OMOLOGAZIONE DELLA SOCIETA’ ED AGONIA DELL’ISTITUZIONE STATO

di Angelo De Giuli

Le cronache delle ultime settimane raccontano di piazze incandescenti in diverse parti del mondo: in Sud America, in Medio Oriente, in Francia, in Algeria, Hong Kong ed altre minori. Le cause di tali proteste, secondo gli articoli di stampa ed i servizi televisivi, sono da ascriversi alla difesa o richiesta delle libertà personali, all’aumento costante del costo della vita, ai non più tollerabili livelli di disuguaglianza. Affermazioni perentorie, accompagnate da tabelle e grafici che mostrano, in modo inoppugnabile, una tendenza in crescita della concentrazione di sempre più ricchezza in capo a minoranze sempre più ristrette. Infime percentuali di popolazione che detengono circa un terzo della ricchezza totale; enormi percentuali di popolazione che assommano minime percentuali di ricchezza totale. Una tendenza comune a tutte le aree geopolitiche, indipendentemente da sistemi di governo, religioni o livello di sviluppo economico. Ma da quanti anni, decenni, assistiamo al medesimo spettacolo di numeri, percentuali, dichiarazioni di circostanza e giustificazione delle proteste? E’ tutta qui l’analisi che i professionisti dell’informazione possono sviluppare? Ancora una volta si ha la sensazione che vi sia qualcosa rimasto nelle stilografiche, o per superficialità di pensiero, o per volontà di non palesare l’avverarsi dell’erosione della democrazia ad opera del sistema socioeconomico dominante. Una prima considerazione mancante nelle cronache riguarda la frequenza con cui il malcontento popolare si manifesta contemporaneamente in più aree del globo. È assolutamente vero che manifestazioni, rivolte, insurrezioni e rivoluzioni, causate da crisi economiche o compressione dei diritti, sempre accaddero nel corso della Storia, ma di solito coinvolsero un singolo popolo, un territorio delimitato, quasi mai vi fu comunanza di causa tra eventi simultanei in aree diverse del mondo. Negli ultimi due decenni si possono registrare già due momenti di instabilità politica riguardanti una vasta area geografica: quindici anni fa assistemmo alla tumultuosa Primavera Araba del nord Africa, oggi la protesta si ripresenta in contemporanea nelle aree ricordate in apertura. Due eventi che originano dallo stesso ambito, quello economico, e con lo stesso lamento, l’ampliamento delle disuguaglianze sociali e il conseguente numero sempre crescente delle persone spinte ai margini delle società. Entrambe le crisi trovano spunto dai meccanismi internazionali dell’Omologazione in atto sia a livello economico finanziario che socio politico. Come già evidenziato in articoli precedenti, un effetto economico della Omologazione è la specializzazione produttiva che si sviluppa in determinate aree del mondo e i vincoli di dipendenza che tra esse crea. Ne è un esempio la produzione di soia in Brasile e l’allevamento di suini in Cina. La specializzazione di una economia produce inesorabilmente una forte concentrazione di fattori produttivi e ricchezza nelle mani di pochi attori, spesso grandi capitalisti che operano per mezzo di aziende multinazionali. L’aspetto rilevante ai fini del presente scritto consiste nella enorme dimensione della dotazione produttiva necessaria per operare sul mercato internazionale, ossia è d’obbligo un elevato livello degli investimenti, quindi di capitale, per poter ottenere economie di scala in grado di abbattere i costi di produzione a livelli competitivi. I capitali richiesti sono di tali proporzioni che spesso solo gli Stati o i primari gruppi finanziari e bancari ne possono disporre, e solo imprese di grandi dimensioni hanno accesso a queste risorse finanziarie. Ho ridotto un complesso concetto ai minimi termini poiché ulteriori dissertazioni sarebbero qui inutili: ciò che è necessario fare rilevare è la relazione tra la specializzazione produttiva e il gigantismo economico e finanziario. Avendo descritto in precedenza il caso della specializzazione del Brasile nella produzione di soia (http://www.omeganews.info/?p=4232), correlato alla specializzazione