Dalla Globalizzazione all’Omologazione. Gli effetti stravolgenti del Consumismo e la necessità di una Scienza del Sistema Umano.

di Angelo De Giuli

Globalizzazione e Consumismo: i due fenomeni planetari che stanno condizionando la politica, l’economia, le società e la vita delle persone a livello mondiale.

Due fenomeni le cui origini, significati e ambiti di azione sono ben differenti, ma tra loro intimamente correlati, sovrapposti. Sono due processi che negli ultimi decenni hanno influito, stanno influenzando, sia la vita che il processo di sviluppo delle Nazioni, la Globalizzazione aprendo la strada (ossia i mercati e le società) al Consumismo, e quest’ultimo, con una pressante azione sui comportamenti sociali, predisponendo le società alla radicalizzazione della “fede” nei precetti della Globalizzazione.

La letteratura economica è ricca di analisi e profezie aventi ad argomento la Globalizzazione, mentre una altrettanto vasta e interessante produzione scientifica, stavolta in ambito sociologico, pone l’accento principalmente sul Consumismo. Economia e sociologia trattano queste due tendenze sociali in maniera parallela, ponendole sullo stesso piano, come se Globalizzazione e Consumismo siano da considerarsi complementari, con fasi di sviluppo coeve, che da circa tre decenni a questa parte si sono intrecciati e fusi, tanto che in certi contesti li si considera un unico sistema di comportamenti economico-sociali sotto il cappello di “consumismo globalizzato”.

L’intento di questo scritto è tentare una analisi originale, eretica oserei dire, con un punto di partenza differente a quello generalmente considerato dalle dottrine correnti.

Consideriamo per un attimo la definizione di Globalizzazione che troviamo consultando l’Enciclopedia Treccani, così come farebbe il cosiddetto “uomo della strada”. Essa così recita: Termine adoperato, a partire dagli anni 1990, per indicare un insieme assai ampio di fenomeni, connessi con la crescita della integrazione economica, sociale e culturale tra le diverse aree del mondo. La Treccani continua con la definizione di Globalizzazione dei mercati. Sempre la stessa fonte afferma che spesso il termine Globalizzazione è usato quale sinonimo di liberalizzazione, stando a rappresentare la progressiva riduzione, da parte di molti Stati, degli ostacoli normativi alla libera circolazione delle merci e dei capitali. Dunque, alla Globalizzazione, nelle sue varie forme, si attribuisce un significato prettamente economico, con origine intorno agli anni ’90 del secolo scorso.

Gli storici, invece, riconoscono la presenza della Globalizzazione durante l’intero percorso temporale dell’umanità, evidenziando come il fenomeno, con diverse gradazioni di intensità e ampiezza geografica, abbia accompagnato l’evoluzione sociale del genere umano sin dagli albori delle forme organizzate di convivenza.

Ed è questo il punto di partenza che vorrei porre ad origine della Globalizzazione nella narrazione economica, con le successive evoluzioni della stessa negli ultimi decenni, per giungere alla definizione di un nuovo fenomeno tuttora in pieno sviluppo. Questa diversa ottica prende spunto dal considerare la Globalizzazione non un fenomeno degli anni 1990, come correntemente assunto, bensì quale elemento inscindibile del naturale comportamento umano, indipendentemente dalle epoche storiche e dalle forme sociali che la Storia ha documentato. 

Non mancano gli esempi, nel Mondo Antico, di popoli che commerciavano con altri popoli a migliaia di chilometri dal loro territorio e che colonizzavano terre lontane al fine di trovare o produrre là beni necessari (o acquistarne di migliori) o per reperire materie prime da riportare in patria. Si pensi ai Fenici, ai Greci, ai Cartaginesi e così a seguire, che stabilirono rapporti di scambio commerciale e culturale con popolazioni assai diverse da loro. I Fenici già nel XII secolo a.C. entrarono in contatto con numerose popolazioni del Mar Mediterraneo occidentale, creando basi logistiche per le proprie navi commerciali in navigazione lungo le coste mediterranee ed atlantiche di Africa ed Europa. Questi avamposti, oltre a rifornire le navi, scambiavano con gli indigeni beni prodotti nelle città native ottenendo in cambio metalli utili all’economia patria. Nei secoli seguenti il commercio “internazionale” si avvantaggiò anche del perfezionarsi della tecnologia navale, incrementando sempre più l’intensità degli scambi.

Appare evidente l’alto grado di corrispondenza tra la definizione di Globalizzazione fornita dalla Enciclopedia Treccani e quanto la ricerca storica evidenzia nei comportamenti umani fin dal remoto passato.

