avanti una politica che vedeva la nascita di uno stato ebraico, l’ampliamento della realtà Transgiordana e la difesa dell Egitto.

Parlare a questo punto di una battaglia di Davide contro Golia è improprio. Dal punto di vista militare si è visto come, trascorse le prime settimane di guerra, durante le quali la situazione si era potuta considerare almeno di equilibrio, al termine della prima tregua la bilancia pendesse definitivamente in favore delle forze del nuovo stato di Israele sia militarmente ma sopratutto politicamente. Avere dalla propria parte le due maggiori potenze esistenti, l ‘URSS di Stalin e gli USA di Truman, cui si aggiungeva il supporto britannico, e certamente quello francese, non esprimeva un bilanciamento, ma, anzi, un forte sbilanciamento a favore di uno solo dei due contendenti.

Il quadro generale

Quelle che si sono scontrate sul campo non erano affatto due forze eguali.

Politicamente, la realtà ebraica poteva contare su una condiscendenza dei paesi vincitori della guerra appena terminata, sia per identità culturale europea, e quindi occidentale, sia per l’orrore della scoperta dei campi di sterminio e la simpatia che accompagnava la popolazione ebraica. Una serie di agganci con organizzazioni europee ed occidentali di tutti i tipi, dall’estrema destra all’estrema sinistra, causa la poliedricità delle formazioni politiche ebraiche, consentiva, inoltre, un contatto che, come si è visto, spaziava dai reduci della X^ MAS e dei fascisti italiani, al rapporto diretto con le stanze del Cremlino; senza poi dimenticare il ruolo giocato sui vari tavoli, britannici, francesi e statunitensi, promettendo e garantendo sviluppi ed obiettivi comuni laddove fosse stato costituito uno stato ebraico forte ed efficiente.

Dall’altra parte, vi erano i paesi arabi ancora sotto tutela britannica e che avevano come obiettivo principale anzitutto la liberazione dalla invadente e condizionante presenza inglese, laddove anche i rapporti di forze interne erano suddivisi fra l’interesse al legame con la corona britannica e l’indipendenza. Egitto e Transgiordania sono gli elementi chiave di questa struttura che cadrà, parzialmente, solo molto più tardi; per difendere questa impostazione gli inglesi si scontreranno con gli israeliani allorquando questi ultimi tenteranno di mettere a rischio la struttura egiziana che controllava il canale di Suez, vitale per la Gran Bretagna, arrivando a scontri aerei con la novella forza aerea israeliana.[140]

Gli interessi arabi erano visti in una prospettiva del tutto interna ai rapporti fra le nazioni o dinastie dell’area. La percezione delle società occidentali di popolazioni autoctone, di paesi abitati da indigeni, era pressoché sconosciuta; quei territori erano stati parte della seconda guerra mondiale, e delle campagne nel deserto di forze militari occidentali e non. Sebbene tutti conoscessero el Alamein o Tobruk, pochi conoscevano le popolazioni che abitavano quelle aree. E la percezione della Palestina e del popolo palestinese era ancora più sfumata per non dire inesistente nella coscienza collettiva o politica.

