Gilles Kepel e l’ingratitudine mediorientale

Facendo il nostro mestiere ed essendo appassionati di geopolitica e di Mediterraneo non possiamo non conoscere Gilles Kepel e non possiamo non apprezzarne la lucidità delle analisi e delle conclusioni. Non per niente Kepel viene accreditato come «politologo, orientalista e accademico specialista di Islam e di mondo arabo». Non per niente, le sue opere sono tradotte in molte lingue e siamo lieti di averne letto la gran parte.
Qualche giorno fa, esattamente il 26, Repubblica ne ha pubblicato un articolo che ci ha francamente sorpreso. E non tanto per le inusuali  banalità e i luoghi comuni, ma perché sembra scritto da un ideale «portavoce della visione occidentale della geopolitica del Medio Oriente». E’ vero, è molto difficile condensare in un articolino di poche righe considerazioni che meriterebbero di essere approfondite in un saggio, ancorché breve. Ma il professionista di rango, qual’egli è, deve saper divincolarsi dalle insidie della banalità e dell’acquiescenza.
Ecco, di seguito, il testo pubblicato da Repubblica.

“Il nemico occidentale”, di Gilles Kepel

Le violenze che da cinque giorni scuotono l´Afghanistan dopo che nella base militare americana di Bagram alcune copie del Corano sono state bruciate per errore, possono sembrare assolutamente paradossali da uno sguardo occidentale. Dopo tutto, i Paesi della Nato che hanno inviato donne e uomini a morire in Afghanistan, attraversando per questo gravi crisi politiche interne e sopportando un notevole costo economico, hanno cercato di ricostruire un Paese devastato dalla dittatura dei Taliban. Nella visione occidentale è paradossale che l´incenerimento incidentale di opere seppur sacre possa tradursi in manifestazioni violente e nell´omicidio di quelli che sono stati mandati in quel Paese per ristabilire la pace.
L´episodio può ora provocare un incendio ancora più vasto in tutta l´area, come accadde già per altre vicende legate a libri: basti ricordare la scia di sangue seguita oltre venti anni fa alla pubblicazione dei Versetti satanici di Salman Rushdie. L´attuale contesto regionale è infatti estremamente teso. S´intuiscono i preparativi di un più vasto conflitto, successivo alle rivoluzioni arabe e di cui la prima tappa potrebbe svolgersi intorno al Golfo Persico nel caso che l´Iran sia attaccato da una coalizione formata da Israele, gli Stati della penisola arabica e i Paesi occidentali, con diverse modalità ma con l´obiettivo comune di far cadere il regime al potere a Teheran. D´altra parte, si ricevono ogni giorno notizie di massacri ad Homs e i Paesi occidentali, appoggiati da governi della penisola arabica, tra cui Qatar e Arabia Saudita, fanno pressione per accelerare l´uscita di Bashar al Assad.
L´alleanza tra l´Occidente, guidato dagli Stati Uniti, e il processo di democratizzazione nel mondo arabo è oggi molto più complicato di quel che sembrava qualche mese fa, quando da Washington, a Parigi e Roma si era diffuso allora l´entusiasmo per la rivoluzione di Twitter e Facebook, con la convinzione che gli arabi erano diventati esattamente come noi, avidi di diritti e libertà, e che Osama Bin Laden e Al Qaeda erano solo un vecchio incubo, ormai scacciato via da un nuovo risveglio. In realtà, negli sconvolgimenti che attraversano i paesi arabi e, per effetto di rimbalzo, il resto del mondo, è in gioco appunto la relazione con l´Occidente, tesa e complessa. In Egitto, ad esempio, delle Ong americane e tedesche che incoraggiavano la democrazia sono state chiuse da un apparato militare che non vuole lasciare potere. Il processo al Cairo contro i responsabili di queste Ong è stato il pretesto per una rinnovata propaganda nazionalista da parte di alcuni dirigenti politici legati ai militari, cercando così di superare nei toni i fratelli musulmani e i salafiti che hanno vinto le elezioni. Anche in Tunisia si registrano segnali preoccupanti, sebbene non ancora nella stessa intensità che altrove. Le diverse forze che all´interno del mondo arabo e musulmano tentano di assumere il controllo dell´immensa transizione in corso, vogliono colpevolizzare o sminuire i propri avversari, accusandoli di essere alleati degli americani e dell´Occidente, non più percepiti come sostegno della democrazia ma come antichi alleati dei precedenti regimi dittatoriali, cleptocrati e anti-islamici.