cinese nell’allevamento dei maiali, potremmo procedere ad alcune considerazioni sulle relazioni createsi tra questi due Stati quale caso di analisi esemplificativo di un modello generale. Due Stati, Cina e Brasile, indipendenti, riconosciuti tali dalla comunità internazionale, e nel pieno dei loro poteri. Essi sono organizzazioni politiche ed istituzionali che, perseguendo la finalità nobile di promuovere le azioni opportune a garantire il benessere e lo sviluppo armonico dei rispettivi popoli, sono legittimati a decidere e realizzare qualunque iniziativa politica interna ed a intrattenere rapporti con altri Stati. Ciò presuppone che gli Stati siano nelle condizioni di assumere decisioni di politica interna, economica ed estera in modo autonomo, con il solo vincolo del rispetto delle convenzioni e del diritto internazionali. Il caso delle relazioni esistenti tra soia, suini, deforestazione e consumi di carne di maiale, analizzate nell’articolo appena ricordato, suggerisce una realtà un po’ diversa, dove l’Omologazione dell’economia e delle società mondiali ricoprono un ruolo condizionante rispetto alle autonomie statali. Il condizionamento di cui si scrive deriva certamente dalle differenti forze economiche dei Paesi interessati, là dove la Cina esprime un’economia molte volte più importante ed influente, a livello mondiale, rispetto a quella brasiliana. Ma l’elemento grandezza non può essere considerato l’unico in grado di determinare le relazioni tra due nazioni, anche in forza del fatto che il condizionamento politico non agisce in un solo senso, con l’esercizio di un’azione da parte dell’economia maggiore verso quella minore che la subisce, bensì esso è caratterizzato da reciprocità. In questo esempio di specializzazione intervengono primari attori finanziari che sostengono l’espansione delle multinazionali e dei grandi gruppi latifondisti brasiliani in funzione delle prospettive di sviluppo (dei guadagni, beninteso) del mercato suinicolo cinese. La specializzazione produttiva brasiliana nella coltivazione della soia trova giustificazione economica e finanziaria nella speculare specializzazione cinese rappresentata dall’allevamento di maiali. Definisco speculari questi processi in quanto entrambi i Paesi stanno accentuando la concentrazione di risorse nelle rispettive produzioni specifiche: la Cina disincentivando la coltivazione di soia con destinazione di parte di questi terreni a nuovi allevamenti, il Brasile ampliando le aree dedicate alla soia a discapito degli spazi per incrementare gli allevamenti suini e delle aree forestali amazzoniche. Possiamo affermare che sia in atto un processo di rafforzamento della complementarità delle due economie nello sviluppo della filiera produttiva di carne suina: la produzione di soia brasiliana sarà sempre più destinata, dedicata a rifornire la crescente produzione suinicola cinese. Una semplificazione della realtà potrebbe indurci a considerare il processo in atto quale derivante dalla sola volontà politica dei governi, dove l’esecutivo cinese è interessato a soddisfare la crescente richiesta di carne suina del mercato domestico, al fine di rafforzare la sua credibilità presso la popolazione (ricordiamo il valore sociale e politico del consumo di carne di maiale quale simbolo di benessere e potenza economica della nazione cinese), ed il governo brasiliano intende accrescere le quote di export e garantire lo sviluppo della sua economia. Con un piccolo sforzo analitico aggiuntivo, però, appare evidente che la forza propulsiva di questo processo di complementarità è principalmente economica e finanziaria. La logica delle economie di scala richiede la specializzazione produttiva e la standardizzazione di prodotto, perché la finanza globale ricerca ed impone il perseguimento dei massimi margini di profitto possibili. Gli attori finanziari destinano ingenti capitali a sostegno dello sviluppo della produzione di soia, in Brasile, e dei maiali, in Cina, solo perché l’aumento dei volumi di prodotto sui rispettivi territori garantiscono la massima efficienza dell’impiego del capitale (ossia, le