Pur conoscendo gran parte della storia e del pensiero politico sionista ed ebraico, quasi nulla, ancora oggi, sappiamo del movimento nazionale palestinese che potremmo far risalire a Yusuf Diya al-Khalidi, eletto a cavallo del 1870-80, ricoperto l’incarico di deputato eletto nelle province siriane presso il parlamento Ottomano, già sindaco di Gerusalemme e fiero oppositore dello stesso sultano. La portata storica di tale personaggio all’interno del contesto palestinese è importantissima, avendo egli avuto già nel 1899 uno scambio di opinioni a mezzo lettera con Herzl sul problema dell’immigrazione ebraica in Palestina e sulla politica del sionismo. Si può obiettare, come fanno alcuni critici israeliani, che voler dare alle parole di Diya un’interpretazione di “nazione palestinese” è una forzatura, in quanto all’epoca lo stesso parlava come rappresentante di un’unità amministrativa chiamata Balad al-Sham (Siria), e su questo non si possono fare opposizioni.[141] Ma quello che qui importa è che politicamente il peso della realtà araba in generale era praticamente nullo; la stessa decisione delle UN relativa alla partizione delle terre fra un nascente stato ebraico ed una realtà palestinese, da cui sono derivati i vari conflitti del 1948, sono essenzialmente scaturiti dalla non conoscenza di una realtà. Si è visto, analizzando le cause dell’embargo a senso unico, come le presenze ebraiche nella vita quotidiana, politica e sociale delle nazioni vincitrici del secondo conflitto mondiale ed in generale di quelle europee abbiano creato un movimento di opinione, di simpatia, di conoscenza del problema, di pressioni politiche. Dall’altra parte, il nulla. L’unica pressione che avrebbe potuto essere esercitata era quella prospettata dal principe saudita Feisal, ministro per gli affari esteri saudita, che proponeva, già all’epoca, l’uso del petrolio come arma strategica; ma fu bloccato nella sua proposta dal re, il padre ʿAbd al-ʿAzīz Āl Saʿūd, che, non volendo mancare alla parola data a Roosevelt e impegnato ad ottenere quanti più soldi possibili per consentire alla propria dinastia di regnare e prosperare, non vide l’importanza strategica dell’arma di cui disponeva. Scrive Hart, riferendosi a Feisal: ” In the privacy of his own mind his logic went something like this. The zionists have awesome influence in America, because of Jewish money for election campaign funds and the organized Jewish vote. The Zionist are playing their card ruthlessly. We should play our only card – our oil – with equal ruthlessness. Feisal had discussed use of the oil weapon with his father; but Ibn Saud refused to consider such a strategy. <<The problem is Palestine not petroleum>> he said. Apart from the fact that he had given his word to President Roosevelt, Ibn Said was not prepared to risk an interruption to the escalating flow of money from oil that was enabling him to develop his country and create a ruling dynasty that none would ever be able to challenge. The founding father of Saudi Arabia had many strength and virtues; but he did not possess Feisal’s understanding of how cards had to be played in a world in which politics was concerned only with interests, and short term interest in that”[142]

L’unica arma strategica di cui avrebbe potuto disporre l’intero mondo arabo era nelle mani di una dinastia impegnata sopratutto a contrastare quella Hashemita e non se ne fece nulla.

E già qui si può parlare di una Davide e Golia, ma al contrario.

Il piano Militare

Se questa era l’impostazione dal punto di vista politico e culturale, sul piano militare le cose non potevano essere diverse.

Si è già visto come, da un punto di vista numerico, le cose stessero ben diversamente da quanto la propaganda e la creazione di miti ci ha fatto credere. Numericamente le forze ebraiche prima ed israeliane poi sono sempre state come minimo alla pari con quelle degli eserciti arabi nella fase iniziale del conflitto per sopravanzarle in seguito; occorreva solo del tempo affinché le macchine della leva obbligatoria si mettessero in moto e andassero a pieno regime. Cosa che fu fatta guadagnando tempo, attraverso la cessione di territorio non possibile da controllare, il sacrificio di posizioni non sostenibili che avrebbero creato problemi sia per la difesa che per l’approvvigionamento, e le tregue che permettessero ai supporti logistici di fornire mezzi materiali e strumenti per poter poi travolgere le deboli forze arabe, prive di qualsiasi piano organizzato, come conferma lo stesso Glubb Pasha, allorquando scrive a proposito di un piano militare arabo congiunto: “ There had been no Joint planning of any kind. The Israelis subsequently claimed knowledge of an Arab master plan, combining the strategy of all the Arab armies. No such plan existed, nor had any attempt been made to prepare one”[143]

A parte i piani o meno, la palese e chiara divergenza di obiettivi politici, da sola giustificava la debolezza araba; come scrive Shlaim, quando la Legione araba avrebbe potuto dare una mano alle forze egiziane attaccate dagli israeliani, le disposizioni del suo comandante in capo, Glubb Pasha, furono quelle di non intervenire essendo considerate al pari dei responsabili palestinesi, ostili al pari degli ebrei.[144]

Sul piano della preparazione militare si è già trattato e si è già visto quale e quanta fosse la differenza di preparazione fra il personale militare ebraico e quello arabo, eccezion fatta per la Legione Araba giordana.