I primi beneficiari delle manifestazioni in corso in Afghanistan sono ovviamente i Taliban. Ma la cristalizzazione delle proteste intorno all´accusa di profanazione del Corano è un´opportunità per mobilitare ben al di là della loro tradizionale base. Ne ho avuto la dimostrazione in Tunisia, due giorni fa, osservando da vicino un corteo organizzato dai salafiti contro una televisione tunisina accusata di deturpare la loro immagine. Eppure, dietro alle bandiere e ai proclami, ho visto che gran parte dei manifestanti non erano salafiti ma semplici persone che chiedevano un ricambio in un´emittente che ha conservato gli stessi dirigenti e giornalisti dai tempi di Ben Ali. I salafiti, in pratica, erano stati capaci di intercettare una richiesta più vasta di liberalizzazione dell´informazione e dei media. Così in Afghanistan, intorno a una manifestazione radicale, si riesce a mobilitare una base molto più ampia in nome della difesa della libertà e dell´identità, individuando come nemico comune gli Stati Uniti e l´Europa. Ricordiamoci che quando in Tunisia è stato diffuso il film “Persepolis”, nel quale l´iraniana Marjane Satrapi mette in scena un dialogo con Dio, ci sono state violente proteste dei salafiti contro l´Occidente, riunendo folle molto più numerose dei loro abituali raduni. Nel mondo musulmano esiste oggi una forte suscettibilità. Anche una piccola scintilla può mettere fuoco alle polveri. È bene rammentare che l´intervento in Libia che ha evitato l´invio di truppe a terra si è concluso con un certo successo, mentre in Iraq e Afghanistan dopo una conclusione positiva delle operazioni militari si sono verificate delle catastrofi politiche. Ed è per questo che la prospettiva di un intervento militare in Siria appare come un incubo assoluto per tutte le cancellerie occidentali.
La Repubblica 26.02.12

Tra le molte cose che vorremmo replicare a Kepel, ci limiteremo semplicemente a ribadire con forza la nostra consolidata convinzione, secondo la quale non sarà il mondo occidentale a dovere stabilire tempi e modalità dell’evoluzione democratica dei Paesi della nebulosa arabo-musulmana, né come debba essere la «democrazia» su misura per i suddetti Paesi. «Democrazia» è etimologicamente una parola molto facile da capire, è il potere affidato al popolo. Peccato che gli strumenti che si affidano al popolo per esercitare il suo potere non è detto che debbano essere sempre gli stessi. Noi siamo pervenuti, dopo un’evoluzione durata diversi secoli, a stabilire la necessità dell’esistenza di un Parlamento che dia ospitalità ai rappresentanti nominati dagli elettori. Ma è proprio conveniente che il sistema costruito consenta che siano espressi troppo spesso dei rappresentanti indegni dell’area rappresentata? Non sarebbe piuttosto preferibile un più basso livello di rappresentatività, accompagnata ad un più elevato livello dei rappresentanti? E perché ostinarci nel volere stimolare la costruzione di un sistema così imperfetto anche presso chi ha la fortuna di doverlo ancora costruire ex-novo? Egli parla, poi, di «pace» in aree lontane da noi e dei “nostri” sforzi nel suo ristabilimento.
Ci domandiamo a che cosa serva una pace imposta e non metabolizzata a seguito di naturali processi di assimilazione. Crediamo, piuttosto, che il colmo della società occidentale sia quello di considerare parametri idonei a stabilire il livello di «Sviluppo della condizione umana», che prendono in considerazione il prodotto interno lordo, ossia l’ISU (Indice di Sviluppo Umano) calcolato tenendo conto dell’aspettativa di vita, del tasso d’alfabetizzazione e di scolarità e del reddito a parità di potere d’acquisto (PPA), la disoccupazione e l’inflazione.