economie di scala consentono di abbattere quanto più possibile i costi dell’investimento rispetto ai volumi prodotti). È questo il punto in cui scavare per portare in evidenza la meccanica e l’energia che muovono questo sistema di specializzazione produttiva per aree geografiche. Le politiche governative appaiono, di fatto, la ratifica di ciò che l’economia ha deliberato, fornendo ad esso una copertura democratica spacciando per espressione dei rappresentanti istituzionali degli interessi del popolo decisioni prese ed attuate da una ristretta cerchia di soggetti economici privati: i famigerati mercati. È una deduzione di forte impatto, certo, ma con un suo fondamento logico. In Brasile la situazione economica non brilla particolarmente, ed uno dei pilastri che ne sostiene la ricchezza nazionale è l’esportazione di soia e, in minor misura, di altri cereali: la quota delle esportazioni totali da essi rappresentati è di circa il 20%. Un settore che rappresenta un quinto delle esportazioni totali non è più un comparto di interesse economico di rilievo, bensì diventa settore strategico dell’economia nazionale. Non sembra verosimile, ora, pensare ad una politica brasiliana che regoli efficacemente l’espansione del settore agricolo, per preservare la sopravvivenza della foresta amazzonica, senza che essa crei dissidi interni e terremoti economici. Che questa politica non sia all’orizzonte lo dimostrano le centinaia di morti, nei soli ultimi quindici anni, tra le fila degli attivisti di varie organizzazioni per la tutela dell’ambiente e dei diritti umani degli indios. Anche il governo cinese, però, si ritrova su una via quasi obbligata. Come abbiamo già ricordato, in Cina il settore suinicolo è strategico sia per la stabilità del sistema economico sia per la tenuta del prestigio del Partito Unico. Ma il vero problema, quello che conferisce valenza strategica al suino, è il legame a doppio filo tra la forzatura politica dello sviluppo del settore e il valore sociale che i consumatori hanno attribuito ad esso. E’ un altro esempio storico di come l’interesse esclusivamente politico (non del popolo) agisca sulla società per condizionarne l’opinione (ossia, sviluppare a tappe forzate il settore suinicolo per dimostrare la capacità del governo di assicurare il benessere e l’autonomia alimentare del Paese) e, senza volerlo, ne alteri lo stile di vita tanto che il consumatore veda nella carne suina il simbolo del suo prestigio sociale (per questo aspetto rimando all’articolo http://www.omeganews.info/?p=4232). A distanza di anni, il popolo cinese si è trasformato da oggetto passivo di una azione di politica economica a carattere propagandistico a soggetto che, attribuendo alla carne di maiale un suo specifico valore sociale, ora sollecita il potere politico a preservare ed incrementare lo sviluppo della produzione di maiale. Un ribaltamento di ruoli; un governo che prima ha imposto una azione ed ora è costretto a continuarla. Parliamo di politica obbligata anche perché il settore, così profittevole, è diventato un riferimento per gli investimenti finanziari, sia di stato che internazionali, tanto che molti fondi di investimento vi stanno tuttora convogliando ingenti capitali. Non è un caso che i gruppi produttivi cinesi stiano progettando nuove campagne di marketing, nel tentativo di modificare la percezione dei consumatori cinesi al fine di aprire il mercato di nuovi prodotti a base suina. Su questo dettaglio torneremo tra poco. Quando affermavo che l’economia ha da tempo sovrastato la politica (articolo http://www.omeganews.info/?p=4201), mi riferivo proprio a situazioni simili a questa. In Brasile il governo reclama il diritto di sfruttare le sue risorse senza vincoli imposti da altri Stati, quando in realtà non ha alternativa all’inerzia verso la deforestazione, pena il ritiro dal suo settore agricolo delle multinazionali e dei capitali finanziari, oltre a perdere la posizione privilegiata nell’esportazione di soia verso la Cina. In poche parole, o si astiene dal disturbare latifondisti e finanzieri o riduce in miseria buona parte della