Di seguito, due aspetti della Globalizzazione del passato, che la distinguono da quella contemporanea.

Il primo aspetto riguarda l’oggetto dello scambio commerciale: i beni scambiati erano beni non presenti, o presenti in scarsa quantità, presso i popoli contraenti. Si ricevevano prodotti di vario genere difficilmente disponibili sul proprio territorio cedendo, per esempio, metalli o legnami di cui esso era ricco. I commerci “internazionali” avevano principalmente lo scopo di reperire beni altrimenti non disponibili oppure più raffinati dei propri.

La seconda osservazione riguarda le reciproche influenze culturali. I commerci erano veicoli di conoscenza, di espressioni artistiche o di tecniche produttive diverse rispetto a quelle proprie di un dato territorio, ma assai difficilmente sostituivano tradizioni, stili di vita, religioni o comportamenti sociali. Gli elementi nuovi, in tutti gli ambiti, giunti tramite gli scambi commerciali, erano integrati lentamente nella cultura indigena, sempre comunque con “personalizzazioni” locali tali da adattarne il recepimento alla natura e struttura delle tradizioni e dei comportamenti sociali esistenti in loco. Ne risultava dunque una lenta evoluzione sociale, culturale ed economica in tutte le popolazioni partecipanti all’interscambio, ma ogni popolo evolveva in maniera autonoma, conservando la sua specificità originaria, sviluppandola in modo unico nel tempo e preservando le note identitarie del popolo stesso. La cultura condivisa a livello di tribù, popoli o nazioni rimaneva patrimonio inscindibile degli individui ad essi appartenenti. La sovrapposizione o sostituzione (in certi casi la scomparsa) di culture e civiltà locali avvenivano a seguito di eventi catastrofici, quali guerre, invasioni, lunghe e dure dominazioni, migrazioni di massa o altri casi parimenti distruttivi. 

Se, con le opportune proporzioni storiche, quanto scritto può essere riconosciuto, in termini generali, valido per ogni epoca storica precedente la Seconda Guerra Mondiale, quando i sistemi economici erano ancora incentrati sui mercati interni delle diverse nazioni, e gli scambi tra pari (le azioni predatorie a danno dell’America latina o dell’Africa in certi periodi passati non credo si possano considerare commercio) erano alimentati dalla necessità di colmare mancanze del mercato nazionale, allora la definizione di Globalizzazione correntemente adottata nelle teorie economiche dovrebbe essere modificata, inserendo un riferimento temporale individuabile intorno agli anni ‘80, che separi il fenomeno della Globalizzazione anteriore a questi anni da un qualcosa di nuovo.  Un qualcosa che, figlio della trasformazione della Globalizzazione stessa, si sviluppa a partire da quell’epoca senza soluzione di continuità, con ritmi crescenti e coinvolgendo sempre maggiori aree geografiche e popolazioni.

La Globalizzazione si è evoluta in un nuovo processo di integrazione mondiale, che si è spogliato dei due aspetti descritti appena sopra quali caratterizzanti il fenomeno dai tempi antichi. Potremmo dunque assumere questa data indicativa come il momento di non ritorno dello sviluppo di questo qualcosa di nuovo. Si innesca un processo che trasforma mari, terre e cieli in un unico nastro trasportatore, con il quale si movimentano merci, materie prime, alimenti, vestiti, automobili ed ogni altra cosa commerciabile da un qualunque luogo della Terra verso ogni angolo della Terra, indipendentemente dalla effettiva necessità del singolo mercato di un dato prodotto. Si pensi ai movimenti di prodotti ortofrutticoli di un territorio verso zone dove gli stessi sono coltivati in abbondanza, ed a volte anche in eccesso rispetto alle esigenze locali. In questo nuovo tipo di commercio mondiale, non basato sulla necessità di reperire il necessario mancante, ma principalmente sulla conquista dei mercati in generale, sta la metamorfosi della Globalizzazione

Ma cosa ha determinato questo passaggio? Numerose sono le cause, ma due sono i fattori senza i quali non si sarebbe avuta questa evoluzione.

