Afghanistan, chi era costui?

di Fabrizio Maltinti

In questi giorni, in seguito alle dichiarazioni del Presidente USA Donald Trump e le anticipazioni della Ministra Trenta circa il possibile ritiro del nostro Contingente militare, si ritorna a parlare di Afghanistan. Come sempre, le opinioni espresse sui media sono le più disparate: da chi è favorevole alla proposta, a chi è, invece, contrario in nome degli impegni internazionali assunti. Tuttavia, tranne che in rarissimi casi, ci si limita a riportare dichiarazioni di questo o quel personaggio politico.

Ritengo, pertanto, sia doveroso chiarire alcuni punti a riguardo di quel Paese che, almeno dal 1979, occupa una buona parte delle cronache di geopolitica.

Il 1979, infatti, segna una data storica per l’Afghanistan in quanto rappresenta l’inizio dell’intervento militare Sovietico a sostegno del Partito Democratico Popolare, al potere nel Paese. Il conflitto, che durò circa dieci anni, vedeva contrapposte le Forze Governative – massicciamente sostenute dai sovietici – contro i ribelli, vari raggruppamenti di guerriglieri afghani collettivamente noti come mujaheddin, appoggiati materialmente e finanziariamente da un gran numero di nazioni straniere, gli USA e l’Arabia Saudita, in particolare.

Dopo il fallimento dell’intervento sovietico e la conseguente ritirata del contingente militare nel febbraio del 1989, gli scontri tra mujaheddin e truppe governative proseguirono nell’ambito della guerra civile, fino alla caduta del governo Afghano nell’aprile del 1992.

Al suo posto i leader ribelli proclamarono lo Stato Islamico dell’Afghanistan.

Ma, anche adesso, le cose non si calmarono. I ribelli ora al governo, infatti, erano un coacervo di differenti etnie che ben presto entrarono in conflitto tra di esse, fino al prevalere dei Talebani (plurale di Taleb, che significa studente, dato che si trattava degli studenti delle Scuole coraniche islamiche); un movimento politico-militare per la difesa dell’Afghanistan.

I Talebani rimasero al potere in Afghanistan dal 1996 al 2001.

È bene ricordare che, sebbene si tratti di integralisti islamici, essi non rappresentano – e non hanno mai rappresentato – una minaccia per l’Occidente, avendo quale unico obiettivo la liberazione dell’Afghanistan e non il jihad.

Il 2001 è un anno fatale per il Medioriente; l’11 settembre, infatti, avviene l’attentato alle Torri Gemelle a New York che, come vedremo, avrà durissime conseguenze per l’Afghanistan e non solo.

L’invasione USA di questo Paese avvenne solo quattro settimane dopo l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, con il motivo ufficiale che il Regime Talebano, al governo in Afghanistan, dava rifugio al terrorista Bin Laden.

Come scusa appare un po’ puerile, non solo per i tempi incredibilmente veloci nei quali questa decisione maturò, né per l’esiguo numero di militari USA inviati nel Paese (11.000) e né perché poco fu fatto per “stanare” Bin Laden – le ricerche del terrorista iniziarono solo due mesi dopo l’invasione – ma, soprattutto, perché l’Afghanistan era già nei piani USA, almeno dal 1996.

La compagnia petrolifera statunitense UNOCAL (Union Oil Company California), infatti, aveva il progetto di costruire la “pipeline Trans-Afgana”, una condotta lunga 1.680 chilometri per portare il metano turkmeno del Mar Caspio fino in Pakistan, sull’Oceano Indiano, attraverso l’Afghanistan occidentale.

A tal fine, nel 1996, la Unocal apre una sede a Kandahar e l’anno dopo esponenti del governo talebano vengono ricevuti negli Usa.

Nel 1997, infatti, una delegazione di leaders Talebani si recò a Huston, nel Texas – quando George W. Bush ne era ancora Governatore – per incontrare i dirigenti della Unocal e discutere con loro la costruzione del gasdotto. Altro aspetto che lascia perplessi fu che la Società Halliburton – di cui era Presidente Dick Cheney – che sarebbe divenuto il Vicepresidente USA con G.W. Bush – ottenne l’esclusiva per le trivellazioni del mar Caspio.