sua popolazione. Per la Cina si ripropone, con sfaccettature diverse, lo stessa dilemma. Se il Partito Unico dovesse esprimere una politica di sostegno ad una moratoria alla deforestazione amazzonica, in poco tempo sarebbe obbligato a fronteggiare una crisi non solo economica e finanziaria, ma anche di immagine e di fiducia. Situazioni inaccettabili per uno Stato che ambisce al ruolo di potenza mondiale. Risulta agevole dedurre che l’Omologazione, con il suo potere di uniformare i comportamenti economici, riesce a condizionare gli orientamenti politici dei governi, assoggettandoli ai suoi obiettivi ed interessi, noncurante degli effetti sulla vita (ed il significato della stessa) degli uomini che essa lambisce. Come potrebbe, il governo cinese, esprimere una politica estera che rifiuti la distruzione delle foreste in Brasile ai fini della produzione di soia, quando una colonna portante del suo sistema di potere ne richiede sempre maggiori quantità? Come potrebbe, il governo brasiliano, imporre una politica interna tesa a fermare il disboscamento, quando da esso dipende la disponibilità di nuovi terreni necessari ad incrementare l’esportazione di soia ed a sostenere il reddito del Paese? Tanto sono disincentivati ad agire, i governi, che gli incendi dell’Amazzonia continuano senza alcun freno e con intensità crescente. L’opinione pubblica mondiale si agitò per qualche settimana, alcuni Stati minacciarono sanzioni, altri offrirono soldi a compensazione di eventuali perdite economiche del Brasile, importanti Stati nemmeno si interessarono della faccenda, il governo brasiliano reagì con forza alle accuse e proclamò (tuttora afferma con forza) il suo diritto a disporre della foresta secondo i suoi interessi strategici e … passati mesi da quel trambusto generale, nulla è cambiato: i consumi di carne suina aumentano, la selva brucia allegramente, i riflettori dei mass media e dei governi si sono posati altrove, e la ristretta famiglia di grandi capitalisti e finanzieri ha fatto, e continua a fare, soldi in gran quantità. Una chiara manifestazione di parziale impotenza degli Stati quando essi devono fronteggiare le ragioni dell’Omologazione. Non è certo questa una situazione da sottovalutare, perché questi Stati non possono più adempiere alla loro funzione di perseguimento del comune interesse di tutta la cittadinanza in piena autonomia. Una compressione dell’indipendenza decisionale dello Stato che, posta in relazione alla finalità politica più nobile dell’Istituzione, nel medio periodo si ripercuoterà sulla Nazione che quello Stato dovrebbe rappresentare e tutelare. In che modo i cittadini risentiranno di ciò? Quale conseguenza comporterà il ridimensionamento del raggio d’azione dello Stato? Prima di inoltrarci nella formulazione di una risposta, è opportuno porre come caposaldo logico il significato dell’esistenza dello Stato, mettere al centro del ragionamento il bisogno condiviso di una Nazione per il soddisfacimento del quale esso, lo Stato, si è sviluppato ed organizzato nel corso della Storia. Indipendentemente dalle forme che lo Stato può assumere ed evitando le filosofie sottostanti le sue trasformazioni nel corso dei secoli, esso può essere considerato come l’organizzazione giuridica dei poteri di governo che un popolo, una Nazione definisce e riconosce quale istituzione deputata a regolare e garantire la pacifica convivenza tra le persone ed a governarne i rapporti, sia interni ai confini che esterni, per il conseguimento di interessi e benessere comuni. Dunque, una popolazione riconosce a quell’insieme di enti, collegi, assemblee, istituzioni l’esercizio del potere legislativo, coercitivo, impositivo, di tutela dei diritti personali, economico, di esercizio della difesa dei confini, oltre a regolare i rapporti con organizzazioni statali straniere, per il tramite dell’indicazione politica che la comunità stessa esprime secondo regole condivise e costitutive di questo complesso sistema. Posta questa sommaria definizione di Stato, quale attuatore delle decisioni politiche della comunità nazionale e sostenitore dei suoi interessi