Si potrebbe allora argomentare del perché i paesi arabi, ben sapendo di essere inferiori nella lotta contro il gigante Israele, si siano decisi a usare la forza militare. Numerose sono le spiegazioni di questa che potrebbe sembrare a prima vista follia, ma ritengo che la spiegazione migliore ce la possa dare ancora una volta Glubb Pasha, che ricorda come la palese ingiustizia compiuta dalle Nazioni Unite nel suddividere un territorio non tenendo in alcun conto le realtà immanenti, la presenza araba rispetto a quella ebraica e la recentissima introduzione nel giro di due anni in Palestina di un notevolissimo numero di profughi che aveva alterato i rapporti di presenza preesistenti, e non di poco, aveva minato qualsiasi fiducia in quello strumento che erano le Nazioni Unite; e, considerato che gli Arabi si ritenevano nel giusto, non rimaneva loro che il ricorso alle armi. Che poi nelle varie dirigenze arabe, di fatto tutte ancora dipendenti da una struttura coloniale, ma – sopratutto – legata agli interessi coloniali, ben pochi fossero in condizioni di vedere la realtà dei fatti, questa è un’altra storia. E anche qui vanno analizzate le responsabilità internazionali, considerato che, come accadrà più tardi nelle varie lotte di liberazione che interesseranno il Medio Oriente, le più interessanti dirigenze saranno decapitate dalla difesa degli interessi coloniali, come era per l’appunto successo in Palestina nel corso della grande rivolta araba del 1936.

Considerazioni finali

E indubbio che la nuova ondata di storici israeliani che ha avuto la capacità di leggere e interpretare numerosi documenti resi pubblici, senza lasciarsi influenzare dai condizionamenti ideologici e religiosi e, sopratutto, da un ambiente sociale poco incline a mettere in discussione tali miti che ne costituiscono il fondamento spirituale, è stata distruttiva di dette impalcature e di una parte essenziale della storia fondante del sionismo. Essi sono stati, altresì, estremamente utili per meglio comprendere la realtà in una parte del mondo nella quale ideologie, interessi geopolitici e ignoranza culturale, hanno giocato un ruolo determinante, fuorviando o determinando preconcetti, idee e capacità critiche.

Gli stessi autori delle ricerche, gli storici che hanno dato questo notevolissimo contributo nel riscrivere la storia di una parte importante del mondo, hanno subito le conseguenze sulla loro pelle. Shlaim e Pappè, accusati a più riprese di essere poco nazionalisti e di essere dei traditori, hanno dovuto lasciare le loro cattedre, in assenza di difesa da parte del loro stesso mondo universitario (come se la scienza e la ricerca potessero essere al servizio di una ideologia, cosa che purtroppo è avvenuta spesso ed anche nel recente passato e nell’attuale presente). Altri, come  Teddy Katz, sono stati persino tirati in giudizio presso tribunali e/o abbandonati dalle strutture universitarie. Il resoconto del dramma umano e sociale passato sia da Katz che da Pappè è riscontrabile nel libro “Controcorrente” scritto proprio dallo stesso che, abbandonata l’Università di Haifa, si è dovuto di fatto rifugiare in Gran Bretagna, insegnando presso l’università di Exeter, così come Avi Shlaim insegna presso il St. Antony’s College di Oxford. L’unico rimasto in Israele è Benny Morris che ha ritrattato gran parte delle tesi sostenute, affermando che era inevitabile che la creazione di uno stato ebraico dovesse portare allo sradicamento di oltre 700.000 palestinesi.

Né si possono dimenticare alcune lezioni della guerra fra Israele ed i paesi arabi. Le cui conseguenze sono ancora oggi visibili e si protrarranno per lunghissimo tempo.