Il primo fattore è figlio del boom economico vissuto dall’Occidente, specialmente in Europa, nel periodo dagli anni 1950 fino al 1970 circa. La rinascita economica del dopoguerra aveva beneficiato di ampi mercati interni bisognosi di ogni cosa; inoltre il veloce progresso tecnologico aveva da un lato ridotto i costi di produzione delle materie già esistenti, allargando così la platea dei consumatori, dall’altro aveva reso possibile la produzione in serie di beni tecnologicamente complessi destinati ai mercati di massa. La crescente industrializzazione di diversi settori merceologici aveva, contemporaneamente, compresso i tempi di produzione, consentendo un incremento esponenziale dell’offerta. Sono questi i decenni di sviluppo del ceto medio, quella classe sociale che conquistò la necessaria forza economica per assorbire la maggior parte di quella enorme offerta. Dunque, si era nella situazione in cui le produzioni nazionali trovavano ampi sbocchi sui mercati interni.

In quegli anni la Globalizzazione funzionava ancora prevalentemente quale meccanismo di reperimento, sui mercati esteri, delle materie prime che localmente erano presenti in quantità insufficienti o proprio non c’erano. Non a caso nel 1951, con il Trattato di Parigi, si costituì la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA), con lo scopo di mettere in comune la produzione di queste due materie prime fondamentali per le industrie dei sei Paesi fondatori.

Nella prima parte degli anni 1980 i mercati nazionali sono ormai saturi; le grandi produzioni industriali di massa cominciano ad incontrare difficoltà nel vendere i prodotti, con conseguente aumento di giacenze invendute e rischio di crollo sia dei prezzi che del margine di profitto. Un esempio di questa dinamica fu il settore agricolo. Dal dopoguerra fino al 1967, il sistema agricolo dei Paesi europei occidentali non garantiva l’autosufficienza alimentare degli stessi. Negli anni 1970 l’autosufficienza alimentare, obiettivo strategico degli Stati fondatori della futura Unione Europea, è ampiamente raggiunto. Un interessante approfondimento di questo argomento lo si può leggere nel documento del Consiglio Nazionale delle Ricerche, La Politica Agricola Comune, di G. Vitali, edito il 22 novembre 2010. A pagina 4 di questo lavoro l’autore sottolinea addirittura un risultato oltre le attese dell’intervento comunitario, con il costituirsi delle prime eccedenze produttive rispetto ai fabbisogni. Certamente è un risultato che dipende da molti fattori: la politica protezionistica degli Stati, il clima favorevole nelle relazioni internazionali occidentali ed altro. Fatto sta che tra il 1973 ed il 1988 i problemi di saturazione dei mercati agricoli si trasformano da contingenti a strutturali.

E così anche per altri comparti industriali, come ad esempio quelli automobilistico e degli elettrodomestici, si palesano i segnali di crisi strutturale di settore.

È in questo periodo che il sistema economico capitalistico occidentale ha la necessità di trovare nuovi mercati. Nuovi mercati da intendersi sia in senso geografico sia come nuove categorie merceologiche a seguito di innovazioni di prodotto, ma soprattutto come creazione di un nuovo tipo di consumo e di consumatori. 

I grandi gruppi che si sono sviluppati e consolidati a cavallo degli anni ’60 – ’80, definiti allora conglomerates, ora iniziano ad esercitare potenti influenze lungo due principali direttrici: quella politica, con l’arma della occupazione e della stabilità sociale, e quella economica commerciale (tesa all’affermazione delle teorie e regole liberiste nelle politiche economiche degli Stati).

Si tralasciano, in questa sede, riflessioni inerenti l’azione di condizionamento delle politiche statali in quanto mi distrarrebbero dal ragionamento principale; si richiama, invece, l’attenzione sulle pressioni che queste dinamiche economiche e finanziarie hanno generato sul fenomeno antico della Globalizzazione.

Tornando alle angosce delle conglomerates, il trovare nuovi mercati era ostacolato principalmente da due fattori: le barriere nazionali al libero scambio e la cultura tradizionalista e conservatrice dei valori natali dei consumatori.

Il primo ostacolo, quello delle barriere doganali e tariffarie, è stato risolto tra il 1986 ed il 1995, quest’ultimo è l’anno che ha visto l’istituzione del WTO (World Trade Organisation), secondo quanto sancito dall’Accordo di Marrakech del 15 aprile 1994.

L’insieme delle azioni attuate per il superamento del secondo tipo di ostalo è, invece, oggetto di interesse per il prosieguo di questa analisi, essendo molto complesso ed efficacie nell’attuazione.

Se a fine degli anni ‘80 la capacità produttiva generava eccedenze a livello locale, la priorità strategica consisteva nel conquistare nuove quote di mercato e, solo in secondo ordine, nell’incrementare i volumi di produzione. Di tutti i mercati allora esistenti, i più indicati per assorbire l’eccessiva produzione erano quelli a maggior reddito pro capite; dunque i target obbligati erano l’America del Nord, l’Europa Occidentale ed il Giappone. In queste aree c’era reddito, patrimonio e risparmio privato: una immensa prateria dove far correre a perdifiato i consumi! 