generali, si evince l’azione condizionante dell’Omologazione sullo Stato nel momento in cui gli interessi di soggetti diversi dalle persone, non aventi diritto di voto e non titolari di rappresentanza politica, a volte stranieri, pongono lo Stato stesso nella impossibilità di decidere ed attuare tutte le azioni necessarie a perseguire gli obiettivi politicamente espressi dai cittadini, gli unici che hanno il diritto di esprimere l’indirizzo politico di governo. La situazione, dove gli interessi nazionali definiti dalle richieste ed espressioni politiche della cittadinanza si piegano all’ingerenza di forze estranee al dibattito politico interno oppure accarezzano la volontà di entità straniere in grado di minacciare ritorsioni economiche senza possibilità di reazione (del tipo: se tu Brasile interrompi la corsa alla deforestazione – ossia, non aumenti la produzione di soia – mi vedrò costretto a rivolgermi ad un più affidabile fornitore, e tu perderai buona parte dei miei soldi, con tutte le conseguenze del caso per i tuoi cittadini), determina una parziale perdita della capacità di autodeterminazione di un popolo. In altri termini, se la volontà ed indicazione politica dei brasiliani è quella di salvaguardare la foresta amazzonica mentre il governo, per non perdere i guadagni derivanti dall’esportazione di soia non fa nulla, ecco che lo Stato rinuncia ad una parte del suo ruolo istituzionale quale rappresentante ed attuatore della volontà ed interessi della sua Nazione. In questo caso, inoltre, lo Stato abdica al dovere verso la sua popolazione di tutelare il territorio, l’ambiente e la salute pubblica. Nel caso specifico, le forze omologatrici riducono il livello di autodeterminazione del popolo brasiliano riportandolo al giusto posto nel sistema globale così che i consumatori cinesi sono soddisfatti perché possono felicemente consumare maiale, il Partito Unico di Pechino rimane sempre nel cuore dei suoi cittadini perché garantisce un consumo continuo di suini, il governo brasiliano mantiene il livello del suo PIL, latifondisti e finanzieri possono continuare ad arricchirsi in “grazia di Dio”. Insomma, quasi tutti contenti. Quasi tutti, perché nel frattempo la foresta continua ad andare in fumo, e con essa la legittima volontà espressa dai Brasiliani di proteggere la natura della loro terra. Per la Cina il discorso, con alcune varianti, in sostanza non cambia ma diversa è l’origine del condizionamento politico. Il governo centrale, per accelerare lo sviluppo del comparto suinicolo, ha agevolato la concentrazione gestionale e produttiva della filiera in pochissime, enormi multinazionali. E’ vero che i vertici di queste sono nominati o sostenuti dal Partito Unico, ma essi governano gruppi economici e finanziari il cui destino coincide con il livello di benessere di milioni di persone: uno stile di vita che deve essere tutelato. Una tutela ormai obbligatoria, perché anche solo un momentaneo rallentamento della corsa dei consumi danneggerebbe l’immagine e la reputazione politica del governo, creerebbe malcontento tra i consumatori, soprattutto spingerebbe i grandi gruppi cinesi a valorizzare le società estere da loro controllate, e quest’ultima eventualità porrebbe un ostacolo al perseguimento dell’obiettivo strategico di governare, a livello mondiale, il settore suinicolo e garantirne la stabilità. Ciò significherebbe un inaccettabile trasferimento di potere dalla Cina all’estero. In ultima analisi, il governo di Pechino ha prima creato dei giganti, ed ora ne è condizionato, tanto che la sua politica verso i disastri ambientali in Amazzonia deve tener conto delle ripercussioni sulla sua industria strategica. Un elemento perciò accomuna due Stati, Cina e Brasile, caratterizzati da strutture economiche assai diverse, così come lo sono le rispettive forze finanziarie e le opzioni politiche a loro disposizione. Il mercato nel suo insieme (finanza, industria, consumatori) delimita l’ambito di libertà d’azione delle istituzioni e di fatto ne detta la linea politica. Una politica, economica per il Brasile ed estera per la Cina, non