Turchia, il leone dell’oro blu

Turchia, Siria ed Iraq hanno un destino condiviso da una striscia blu che serpeggia sulla superficie del pianeta, il bacino Tigri Eufrate. I tre Stati, seppure diversi per storia politica, sviluppo sociale ed assetto internazionale, sono legati l’un l’altro dalla necessità di stabilire un equilibrio per l’equo sfruttamento delle risorse idriche.

Tigri ed Eufrate nascono entrambi in Turchia, Paese che non solo ha un’area geografica molto estesa, ma che ricopre anche il 17esimo posto tra le nazioni più popolose della terra, con un range di crescita demografica elevato e costante. Come Nazione a monte del bacino idrografico, la Turchia riesce ad utilizzare un quantitativo d’acqua maggiore rispetto ad Iraq e Siria, avvalendosi anche delle fortunate condizioni meteorologiche: grazie alle sue precipitazioni, la Turchia riesce a rifornire il bacino dei Twin Rivers per il 90%, particolarità naturale che l’ha posta in una posizione di dominazione nei confronti degli altri due Paesi.

La conservazione delle acque turche è stata garantita nel corso del tempo dalla costruzione di numerose dighe: in Turchia ci sono 579 costruzioni idriche atte all’accumulo di acqua per l’irrigazione e l’energia idroelettrica. Tra tutte, il posto d’onore è occupato dalla diga di Ataturk, la più capiente: può infatti ospitare fino a 48.700 milioni di metri cubi d’acqua. Riempire il suo bacino significò sospendere per un mese il flusso dei fiumi verso Siria ed Iraq.

Le infrastrutture idriche turche sono state irreggimentate dal progetto GAP, i cui disegni furono annunciati nel 1977. Scopo del GAP non era solo quello di rendere l’economia turca più competitiva, ma anche quello di livellare gli squilibri interni del Paese, ponendoli in uno stesso stadio di competitività. Se la diga di Ataturk è stato il fiore all’occhiello dell’intero progetto, non è stata di certo l’opera conclusiva. Il Progetto Anatolia Sud-Orientale, (Güneydoğu Anadolu Projesi in turco), è considerato fondamentale per meglio sopportare la crescita demografica: ciò che era partito con l’essere un’opera idrica ed elettrica, si è trasformato con l’essere un progetto di sviluppo sociale ed economico per l’intera regione.

Se la politica interna ha premiato il GAP e i suoi sostenitori, la gargantuesca opera idraulica ha fatto crescere le preoccupazioni internazionali. Siria ed Iraq hanno visto diminuire il quantitativo idrico a loro necessario. Il 17 luglio del 1987 venne firmato un protocollo a Damasco tra la Turchia e la Siria, concernente una collaborazione economica tra i due paesi circa la quantità d’acqua di cui poter usufruire e l’energia idroelettrica da poter ricavare. In base a ciò, si stabilì che durante il riempimento della diga di Ataturk, la Turchia avrebbe rilasciato un minimo di 500 m3/s all’anno verso il confine siriano. Nonostante ciò, un conflitto fu quasi raggiunto nel 1990, quando il flusso del bacino fluviale fu interrotto per quasi un mese, e il Presidente Ozal utilizzò il possesso idrico come arma di ricatto nei confronti della Siria, minacciando di trattenere ancora l’acqua se la Siria avesse continuato ad accordare il suo sostegno ai curdi, i quali sostennero un attacco terroristico ai danni della Turchia proprio nel 1992, anno di inaugurazione della diga di Ataturk, depositando una concentrazione letale di cianuro di potassio nei serbatoi dell’acqua del Turkey Air Force di Istanbul. Siria e Turchia riuscirono a raggiungere un compromesso idraulico solo nel 2001, grazie al Joint Communiqué, un accordo la cui base era l’assistenza e la cooperazione tecnica tra i due Stati, firmato da il presidente del GAP I.H Olcay Unver e il direttore generale del ministero per l’irrigazione e lo sviluppo terriero della Siria, Kays al-Assad.

Che la Turchia volesse giocare un ruolo chiave nell’equilibrio mediorientale, ponendosi in posizione nettamente superiore rispetto agli altri Stati, fu chiaro fin dal 1986, anno in cui l’allora presidente turco Ozal presentò il progetto Peace Pipeline, che prevedeva la costruzione di due acquedotti: il primo, di 270 km, avrebbe attraversato la Siria, il Golan e la Giordania per rifornire l’Arabia Saudita; il secondo, di 3900 km, avrebbe rifornito Bahrain, Kuwait, Emirati Arabi, Qatar e Oman. Un progetto grandioso che avrebbe garantito sì la distribuzione equa delle risorse idriche mediorientali, ma che avrebbe posto la Turchia in una posizione di eccessivo predominio, sconvolgendo gli equilibri precari della regione. Un’idea che quindi fu si chiamata “l’acquedotto della pace”, ma che in realtà aveva tornaconti economici e politici di livello decisamente elevato, tutti a favore della penisola turca.

Sebbene la Turchia abbia vissuto una sicurezza idrica invidiabile, le condizioni sono mutate: la regione vive un incremento demografico preoccupante, accompagnato da uno stress idrico non indifferente. Per incentivare l’agricoltura, al fine di produrre il sostentamento necessario alla popolazione, le risorse idriche sono diminuite e hanno subito un costante inquinamento. La Turchia non può più giocare la parte del solo leone in campo idrico internazionale: una cooperazione è quantomeno auspicabile, poiché la penisola potrebbe dover affrontare in futuro una crisi idrica non indifferente.

Adele Lerario