È proprio a partire dagli anni ‘80 che esplode il business pubblicitario. Contemporaneamente, il marketing e le Pubbliche Relazioni diventano le aree di maggior potere e prestigio nelle aziende di ogni ordine e grado, con crescite esponenziali dei budget a disposizione di queste funzioni. Si fa qui riferimento ad alcune osservazioni espresse nell’articolo <http://www.omeganews.info/?p=4201>, in quanto il vero potere e prestigio deriva dal ruolo di “nuovi sacerdoti” che marketing, pubbliche relazioni e pubblicità avevano conquistato presso l’allora indistinto pubblico di consumatori. Da allora in poi, essi sono le “tre chiese” che predicano (inizialmente, ma poi subdolamente impongono) i nuovi stili di vita e le mode, stabiliscono cosa vale e cosa no, separano chi ha gusto, stile, personalità (ovviamente, secondo le loro convenienze contingenti) da chi invece non segue “la retta via”. Insomma, è in questi anni che nell’Occidente ed in Giappone nasce e si diffonde una nuova, potente, religione: il Consumismo. Una religione così simile nella struttura alle grandi Religioni monoteistiche, ma contemporaneamente in antitesi nel credo. 

Una religione che ha convertito interi popoli, assidui frequentatori dei santuari (i centri commerciali e le vie dello shopping) dove i sommi sacerdoti (il marketing e la pubblicità) comunicano il verbo (lo stile di vita, la moda, la felicità ed il benessere rigorosamente personale) ed indicano la via (la fede nel consumo) per guadagnarsi un posto in paradiso (ignari e comodamente adagiati sull’innocente nuvoletta del consumismo, come nella passata pubblicità della Lavazza) al cospetto del dio denaro. Un verbo che predica una dottrina fideistica, antitetica nell’intento a quella di tutte le Religioni preesistenti, molto sintetica nei precetti, comoda e confortevole da seguire per il raggiungimento della beatitudine.

Una religione che non conosce confini e nazionalità, che accoglie qualunque carta di credito senza distinzione di razza, sesso, religione ed orientamento politico. Una religione che ti garantisce (illusoriamente) felicità ed onore se osservi rigorosamente il comandamento “onora il consumo” (… e sarai onorato), applicando il semplice precetto “il denaro è la tua guida spirituale” (… e per lui tutto accetterai con fede e devozione).  

Tornando all’osservazione di quell’epoca dorata, è negli anni ’80 che il Consumismo interviene sulle società occidentali, cambia l’atteggiamento delle persone e le filosofie della politica: è così che si apre il “nuovo mercato” tanto necessario alle corporates. Del Consumismo e delle sue influenze sui rapporti umani, della sua capacità di sostituire gli stili di vita soppiantando tradizioni e culture locali, fino alla loro emarginazione, si è già trattato nei precedenti articoli dello scrivente (http://www.omeganews.info/?p=4201 e http://www.omeganews.info/?p=4217).

Si procede qui ad approfondire il rapporto tra il Consumismo e la produzione. Le società contemporanee sono ormai abituate a consumare prodotti provenienti da ogni parte del mondo, senza più considerare i legami con tradizioni e territori in cui vivono: soprattutto consumano quantità di beni e servizi ben oltre la necessità, e spesso la domanda di consumi è rivolta a beni squisitamente inutili.

Ebbene, questo comportamento generale è il risultato perseguito, e raggiunto, da quelle corporates che negli anni ’80 – ’90, sospinte dal crescente eccesso di produzione, idearono le nuove strategie e tecniche di marketing. L’efficacia di questa azione, però, negli anni ’90 si avvalse di un fattore, potente quasi quanto la leva psicologica già utilizzata: l’accelerazione del progresso tecnologico nei settori delle telecomunicazioni, dei trasporti e della connessione di dati (internet). La combinazione del marketing e delle nuove tecnologie fece esplodere i livelli di consumo mondiali, generando così una forte domanda di investimenti nella produzione ed una impennata di richiesta di materia prima. È infatti tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90 che si accentua il processo di delocalizzazione di parte, inizialmente, ed in toto più di recente, della produzione di numerosi settori merceologici. Una delocalizzazione quasi a senso unico, dai Paesi più industrializzati verso aree economicamente più arretrate. La destinazione fu di solito giustificata da cinque condizioni principali: disponibilità di forza lavoro a basso costo, presenza in loco di materie prime, legislazioni ambientali e tutele del lavoro meno (o per niente) restrittive, prospettiva di sviluppo di un nuovo mercato con aumento di occupati (e quindi potenziali consumatori), bassa e discreta fiscalità.