coincidente con la volontà popolare liberamente espressa, ma preconfezionata dai mercati e presentata (più che altro, direi spacciata) ai cittadini come politica a vantaggio loro, dei loro figli e dello sviluppo del Paese. Un esempio perfetto di ribaltamento della realtà, ambito in cui il marketing politico è maestro indiscusso. È questo il segreto comunicativo per cui il pubblico mondiale assiste allo spettacolo di tanti Stati che accusano il Brasile di disastro ambientale, dei mass media che scaricano sui consumatori cinesi la responsabilità indiretta di questi incendi, dei molteplici forum organizzati dai più disparati enti internazionali, mentre lontano dagli occhi dello stesso pubblico la foresta amazzonica continua a bruciare senza tanti problemi. A questo punto si può iniziare a focalizzare delle osservazioni di carattere generale, individuando una costante di fondo nell’azione dell’Omologazione delle società contemporanee: la specializzazione produttiva, che va accentuandosi nelle varie aree del mondo, crea delle dipendenze tra Stati talmente vincolanti che le politiche degli stessi non sono più totale espressione delle volontà dei loro cittadini (e nemmeno dei loro legittimi interessi), ma rispondono in gran parte a interessi di carattere economico finanziario determinati da una ristretta cerchia di soggetti nazionali e internazionali, di cui tanti non hanno diritto di voto (banche, multinazionali, società offshore e altri enti), dotati di un enorme potere di indirizzare finanziamenti o forniture. Sotto questo profilo Cina e Brasile sono solo un esempio. Si pensi alle recenti invasioni, della Russia verso la Crimea e della Turchia a danno della Siria, alla guerra civile in Libia, ai disastri sociali ed ambientali in Congo per l’estrazione del cobalto e lo smaltimento dei rifiuti elettronici, lo sfruttamento minorile in crescita in vaste aree del mondo: ebbene, sono solo alcuni esempi di situazioni su cui si infiammano le prime pagine dei più prestigiosi organi di informazione, si organizzano summit, simposi, forum internazionali ai massimi livelli, si finanziano ricerche tra università di vari Paesi e si promuovono manifestazioni ovunque nel mondo, insomma si scatena per qualche giorno un gran vociare generale, poi però non si concretizza alcuna conseguenza significativa per chi viola le leggi, nazionali o internazionali che siano. Nessun governo, nessuno Stato o organizzazione di Stati dispone della effettiva libertà di intervenire con decisioni politiche concrete ed autorevoli. La maggior parte dei cittadini di molti Stati reclamano provvedimenti forti o risolutivi, purché, sia ben chiaro, non comportino un sacrificio dei loro consumi o influiscano sugli stili di vita a cui sono ormai assuefatti. E’ dunque comprensibile che gli Stati firmino trattati bilaterali o convenzioni internazionali, ma poi tutto continua come se niente fosse deciso, e che non vi siano azioni veramente incisive. Ciò ovviamente per evitare ritorsioni economiche e conseguente perdita di consenso. In concreto, la politica espressa democraticamente incontra un limite, assai resistente costituito dalla omologazione degli interessi sovrannazionali, dei comportamenti e della coscienza collettiva, che comprime la sovranità statale in ambiti sempre più ristretti. Un limite che si espande con l’aumento della forza del processo di Omologazione dei comportamenti socio economici: una realtà che vede l’autonomia degli Stati costretta tra il consumismo, che sollecita i consumatori a pretendere sempre più opportunità di consumo, e gli interessi economici e di potere dell’oligarchia che detiene il comando dell’arsenale dell’Omologazione: multinazionali, banche di primaria importanza mondiale, grande distribuzione, fondi comuni di investimento di ogni tipo ed altre simili istituzioni. A questi armamenti pesanti andrebbero aggiunte le multinazionali del crimine organizzato, ma si sconfinerebbe in un altro tipo di ragionamento. Un’oligarchia che, avendo a disposizione ricchezze a volte superiori al PIL di alcuni Stati, può decidere lo sviluppo o meno di una