La dichiarata e manifesta vicinanza ad Israele del mondo occidentale, nella guerra del 1948 – e mi riferisco solo alla seconda parte del conflitto, ma analogo discorso ed anzi più incisivo ancora per la prima parte – ha di fatto evidenziato agli occhi dell’intera opinione pubblica dei paesi arabi il ruolo attribuito alla nuova nazione dalle potenze mondiali; essere il cane da guardia degli interessi occidentali nell’area. Questa visione è inoltre compartecipata da numerosi esponenti dalla sinistra ebraica che vedono nella fondazione ed espansione dello stato di Israele la longa manus del colonialismo ed imperialismo occidentale contro i popoli che cercano di scrollarsi di dosso tale fardello. Possiamo bollarle come illazioni, ma va sempre visto come, rispetto a fatti accaduti, la percezione sia diversa dalle due parti coinvolte. Giova ricordare come la prima crociata venne vista dagli occhi dei cristiani provenienti dall’occidente e dagli occhi dei locali di qualsiasi religione essi fossero, come ci riporta Amin Maalouf nel suo Le Crociate viste dagli Arabi. Indubbiamente, e lo abbiamo visto, nel 1948 si è giocata una partita impari, in cui vi erano numerosi interessi di attori esterni a favore della nascita e sviluppo dello stato israeliano in una nuova cornice mediorientale, dove la guerra appena finita aveva dimostrato, fra l’altro, l’importanza strategica dell’area dal punto di vista energetico. Nessuna potenza vincitrice gradiva una realtà di difficile controllo e Israele metteva tutti d’accordo in quanto, mentre compensava le coscienze europee ed occidentali per avere ignorato volutamente i massacri che in nome di una folle ideologia si compivano contro gli ebrei e contro coloro che comunque erano considerati “untermenschen”, d’altra parte stabiliva in un territorio popolato dagli arabi, una realtà di tipo e stampo occidentale, evitando così una ristrutturazione del Medio Oriente che andasse al di là di quanto previsto; e se necessaria, una verifica di quanto qui affermato si ha nel momento stesso in cui, proprio alla fine della guerra del 1948, Gran Bretagna e USA costringono (e non sarà la prima volta) Israele a ritirarsi da una parte dei territori che aveva militarmente occupato, giudicandola capace di alterare il ruolo a lei destinato.

La distruzione dei miti è essenziale nella ricerca e nella crescita personale e culturale, in particolare allorché tali miti bloccano qualsiasi crescita, sia individualmente che collettivamente; e, spesso, ergersi contro di essi, cercare delle spiegazioni, ancorché contrarie alla credenza comune, indicare nuove strade, può indurre a combattere una battaglia culturale che costerà in termini di sacrificio personale, in quanto si verrà osteggiati da una parte della società che rifiuta di prendere coscienza e di comprendere, ottenebrata e in adorazione del totem; sino a quando, come nella favola di Andersen, ci si accorgerà che il re è nudo. Il dramma è che spesso se ne prende coscienza solo dopo che tante vite sono state inutilmente sacrificate.

A. G. Monno


[1]Israele. Dal 1948 ad oggi ” (pagg.67 e segg.).

[2]Allon, Ygal, “Israele’s war of indipendence” in Revue Internationale d’Histoire militaire” 1979, n°42.

[3] Geopolitica del conflitto arabo israeliano palestinese” edizione 2009, pag 25.

[4]Sir John Bagot Glubb, A Soldier with the Arabs, pag. 93.

[5] Sir John Bagot Glubb, A Soldier with the Arabs, pag. 94.

[6] John Bagot Glubb, A Soldier with the Arabs, pag. 95.

[7] Ibidem, pag 95.

[8] Simha Flapan, “The birth of Israel-Myths and realities” pag.9

[9] Ugo Dadone, Fiamme ad Oriente” edito dal Centro  Editoriale Nazionale, via della Trinità dei Pellegrini, Roma, pag. 423; anni, ritengo, a cavallo del 1958.

[11] Quella che permise all’esercito israeliano di riorganizzarsi ed ottenere gli armamenti  di cui necessitava e di cui si parlerà nel prosieguo.

[12] Lohamei Herut Israel – Organizzazione estremista ebraica (oggi diremmo terroristica) allora diretta da Yitzak Yezernitsky, poi Yitzak Shamir, futuro Primo Ministro di Israele).

[13] Le notizie sull’argomento, al fine di non essere accusato di partigianeria, sono state tratte dal sito https://www.jewishvirtuallibrary.org/jsource/History/folke.html.

[14] Charles Enderlin “ Attraverso il ferro ed il fuoco, pag.141.

[15] I link ed il libro sottostante si riferiscono sia alla figura di Jeoshua Cohen, sia all’organizzazione e attuazione dell’attentato in cui rimase ucciso il conte Bernadotte ad opera del Lehi:

http://www.nytimes.com/1986/08/12/obituaries/yehoshua-cohen-dies-linked-to-48-killing.html, valido al 9 settembre 2014;

http://www.jewishmag.co.il/64mag/lechi/lechi.htm; valido all’8 settembre 2014;

– New York Times in un articolo del 12 settembre 1988 http://www.nytimes.com/1988/09/12/world/2-recount-48-killing-in-israel.html; valido all’8  settembre 2014;

– quotidiano israeliano Haaretz in un articolo del 29 settembre 2006 http://www.haaretz.com/a-murder-waiting-to-happen-1.198184   valido all’8 settembre 2014

vedi al riguardo anche: A Death in Jerusalem: The Assassination by Jewish Extremists of the First Arab/Israeli  di Kati Marton

[16] In “Vittime”, pag 274.