Ed in questi stessi anni, il Consumismo e la delocalizzazione, incominciano ad essere evidenti e riconoscibili anche alle persone non specialiste di fatti economici (se ne rendono conto soprattutto coloro i quali hanno sperimentato personalmente gli effetti della modernità).

Siamo agli inizi degli anni ’90: sono gli anni in cui il termine Globalizzazione diviene di uso corrente, ed è così che il fenomeno Globalizzazione appare originarsi in quel periodo. Ma tra l’improvvisa sua notorietà e la contemporanea conversione di massa alla nuova religione consumistica, si è determinata la sovrapposizione concettuale e temporale dei fenomeni di GlobalizzazioneLiberismo economicoConsumismo, riducendoli quasi a dei sinonimi. Come se fossero più o meno la stessa cosa, uno effetto dell’altro, o altro causa di uno, senza troppi distinguo. 

Ma la trasformazione della Globalizzazione è ormai già compiuta: alla metà degli anni novanta è già all’opera un fenomeno diverso. 

A partire dagli anni ’90 non solo le società occidentali, ma anche quelle di numerosi Stati asiatici, dell’America Latina ed alcuni del continente africano iniziano a manifestare i sintomi di questo fenomeno nuovo. Sono i sintomi di un cambiamento strutturale delle rispettive società indotto dall’affermarsi del Consumismo e dal dispiegarsi dei suoi effetti, combinati con la libera circolazione dei capitali, la delocalizzazione e specializzazione produttiva ecc.

Delocalizzazione produttiva: una tendenza economica planetaria, in continua evoluzione, che consiste in una riorganizzazione degli assetti industriali che spesso è associata ad un processo tipico dell’economia capitalistica: l’efficiente allocazione del capitale. In pratica, con l’entrata in vigore dell’Accordo di Marrakesh i capitali finanziari sostanzialmente non hanno più incontrato ostacoli e barriere nel migrare da mercati saturi, dove produrre 100 richiedeva un investimento di 90, verso mercati in fase di sviluppo, dove per avere sempre 100 era sufficiente investire 40. Le logiche della finanza, fatta di arbitraggi e rendimenti, sono le componenti della strategia di “viaggio” degli investimenti. Infatti, da questo periodo letteralmente esplode il fenomeno della finanziarizzazione dell’economia, con annessa l’immancabile speculazione internazionale. La finanza, la forma liquida del capitale, il contante e suoi surrogati: anche essa alla ricerca di praterie vergini dove poter correre libera! In effetti tanto corre, che la sua trasformazione in capitale fisso (industria, impianti, infrastrutture e altro del mondo fisico) è pari solo ad una piccola parte del valore totale del capitale finanziario, stando a quanto afferma l’autorevole autore, prof. Giulio Tremonti, del recente libro Le Tre Profezie. Ma questo è un altro mondo.

Ma se la Finanza è la strategia (ossia la mente che decide dove spostare somme immense di denaro con un paio di semplici click di mouse), gli investimenti industriali e gli impianti sono il suo braccio armato (ossia l’azione e l’effetto della strategia sul territorio).

Ma la mente ed il braccio armato, di chi?

Principalmente di multinazionali, di banche e finanziarie di primaria rilevanza, di fondi di investimento di vari tipi, di certi Stati-impresa (la Cina, ad esempio, ma non solo), dei monopolisti di tecnologie avanzate … a loro volta di proprietà e dirette da quel che l’uomo comune chiama l’élite dominante.

Ritorniamo, però, alla delocalizzazione, figlia del Consumismo e sorella della specializzazione produttiva geografica, entrambi diretti discendenti della compianta Globalizzazione. Se le motivazioni che spingono le imprese a delocalizzare sono state ampiamente analizzate e organizzate in teorie di strategia aziendale, sia a livello operativo che accademico economico, minore è l’attenzione che è stata rivolta alla necessità di analisi organiche e multidisciplinari degli effetti della stessa sulla vita delle popolazioni che va a coinvolgere. Effetti che si riflettono sulle politiche statali interne ed esterne, sulle strutture sociali e loro livelli di coesione, sui comportamenti e destini dei singoli individui. Rinvio a tra poco le considerazioni su questo punto.