Nazione, così come potrebbe anche decidere di essere l’alleato legale di Stati che, aspirando ad un ruolo egemone, conducono sottotraccia guerre economiche, commerciali e finanziarie. Gli effetti del ridimensionamento dell’autonomia dello Stato e la conseguente riduzione degli ambiti politici in cui può pienamente realizzare le volontà popolari, si riverberano negativamente sulla pacifica convivenza della sua popolazione, in quanto l’azione politica, non rispondendo più totalmente alla legittima indicazione della platea dei cittadini, è da essa percepita come estranea agli interessi generali della comunità e sbilanciata a favore di corporazioni o potentati minoritari; nei casi più gravi, essa può essere considerata addirittura avversa, contraria rispetto alle necessità dei comuni cittadini. Uno Stato soggetto a condizionamenti di dette specie non sarà più in grado di esprimere politiche di contenimento delle disuguaglianze e di coesione sociale, e diventerà il servo del PIL, un mendicante della fiducia dei mercati finanziari, imbelle di fronte ai ricatti occupazionali delle grandi imprese, sempre prono a barattare diritti dei cittadini per rendersi attraente agli investitori stranieri. E’ difficile capire come si evolverà il modello di rappresentanza politica, se sarà possibile ridurre o annullare quella sensazione di essere abbandonati dallo Stato che serpeggia tra i sempre più ampi strati delle popolazioni. Sicuramente il sospetto che gli interessi tutelati siano solo quelli di pochi, irraggiungibili ed intoccabili soggetti, lambisce la maggioranza delle persone, e la protesta in atto in numerosi Stati sembra non aver esaurito le energie ed i motivi scatenanti. Le differenti dislocazioni geografiche della produzione e dei mercati di consumo, la standardizzazione dell’informazione e l’uniformazione degli stili di vita, la sempre più opaca dinamica economica e finanziaria mondiale, sono i principali motivi per cui il processo di Omologazione si rafforza con la complicità del comportamento di tutte le classi sociali ovunque nel mondo, come già osservato in altri scritti; la forza di quella che genericamente è definita élite sta nel grande consenso che il modello consumistico riscuote a livello mondiale. A riprova di quanto appena affermato, e per concludere, vorrei porre al lettore una domanda, un tema su cui riflettere: informando correttamente i cittadini cinesi in merito alle conseguenze sociali ed ambientali della attuale organizzazione della filiera suinicola, non potrebbe accadere che essi si persuadano a ridurre il consumo di maiale, diciamo da 39kg a 35kg annui pro capite, sostituendo i 4 kg mancanti con altri alimenti, spingendo indirettamente il Partito Unico, i finanzieri, i latifondisti brasiliani, a ridurre la richiesta di soia e, dunque, indurli a lasciare un po’ di respiro alla foresta Amazzonica? Riformulo la domanda in termini generali: posto che i consumi sono il motore dell’economia ed il consumismo ha sancito il primato dell’economia sulla politica, all’interno di questo sistema chi, con la sua spesa, decide come e cosa consumare? Chi, con il suo consumo, potrebbe modificare le caratteristiche del sistema economico ed il comportamento dei soggetti dominanti? Forse i disordini e le proteste in vari Paesi sono il risultato di una “autorevole” comunicazione che, evitando accuratamente di porre domande scomode per una società consumistica, non consente di trovare una risposta, ragionata, consapevole ed adeguata alla situazione attuale, da parte di coloro che non appartengono alle élite; ai quali non resta che l’atto plateale, a volte violento, per dire agli illuminati: “Signori, tutti dobbiamo vivere su questo unico mondo, e non risulta da alcun testo sacro o giuridico che voi siate legittimati a far soldi sulla pelle degli altri! Anche noi dobbiamo vivere dignitosamente ed in sicurezza! E per ora ci limitiamo a gridarlo ai nostri governi…”. Il che equivale a dire: caro Stato, torna a fare il tuo dovere di rappresentante dei diritti e degli interessi di tutta, ma veramente di tutta, la tua popolazione.

Angelo De Giuli