[17] Trattasi di un mitra del secondo conflitto mondiale originariamente di fabbricazione britannica in calibro 9 m/m che, grazie ai pochi e non costosi componenti, realizzati prevalentemente in stampaggio, poteva essere prodotto in grandi quantità e con spesa limitata.

[18] Haganah, formazione di autodifesa ebraica nata in Palestina nel 1920 da cui sono originate le attuali forze  armate israeliane.

[19] Ritengo siano cannoni antiaerei usati in funzione anticarro come usato dai tedeschi durante la 2a GM, laddove il cannone antiaereo da 88 si rivelò un micidiale cannone anticarro.

[20] Trattasi di lanciarazzi anticarro portatili, idonei ad essere usati individualmente o a coppia.

[21] Trattasi di un aereo da caccia di produzione cecoslovacca costruito sulla base del più famoso aereo tedesco Messerschmitt bf109.

[23] Gentili, termine usato dagli appartenenti alla religione ebraica per indicare gli appartenenti ad altra religione.

[24] La spada e L’ ulivo – Storia dell esercito israeliano (Capitolo 6 pagg. 127 e segg.)

[25] Pagina 113 stesso libro laddove scrive al riguardo

[26] La foto, tratta dal sitohttp://www.whq-forum.de/invisionboard/lofiversion/index.php?t27916-1850.html, mostra il re Abdullah cha passa in rassegna la Legione Araba.

[27] La pulizia etnica della Palestina, Capitolo 6 -La finta guerra e la vera guerra in Palestina, maggio 1948; pagg. 161 e segg.

[28] Accordi presi con la negoziatrice israeliana Golda Mabovic, il cui cognome sarà poi trasformato in Meir e che diventerà primo ministro di Israele.

[29] John Bagot Glubb, A soldier with the Arabs, p. 82.

[30] Yehuda Sluzky, Summary of the Haganah Book, pagg. 486-487.

[31] Organo politico-militare di vertice ristretto dei politici israeliani che prendeva le reali decisioni.

[32] Ordini operativi alle brigate secondo il piano Dalet, archivi dell’IDF, 22/79/1303.

[33] Stesso capitolo 4 (Israel and the Arab coalition in 1948) del testo citato The War for Palestine -rewriting the History of 1948-– pagg. 83 e seguenti.

[34] Zionism, the Real Enemy of the Jews, vol. II pagg 37 e segg. – Alan Hart è stato a lungo il giornalista della BBC preferito dalla signora Meir e dalla stessa considerato il suo biografo non ufficiale.

[36] Vol II, nei capitoli God Save Jerusalem e The annihilation myth.

[37] Golda Meir, My life, pagina 176.

[38] John Bagot Glubb “A Soldier with the Arabs” pagg..98-101.

[39] Palestine and the Arab Israeli Conflict ,sixt edition, pag. 204.

[40] L’idea del piano generale pianificato da parte delle forze arabe non trova assoluta conferma da parte del comandante della Legione Araba Giordana, John Bagot Glubb, detto Glubb Pasha, che , espressamente, riferisce come tale piano non sia mai esistito. Vedasi seguito.

[41] Pag. 46, testo citato.

[42] Testo citato pag.79.

[43] E’ probabile che il termine Sansons usato nel teso, corrisponda in realtà al britannici Avrò 652A Anson, non essendoci alcun aeroplano di nome Sansons fra quelli usati nella seconda guerra mondiale. Tale supposizione deriva anche da quanto raccontato nel libro Gerusalemme Gerusalemme di Lapierre e Collins, nel quale, a pag 270, nella versione italiana del 1972, si parla del bombardiere Ansom comprato assieme ad altri quattro da Freddy Fredkens per la nascente aviazione ebraica e che sarebbe servito per bombardare la nave LINO, di cui si parlerà più avanti nella parte che riguarda l’Italia ed il trasporto clandestino di armi.