Ma la metodologia geopolitica richiede un esame approfondito di tutti i fattori in gioco. Siamo convinti che sia impossibile interpretare i fenomeni di un’area o di una comunità e la fitta rete di connessioni interne/esterne, d’ogni natura, senza averne esaminato tutti gli elementi pertinenti, anche la prospettiva storica ed i contesti sociali e culturali. Le autorevoli statistiche ONU prendono in considerazione parametri importantissimi, quali l’aspettativa di vita alla nascita, l’alfabetizzazione della popolazione adulta, il tasso di scolarità dei giovani, il PIL pro capite, il tasso di fertilità, il tasso di mortalità sotto i cinque anni, l’indice di povertà umana, la quantità di popolazione che vive a vari livelli di salario, il tasso di disoccupazione, gli andamenti demografici, l’impegno dei paesi in ambito sanitario, dati sull’acqua e sull’alimentazione, le disuguaglianze nella salute materna e infantile, i rischi sanitari globali, le performances economiche, le priorità della spesa pubblica, l’energia e l’ambiente, le vittime del crimine, la partecipazione alla vita politica della donna e la tutela dei diritti umani. Non si è, purtroppo, trovato il modo di quantizzare, valutare e valorizzare nella definizione dell’indice di sviluppo umano fattori essenziali quali la persistenza della cornice etica di riferimento, la continuità delle tradizioni familiari e tribali, l’incidenza dell’impresa familiare, i provvedimenti tesi ad incentivare l’iniziativa familiare e la piccola impresa, la produzione di specialità artigianali, agricole, alimentari locali, la promozione della diversità produttiva, politica, istituzionale e la varietà nei consumi. Occorrerebbe riuscire a valutare e trasferire in dati statistici la forza interiore dei componenti di quelle Nazioni o comunità presso le quali non sia sensibilmente mutato nel tempo il quadro etico-sociale che regola il quotidiano. Ed anche i progetti ed i rapporti interpersonali, seppure in un contesto di povertà di risorse, a fronte di un benessere economico costato l’abbandono o la profonda modifica dei valori tradizionali, con tutte le immaginabili conseguenze a livello individuale e di comunità. E’ per questo motivo che si preferisce dare maggiore credito a studi orientati a rendere l’analisi della condizione umana non limitata ai fattori di natura energetica ed economica, onde poter fare emergere l’impatto dello stato socio-antropologico delle realtà locali nell’era della mondializzazione e nella virulenta avanzata del mercato globale, del villaggio unico e della spinta all’omologazione, senza la quale non si è riconosciuti!
Gilles Kepel ricalca gli errori della politica della nostra parte del mondo, che pretende di «imporre» pace e democrazia, quelle regolate dalle nostre regole di vita, non quelle che scaturiscono dalle architetture sociali di mondi molto diversi dai nostri. Commette lo stesso errore delle analisi delle Nazioni Unite, che, esaminando lo stato dello “Sviluppo della condizione umana”, pur elaborando statistiche brillanti, arriva a concludere che «la popolazione norvegese è oltre 40 volte più sana di quella del Niger. I Norvegesi vivono una vita lunga quasi il doppio e godono di un tasso di scolarità pressoché totale a livello primario, secondario e terziario, in raffronto al tasso di scolarità del 21 per cento del Niger», ovvero «il 20 per cento più povero della popolazione mondiale, che corrisponde pressappoco al numero di quelli che vivono con meno di 1 dollaro al giorno, percepisce l’1,5 per cento del reddito mondiale», oppure «il 40 per cento più povero, che corrisponde alla linea di povertà di 2 dollari al giorno, percepisce il 5 per cento del reddito mondiale». Considerazioni che si rigettano decisamente. Non perché non siano veritiere, o autorevoli, o lo specchio di una drammatica realtà cui si cerca invano di porre rimedio. Ma, essenzialmente, per la convinzione del grosso limite insito in questo tipo di statistiche, aride se non rapportate con il posizionamento della soglia del bisogno e con la sua definizione esistenziale, con la precisazione del concetto di cultura, con l’intensità del sentire e della vita vissuta piuttosto che della sua durata, con la soglia del dolore e della sofferenza. La qualità dell’esistenza deve essere contestualizzata e non può mai essere ricondotta a numeri e statistiche. E poi, i diversi livelli di soglia possono far si che sia maggiormente appagato chi ha meno, se l’avere si associa ad un certo essere.