Rivenendo all’obbiettivo dichiarato all’inizio dello scritto – l’eresia di evolvere la definizione di Globalizzazione verso quella di un fenomeno più complesso – la lunga dissertazione si è resa necessaria per evidenziare ed incasellare in un ragionamento d’insieme i tratti storici ed economici alla base di un processo sviluppatosi nella penombra, poco evidente ai più a causa di un uso semplicistico e superficiale del termine Globalizzazione. Seguendo il filo logico delle osservazioni esposte, risulta palese che la Globalizzazione sia stata pesantemente influenzata, sino alla sua trasformazione, da una dottrina sociale ideata, pianificata e scientificamente applica: il Consumismo.

I due precedenti articoli della serie (http://www.omeganews.info/?p=4201 e http://www.omeganews.info/?p=4217), in apparenza semplici denunzie di costume ma in sostanza osservazioni ed analisi della realtà sociale contemporanea, contengono non solo le generalità di azione dei meccanismi di condizionamento dei comportamenti, ma anche il risultato (in fase avanzata di completamento) della convergenza e fusione di Globalizzazione e Consumismo. Riconoscendo questa tendenza ad unirsi e fondersi dei due fenomeni, si ha ragione di credere che ci troviamo di fronte ad un “fenomeno nuovo”, che potremmo chiamare Omologazione, con riferimento allo stesso tempo sia all’azione che al risultato del suo agire così come descritto nei precedenti articoli La contemporanea società consumistica: liberi cittadini o consumatori liberamente condizionati ed il conseguente Globalizzazione e Consumismo: fine delle tradizioni e progressiva omologazione (che dovrebbero ora assumere un più compiuto significato, messo in risalto dallo sfondo storico economico che si delineerà al termine di questo documento).

Dunque, si potrebbe considerare una diversa sequenza storica delle evoluzioni dei rapporti internazionali, economici e non. Un primo, ampissimo periodo, che origina dalle prime società stanziali fino agli inizi del decennio 1980 d.C., caratterizzato dalla Globalizzazione. Un secondo periodo, a partire dagli anni 1980 d.C. e fino ai primi anni 2000, in cui si affaccia il Consumismo, che agisce autonomamente su alcuni aspetti peculiari della Globalizzazione, fino a modificarne la natura e le modalità di manifestazione, sempre più sovrapponendosi ad esse sia in termini geografici che culturali, linguistici e teorici. Dai primi anni 2000 ad oggi, la terza fase, in cui si sta assistendo alla integrazione sistematica dei due fenomeni, con la progressiva affermazione della Omologazione in campo economico, politico, culturale ed in ogni ambito della vita di un sempre crescente numero di popolazioni.

Ad una lettura superficiale questa deduzione potrebbe sembrare una conclusione sterile, una pura disquisizione da serata in salotto: ma non è così. Ponendo sul tavolo questa diversa impostazione storica ed economica dello sviluppo del modello interattivo delle varie nazioni negli ultimi 50 anni, credo sia conseguente rivedere i metodi di analisi, studio e sviluppo di modelli teorici, al servizio sia della comprensione del passato sia a formule attuative per il futuro. 

Riferendosi a quanto scritto qualche riga più sopra, sulla minore attenzione alla modellizzazione teorica degli effetti della delocalizzazione e specializzazione produttiva mondiale, del Consumismo, del liberismo economico e finanziario, della concorrenza fiscale e dei mercati del lavoro, e degli aspetti a loro complementari o susseguenti, sulle persone comuni ed in relazione alle loro specificità. Tutti questi fenomeni sono assimilati, nel linguaggio comune, politico e giornalistico, nel termine Globalizzazione, che proprio per questo appare un concetto dai confini indefiniti e assolutistici. Quasi che con una parola si sia descritto, detto e capito tutto. È così che questa parola è considerata dalla stragrande maggioranza dei cittadini, dai politici senza visione del futuro e dalle semplificazioni giornalistiche quale responsabile di ogni negatività che l’umanità sperimenta. Ossia, per meglio esplicitare il concetto, la Globalizzazione è l’obiettivo di ogni critica, il catalizzatore dei malumori e disagi diffusi.

Una semplificazione terminologica e concettuale che porta, all’opposto, a considerare la Globalizzazione quale fonte imprescindibile di opportunità di evoluzione della condizione umana. Alla fine, il termine Globalizzazione è divenuto una riduzione teorica che non consente una discussione scevra da equivoci ideologici, equilibrata, critica, costruttiva e interdisciplinare in relazione alla realtà complessa che stiamo vivendo.