Ulteriore aspetto inquietante fu che, una volta portata a termine l’invasione dell’Afghanistan, gli USA vi insediarono un nuovo Presidente, Hamid Karzai, che, guardate la combinazione, era un ex consulente, appunto, della UNOCAL (così come consulente Unocal era anche Zalmay Khalilzad, inviato speciale degli Stati Uniti in Afghanistan).

Ma, tornando alle trattative per la costruzione del gasdotto, convincere i Talebani integralisti e modernofobi si rivelò alquanto difficile e le trattative andavano per le lunghe al punto che si rivelò più redditizio invadere l’Afghanistan.

Infatti, subito dopo l’insediamento di Karzai, l’Afghanistan firmò gli accordi necessari con i Paesi confinanti per la realizzazione del gasdotto attraverso l’Afghanistan.

Questa è considerata da molti la vera motivazione che ha spinto gli Stati Uniti ad invadere l’Afghanistan nel 2001. Motivazione che l’Occidente, non solo ha finto di non vedere – del resto, da li a breve, ci saremmo bevuti le armi di distruzione di massa di Saddam – ma, sebbene l’attacco alle Torri Gemelle fosse stato riconosciuto come un atto di terrorismo e non di guerra contro gli Stati Uniti da parte di un Paese straniero, questo non impedì che già il giorno seguente, il 12 settembre, l’Alleanza atlantica stesse invocando l’applicazione dell’Articolo 5 della Carta NATO sulla difesa reciproca. Pertanto, ogni Stato dell’Alleanza non perse tempo a manifestare il proprio pubblico appoggio a Washington.

L’Alleanza Atlantica, sebbene sia nata in un clima di guerra fredda, con lo scopo di difendere l’Europa dall’Unione Sovietica, alla fine dell’Impero Sovietico, nel 2001, anziché dissolversi o, vedere reindirizzati i propri obiettivi strategici, è stata impiegata come longa manus USA per il proseguimento di un’anacronistica guerra fredda anti-Russia; ed in questo quadro rientrerebbe anche l’intervento in Afghanistan.

Come riporta il Rapporto MIL€X 2017 (Osservatorio sulle spese militari italiane), l’Italia partecipa alla Missione di Sicurezza della NATO in Afghanistan con un Contingente militare che oggi assomma a circa 1000 soldati (circa 900 ad Herat e circa 50 nella Capitale Kabul); contingente che, tra il 2010 ed il 2012 ha superato le 4.000 unità. In tutto, sono stati impiegati in Afghanistan circa 16.000 militari italiani, con un costo globale di circa 7,5 miliardi di euro (1,3 milioni di euro al giorno!).

Ben venga, in questo contesto, la proposta del Ministro della Difesa Elisabetta Trenta circa un possibile ritiro del Contingente italiano dalla Missione NATO in Afghanistan; ritiro, peraltro, già avvenuto per i Contingenti francese, canadese e spagnolo, rispettivamente nel 2012, nel 2014 e nel 2015.

Anche perché il fallimento della missione è palese se si guarda ai risultati raggiunti in sedici anni di presenza occidentale in Afghanistan. Questo Paese continua ad avere il tasso di mortalità infantile più elevato al mondo (113 decessi ogni 1000 nati, entro il primo anno di vita); l’aspettativa di vita nel Paese, è uno dei più bassi al mondo, 51 anni (terzultimo, prima di Ciad e Guinea Bissau); è uno dei più poveri per ricchezza pro-capite (207° su 230). Il Governo Afghano, inoltre, è uno dei più inefficienti e corrotti al mondo e i diritti civili sono praticamente assenti: censura, repressione del dissenso, tortura, ecc…

Tutte le Autorità governative centrali e periferiche, inoltre, sono coinvolte nella produzione e traffico di droga (oppio ed eroina), con effetti devastanti, non solo sulla popolazione afghana, ma anche in Occidente; compresa l’Italia, dove l’eroina “afghana” si sta diffondendo tra i giovanissimi.

Tra l’altro, la produzione di droga, vietata al tempo del governo dei Talebani, è ricominciata e si è rinvigorita dopo l’intervento militare occidentale del 2001. Sorge spontaneo un parallelo con il Vietnam, dove la produzione ed il commercio di droga fiorirono dopo l’intervento USA.

Un caso??

Fabrizio Maltinti