[44] Dal libro di Golda Meir citato, pag.181.

[45] The Iron Wall – Israel and the Arab World, pag. 34 nel capitolo “The war of indipendence”.

[46] Simha Flapan “The birth of Israel. Myths and realities” page 187-199 e Benny Morris “1948 and After, page 13-16.

[47]Palestina, la storia incompiuta” pag. 66.

[48] La foto di Ben Gurion è tratta dal sito http://www.israel-travel-and-tours.com/david-ben-gurion.html.

[50] Charles Enderlin “ Attraverso il ferro ed il fuoco”, pagg. 54-55 e 74; vedasi al riguardo anche Martin van Creveld, La spada e l’Ulivo. Storia dell’esercito  israeliano, pagg 83 e segg.

[51] La foto dello stemma della brigata ebraica è tratta dal sito http://www.bibliotecasiena.it/eventi_news/dettaglio/243-mostra-fotografica-la-brigata-ebraica.

[52] Le tombe dei caduti della brigata sono presenti nei cimiteri militari inglesi lungo la penisola italiana; ricordo in particolare quello di Camerlona (RA).

[53] Fiume in Romagna su cui si appoggiava la linea difensiva tedesca in Italia nel 1945; teatro di una battaglia che vide lo sfondamento delle forze alleate.

[55] Claudio Vercelli, Israele-Storia dello stato (1881-2007), pag. 114 e segg.

[56] Martin van Creveld, La spada e l’Ulivo. Storia dell esercito israeliano. pag. 74.

[57] John Bagot Glubb, “The story of the Arab Legion”, pay 277 e segg.

[58] Trattasi di Faruq ibn Fu’ad, ultimo regnante egiziano prima della rivoluzione degli ufficiali liberi del 1952, in seguito alla quale fu poi esiliato in Italia.

[59] Anouar Abdel-Malek, Esercito e società in Egitto 1952-1967. pag18-19.

[60] A riprova di ciò vi è l’uccisione li 24 febbraio 1945 del primo ministro Ahmed Maher, che aveva progettato una dichiarazione di guerra alle potenze dell Asse (cosa che verrà poi fatta il 26 febbraio).

[61] Vedi il colloquio con Zakaria Mohiedin, laddove si fa risalire l’organizzazione degli ufficiali liberi che organizzarono il colpo di stato del 23 luglio 1952 in Egitto proprio alla pessima organizzazione del sistema politico egiziano che portò alla sconfitta del 1948. Bregman ed El- Tahri, libro citato, pag.39.

[62]Ahron Bregman and Jihan El-Tahri. The fifty years war. Israel and the Arabs., pay 38.

[63] Ibidem, pagg. 38-39.

[64] Don Peretz “ The Middle East Today, pag. 369.

[65] Don Peretz, The Middle East Today, pag. 371.

[66] Il secondo risveglio arabo, pagg. 142 e seguenti.

[67] RAF: Royal Air Force, la forza aerea militare britannica.

[68] Jon Kimche “il secondo risveglio arabo” pagg.148-150.

[69] Ahron Bregman and Jihan El-Tahri. The fifty years war. Israel and the Arabs.pag 37.

[70] Abdul Rahman Hassan Azzam, segretario generale della Lega Araba dal 1945 al 1952. E’ a lui attribuita una frase relativa alla guerra di sterminio che sarebbe stata combattuta per costringere gli Ebrei a lasciare le terre occupate con l’ideale sionista. Ma, secondo le indagini degli storici più recenti, fra cui l’israeliano Tom Negev, tali frasi sarebbero state estrapolate dai numerosi contesti in cui furono pronunziate e non inquadrate in un ambiente di retorica nazionalista molto in voga all epoca, laddove Azzam Pasha si era spesso pronunziato a favore di una coabitazione fra Arabi ed Ebrei. Sempre secondo le interpretazioni di tali storici, la frase, estrapolata dal contesto e virgolettata in maniera particolare, sarebbe stata usata dalla propaganda israeliana, o meglio ebraica, quale strumento di guerra, che ora definiremmo psicologica.

[71] Alan Hart – Zionism- The real Enemy of the Jews. vol. II pag. 34.

[72] A. Shlaim-E.L.Rogan, La guerra per la Palestina. Riscrivere la storia del 1948 ,pagg 118-119.