Ma, ed è questo un punto importante, la banalizzata Globalizzazione è l’alibi per tutti gli attori e comparse sul palcoscenico della Società. I “capitalisti” la usano per giustificare le loro strategie di business (la sfida globale ci vuole sempre più competitivi e flessibili!), la politica segue prona le logiche economiche finanziarie globali (se no i mercati ci puniscono!), le Religioni le attribuiscono poteri diabolici (il Consumismo sfrenato è espressione di satana!), le persone in difficoltà vi sfogano contro le loro frustrazioni (la Globalizzazione ci porta via il lavoro e il futuro!). 

Però … tutti continuano a giocare la partita della Globalizzazione, che diviene salvifica quando si parla di “vantaggio per i consumatori”; come dire, prima: maledette delocalizzazioni e finanza globale! e poi: lunga vita al consumismo

E’ questo circolo vizioso, derivante dalla separazione concettuale tra aspetti economico finanziari e profili sociologici, che induce a considerare il modello socio economico attuale come l’unico possibile, il migliore possibile. Perché? È abbastanza intuitivo. Nella Globalizzazione ogni attore (e comparsa) trova, secondo propria e contingente convenienza, l’opportunità di incolpare qualcuno, offrire ipotetici vantaggi ad altri, illudersi di prospettive di sviluppo (anche personale), aggirare convenzioni sociali e precetti religiosi, ispirarsi a nuovi orizzonti culturali e spirituali, tendere a modelli sempre migliori (guardate in Germania o negli USA come si fa una cosa! Come sono avanti!). E se tutto questo non è sufficiente, allora rincariamo la dose con il liberismo, la delocalizzazione, ecc.

Di fatto è una situazione in cui tutti, chi più e chi meno, ci sentiamo vittime di un “qualcosa” che ci sovrasta a favore di “qualcuno”: una situazione indistinta e fumosa sotto qualunque aspetto. 

Una domanda per il lettore? Secondo te, chi trae vantaggio da questa semplificazione lessicale, Globalizzazione, che tutto rappresenta e nulla spiega?

Potrebbe essere quel “qualcuno” che sentiamo soffiarci sul collo, che con le sue strategie e braccia armate si nasconde dietro l’indistinta Globalizzazione, soffia sul fuoco della fervida fede nella nuova religione consumistica … e mantiene così il potere sulle coscienze? Anche questo è un altro tema che andrebbe approfondito separatamente, tanto è vasto e complesso.

Ma riprendiamo un attimo i fili del discorso relativo al sistema di studio dei fenomeni socio-economici attuali, osservando che gli studi della realtà contemporanea si sono suddivisi sostanzialmente in analisi economiche per quanto riguarda i flussi commerciali, finanziari, la logistica e via fino alle politiche economiche, mentre la sociologia si dedica alle diverse dinamiche sociali declinate in vari aspetti (per classi sociali, per territorio ecc.), tentando di delineare linee evolutive per il futuro, in relazione al lavorio del Consumismo ai danni dei valori fondanti la coesione sociale. La politica, poi, ha contribuito anch’essa a mischiare un po’ le idee in merito alla Globalizzazione, evitando una discussione di alto profilo e riducendo l’analisi e la gestione del fenomeno ad un insieme di slogan e banalizzazioni buone solo per le campagne elettorali, tutti gli schieramenti dichiarandosi ora pro ed ora contro, secondo le convenienze contingenti e gli interessi particolari da rappresentare (ovviamente, in nome e per conto del popolo, più o meno sovrano). Sul Consumismo, invece, tutte le forze politiche concordano: “bisogna rilanciare i consumi” è il mantra di destra, centro e sinistra. E così quel misterioso “qualcuno” può continuare a dormire sonni tranquilli tra guanciali d’oro. Sì, perché la divisione settoriale delle indagini teoriche e l’opportunismo dell’agire politico non consentono di avere una visione di insieme di quel complesso e ramificato fenomeno che abbiamo denominato Omologazione.

L’eresia che si vuole presentare in questa parte conclusiva dell’articolo consiste nel pensare ad un nuovo approccio scientifico di analisi (intesa qui come spiegazione e modellizzazione) del meccanismo che regola la società contemporanea. Così come l’evoluzione delle interazioni economiche e sociali del secolo scorso procede verso un nuovo insieme di fenomeni, già in uno stadio avanzato di integrazione e fusione, così lo studio dello stesso non può essere lasciato a singole discipline ma è necessario trovare un sistema di integrazione degli approcci specifici di economia, sociologia, scienze politiche e psicologia.

Così come si presenta l’Omologazione (pervasiva ed in continua espansione), così deve agire l’indagine teorica e la gestione operativa del fenomeno: multidisciplinare, sistemica e multilivello.