[73] Si veda, al riguardo, Shlaim -Rogan, libro citato , pag.119.

[74] Si veda Yacoov Shimoni in Shlaim- Rogan, libro citato, pag. 121.

[75]Orientalismo americano-Stati Uniti e Medio Oriente dal 1945”, Pagg da 49 a 51; e quindi da 147 a 156.

[76] Nome con cui si indicava la sede del Dipartimento di Stato statunitense, situata per l’appunto in tale quartiere.

[77] Robert. A. Lovett,sottosegretario di stato.

[78] In collaborazione con Daniele De Luca e Paola Olimpo nel libro  Ombre di guerra fredda. – Gli Stati Uniti nel Medio Oriente durante gli anni di Eisenhower (1953-1961), pagg .da 59 a 94.

[79] Libro citato, Vol. II a pag 65.

[80] Hart, libro citato, Vol. II pag 92.

[81] Charles Enderlin “Attraverso il ferro ed il fuoco – La lotta clandestina per l’indipendenza di Israele (1936-1948), pag.216.

[82] Janus Piekalkiewicz, Il lungo braccio di Israele”, pag. 217 e segg.

[83] Piekalkiewicz, libro citato, pag.211. Si veda, al riguardo, per una cronaca dettagliata anche di come fu ottenuta la notizia, Ian Black e Benny Morris, Israel’s Secret Wars, pagg. 66 e segg.

[84] Sull’acquisto delle stesse negli Stati Uniti ad opera delle Organizzazioni filantropiche statunitensi impegnate nella raccolta fondi a favore di Israele, vedasi la parte riguardante gli Stati Uniti.

[85] Piekalkiewicz, libro citato pagg.215-216 . Black e Morris, libro citato, pag.68.

[86] La foto del Lino affondato è tratta dal sito  http://www.generazioneweb.net/ada-sereni-e-laffaire-lino/  e quella di Ada Sereni dal sito http://www.tlaxcala.es/pp.asp?reference=10258&lg=it.

[87] Il termine Mossad tratto dalla sigla HaMossad leModi’in U’LeTafkidim Meyuhadim, “Istituto per l’intelligence e servizi speciali” nacque di fatto il 13 dicembre 1949, anche se la sua nascita ufficiale risale al 2marzo 1951. I suoi predecessori erano lo Shai-Sherit Yedot, servizio informazioni dell‘Haganah, che il 7 giugno 1948 si trasformarono in uno Shai militare, uno per la sicurezza interna ed uno per la sicurezza esterna (tratto da Ian Black e Benny Morris,Israel’s secret wars, pag.55 e pag. 83).

[88] Mossad base Italia, pag. 24.

[89] Ada Sereni, I clandestini del mare, pagg 327-328.

[90] L’incontro ebbe luogo a Trento nell’aprile del 1948. Vedasi: http://www.fondazionespirito.it/newsletter/n4/saggiorossi.pdf.

[91] Eric Salerno “ Mossad base italia” pagg.65 e segg.

[93] Eric Salermo, libro citato pag.73.

[94] Eric Salerno, libro citato, pagg. 77-78.

[95] Ibidem, pag. 80

[96] Giuseppe Parlato, storico. La frase riportata da Eric Salerno è contenuta nel libro Fascisti senza Mussolini dello stesso Parlato.

[97] FAR: Fasci di Azione Rivoluzionaria, organizzazione costituita a cavallo del 1946 da diversi gruppi di reduci della Repubblica Sociale Italiana. Vds : http://fascidazionerivoluzionaria.blogspot.it/

valido al 9 settembre 2014

[98] Movimento politico nazionalista creato da Ze’ev Jabotinsky, in Palestina e nelle varie nazioni europee; dalle sue fila prese vita l’Irgun. Fra i suoi aderenti si ricordano sopratutto Menachem Begin e Yitzach Shamir. Per una generica conoscenza del Betar vedasi http://www.jewishvirtuallibrary.org/jsource/judaica/ejud_0002_0003_0_02836.html.

[99] La foto di Jabotinsky è tratta dal sito e quella dello stesso mentre visita alcuni giovani del Betar dal sito http://dancutlermedicalart.com/AlbertEinstein%27sZionism/07Einstein%27sZionism1940-1949.htm.