Forse si immagina ora una nuova disciplina, ulteriore e fine a se stessa, buona per qualche dotta disquisizione accademica? No. Sarebbe, al contrario, la disciplina che consentirebbe di mettere insieme conoscenze, metodi di indagine e di previsione, statistiche e politiche in grado di rispondere in modo unitario a tutta una serie di quesiti e problematiche che ora trovano risposte settoriali.

Un esempio. Poniamo come dato di partenza la seguente osservazione. I tassi di interesse in Europa sono nulli o, in certi casi, negativi (in termini reali). In tale condizione del mercato monetario, stando ai modelli economici seguiti in questi anni, gli investimenti in attività produttive dovrebbero essere l’unico impiego conveniente del capitale, così che ne dovrebbe derivare un aumento della ricchezza prodotta dal territorio di competenza (il PIL) che trainerebbe la crescita dell’occupazione, con effetti positivi su consumi ed inflazione. Sto semplificando in modo estremo …

Gli effetti attesi, in Europa, non si stanno realizzando e l’economia continua a languire e l’occupazione a ristagnare. Da questa situazione possono scaturire serie alquanto lunghe di domande, tra loro concatenate come qui di seguito.

Se le politiche monetarie espansive non producono più effetti su Pil ed inflazione, non è forse un’indicazione che i mercati non stanno più seguendo le classiche regole di funzionamento di anni fa? Il mercato è composto da tutti gli individui e loro organizzazione presenti sul territorio, e se è così, perché i tassi di interesse nulli non hanno più gli stessi effetti di anni fa sui nostri comportamenti? Forse sono cambiate le condizioni degli individui nel loro complesso? L’occupazione esistente beneficia della stabilità dei prezzi, ossia i redditi in termini reali sono stabili o tendono a diminuire? Se diminuiscono, quali sono i beni e servizi la cui domanda si contrae? Se invece il reddito reale è stabile, perché non si mantiene lo stesso volume di consumo in generale? Sta aumentando il risparmio? Se sì, è per paura del futuro o perché il Consumismo sta perdendo appeal, oppure per scelte rispettose dell’ambiente e quindi si riduce l’acquisto del superfluo? Quali sono allora le priorità attuali dei cittadini? Sta cambiando lo stile di vita? Quali sono gli elementi che stanno modificando i comportamenti dei singoli? Forse c’è una tendenza a donare ai più bisognosi, per cui gli acquisti si concentrano sui beni di prima necessità? E se così è, quali saranno i settori merceologici destinati a contrarsi? Con quali effetti sull’occupazione in termini geografici e di figure professionali? Cambierebbe la composizione sociale di determinate aree, con eventuali fenomeni migratori? E così via.

Siamo al dunque: evolvere lo studio per avere una visione di insieme che metta in relazione i comportamenti individuali con i processi omologanti in atto. Individuare il livello di responsabilità dei comportamenti singoli in termini di consumi, mode, relazioni sociali, utilizzo delle risorse naturali (acqua, gas, suolo, …) significa riuscire a definire ed individuare le cause di eventi in aree molto lontane da noi. Ad esempio si potrebbe dar conto alla popolazione cinese, portando dati e prove, che il cambiamento nel loro regime alimentare sta incentivando la deforestazione e gli incendi in Amazzonia.

Modificare l’impostazione e il metodo di analisi dell’Omologazione consentirebbe anche di prevedere come la stessa impatterebbe su popolazioni con Religioni, costumi ed usanze assai differenti da quelli Occidentali (patria della Omologazione, cosa da non sottovalutare), quali sarebbero gli effetti sulle strutture elementari di quelle società, come potrebbero reagire i cittadini di quelle nazioni.

Porre questo nuovo approccio a riferimento del ragionare in materia geopolitica e geoeconomica ci consentirà di impostare in modo innovativo l’approfondimento di eventi locali o regionali con rilevanza mondiale. 

Potrebbe costituire il nuovo laboratorio culturale dove sottoporre a diagnosi tutte quelle aree economiche, indicate con locuzioni generiche e raramente connesse una alle altre, quali finanza globale, dumping fiscale, concorrenza sleale, sfruttamento dei lavoratori, immigrazione economica, cambi climatici, ecc., e ricollocarle in un sistema di relazioni fatte di cause, concause ed effetti, che consenta un disegno a più dimensioni della realtà. E questo risultato sarebbe già un bell’“avviso” a quella élite che protegge, invece, alimentando la divisione dei saperi e, spesso, l’asservimento degli stessi alle logiche del dio denaro.

Angelo De Giuli