[100]Vladimir (Ze’ev) Jabotinskij, fondatore del Movimento Revisionista Sionista, le cui idee si ispiravano ad un forte nazionalismo e ad una espansione del sionismo sulle due rive del Giordano al fine di accogliere tutti gli Ebrei  nel mondo e l’espulsione di tutti gli Arabi. Vedasi il suo articolo The Iron Wall https://www.jewishvirtuallibrary.org/jsource/Zionism/ironwall.html.

[101] Eran Kaplan, The Jewish Radical Right: Revisionist Zionism and Its Ideological Legacy,pag. 3 e 150.

[102] Eric Kaplan, The Jewish Radical Right: Revisionist Zionism and Its Ideological Legacy, pag.156.

[103] Ibidem, pag.153.

[104] Charles Enderlin, Attraverso il ferro ed il fuoco, pag.46.

[105] Citato da Junio Valerio Borghese nel suo Decima Flottiglia MAS alle pagine 137-139, come uno dei partecipanti all’attacco contro il porto di Malta. Informazioni sullo stesso reperibili sul sito http://digilander.libero.it/anmisbt/Fiorenzo%20Capriotti.htm.

[108] Dominique Lapierre & Larry Collins , “ Gerusalemme Gerusalemme, pagg. 270-271.

[109] Operatore dell’Haganah, con l’incarico di procurare armamenti per la stessa organizzazione. In seguito fondatore dell’Israel’s Weapons Development Authority, (RAFAEL), http://www.nti.org/country-profiles/israel/chemical/ ed uno degli organizzatori dello sviluppo militare nucleare israelianohttp://www.nytimes.com/books/first/c/cohen-israel.html.

[110] Ada Sereni, I clandestini del mare, pag 308-309.

[111] Janusz Piekalkiewicz, Il lungo braccio di Israele, pagg.207-209.

[112] Eric Salerno, Mossad base Italia, pagg 51 e segg.

[113] L’antesignano della CIA ( Central Intelligence Agency) durante la seconda guerra mondiale. L’agenzia attuale nacque nel 1947.

[114] Più tardi diventerà l’MI5.

[115] Testo citato, pag. 74.

[116] Storia D’Italia. volume 4 dall Unità ad Oggi. pag 2462.

[117] Charles Enderlin, Attraverso il ferro ed il fuoco, pag 235.

[118] Janusz  Piekalkiewicz, Il lungo braccio di Israele, pagg. 205-206.

[119]Piekalkiewicz, libro citato, pag. 220.

[120] http://jwa.org/encyclopedia/article/meir-golda; Vedasi per il discorso tenuto da Golda Meir nel gennaio 1948 a Chicago ove raccolse i 50 milioni di dollari, il lavoro di Željko Uvanović  dal titolo: Two iron ladies with rhetoric simplicity Golda Meir’s speeches, dialogues and interviews in comparison with their counterparts in Ingrid Bergman’s re-enactment in the film A Woman Called Golda (1982).

[121] Organizzazione filantropica ebraica  sorta negli USA nel 1939 che riuniva diversi gruppi ebraici.

[122] Kathleen Christison, Perceptions of Palestine, pag73.

[125] Douglas Little, Orientalismo Americano. Stati Uniti e Medio Oriente dal 1945. pagg 47-48.

[126] ibidem, pag 48.

[127]  Douglas Little, libro citato, pag 49.

[128] Ibidem, pag. 31.

[129] Ibidem, pag. 105.

[130] Douglas little, libro citato, pagg.. 98-99.

[131] Charles Enderlin, libro citato, pag 236.

[132] Simbolo dell Irgun tratto dal sitohttp://en.wikipedia.org/wiki/Irgun.

[135] Charles Enderlin, Attraverso il ferro ed il fuoco, pag71 e pag 137.

[136] Ibidem, pag. 138.

[138] Enderlin, libro citato, pag.218.

[139] Charles Enderlin, Attraverso il ferro ed il fuoco, pagg 182-183.

[141] Dalla Tesi Universitaria su “HAMAS: NASCITA E SVILUPPO” discussa dall’autore presso l’Università di Trieste in occasione del conseguimento della laurea in Scienze Politiche.

[142] Alan  Hart, Zionism. The real enemy of the Jews, vol II pag 31.

[143] John Bagot Glubb, A soldier with Arabs”, pag 93.

[144] Rogan & Shlaim, The war for Palestine. Rewriting the history of 1948, pag. 99.