La forte crescita degli scambi internazionali di merci e di servizi, l’interscambio valutario e finanziario fra i diversi mercati ed il vigoroso flusso degli investimenti diretti esteri hanno sostenuto e guidato negli ultimi vent’anni l’avvento della(1) «globalizzazione dell’economia», che consiste nella progressiva edificazione di un sistema economico a elevato grado di integrazione planetaria, nella formazione di un unico mercato mondiale e nella progressiva marginalizzazione di tutte le forme di isolamento produttivo. A questi processi corrisponde l’indebolimento dei confini politici, la crescente interdipendenza delle regioni e degli stati e l’affievolirsi delle distanze geografiche funzionali. Avviata e sostenuta soprattutto dagli USA, la globalizzazione ha costituito un formidabile strumento utilizzato dalle economie orientali per convogliare il proprio sviluppo industriale ed economico. Tutti i principali attori sulla scena del mercato globale, gli Stati Uniti in particolare, hanno visto una grande opportunità di profitto economico e di affermazione dei propri modelli politico-culturali. I principali protagonisti della globalizzazione sono stati infatti le multinazionali americane e in primo luogo i colossi della pubblicità, che hanno colonizzato il mondo con un’unica cultura consumistica di matrice statunitense(2). Il commercio internazionale si è sviluppato impetuosamente ed è cresciuto molto più in fretta della ricchezza mondiale. Tra il 1990 e il 2002, infatti, la crescita media del PIL mondiale è stata circa del 3% annuo, mentre quella delle esportazioni (3) ha superato il 6% ed è diventata il traino principale dello sviluppo economico. Particolarmente rapido è stato l’incremento delle esportazioni industriali, che sono aumentate 5 volte più in fretta rispetto a quelle di prodotti agricoli e minerari. Sono obiettivo dell’espansione e del consolidamento degli attuali flussi del mercato globale non tanto i 100 miliardi di dollari del reddito annuale delle 500 persone più ricche del mondo che nei loro consumi certamente non si fanno influenzare dalle mode del mercato globale. Lo sono piuttosto i circa 500 miliardi annui del 20% della popolazione mondiale (circa 1.280 milioni di persone) che vive con 1 dollaro al giorno, oppure i circa 1.800 miliardi di dollari annui di quel 40% (2.560 milioni di persone) che vive con 2 dollari al giorno. Costoro, all’aumentare pur lieve del tenore di vita, saranno felici di poter consumare quel genere tanto propagandato, che tutto il mondo acquista, che darà loro la sensazione tangibile di essere finalmente entrati in un mondo possibile. E’ alibi corrente presso gli ambienti del business americano l’idea che l’istituzione di scambi commerciali possa influenzare positivamente persino la qualità delle istituzioni, giacché i privilegi, la corruzione e l’autoritarismo si diffondono più facilmente nelle economie chiuse. Ma si ignora che si finisce invece per favorire chi ha più potere, più credito, più credibilità. Poiché sino a un recente passato i paesi del Sud del mondo esportavano soprattutto materie prime, la loro marginalità commerciale è stata spesso interpretata come una sorta di ingiustizia economica, definita come «scambio ineguale». La teoria dello scambio ineguale si fondava anche sulla tendenza al ribasso dei prezzi delle materie prime e quindi sul deteriorarsi delle ragioni di scambio dei PVS. Nel circolo delle multinazionali, l’obiezione a questo tipo di argomentazioni è che i prezzi si formano in base all’andamento della domanda e dell’offerta. Si omette di considerare che la domanda e l’offerta provengono da mondi economici differenti e possiedono forze contrattuali decisamente sbilanciate. Per realizzare uno scambio equo di merci e prestazioni avrebbe dovuto essere organizzato un sistema paragonabile a quello fisico dei vasi comunicanti, nel quale l’instaurazione di un collegamento non regolato da “chiuse” o da “dighe” di sorta avrebbe dovuto comportare l’innalzamento dei livelli più bassi, compensati dall’automatico e contestuale abbassamento di quelli più alti. Al contrario, dal 1970 al 2003, mentre gli USA hanno visto il proprio prodotto nazionale aumentato di 10,8 volte in 33 anni, l’Austria di 17,5, il Belgio di 12, la Danimarca di 15,1, la Francia di 12,3, la Gran Bretagna di 16,8, la Grecia di 20, l’Irlanda di 46,6, l’Italia di 13,7, i Paesi Bassi di 15, il Portogallo di 24,2, la Spagna di 5,3 la Svezia di 10,1, la Cina di 15,2 e l’India di 11,4, nel medesimo periodo nel Niger l’incremento è stato appena di 4,5 volte, nella Sierra Leone di 2, nel Ciad di 8,7, in Etiopia di 3,9, in Burundi di 3, in Malawi di 5,7 e in Zambia di 2,4. Ma questi dati sono persino poco significativi a fronte di quelli derivanti dal confronto fra l’andamento dell’economia di un Paese capitalista quale gli USA e quella di alcuni Paesi non ancora in via di sviluppo, bensì costantemente sottosviluppati. Nella successiva tabella si confronta il rapporto tra il PIL di alcuni di questi Paesi – i più poveri del pianeta – e quello degli USA sia nel 1970 sia nel 2003:

NB – I dati, se estesi dal 2003 ai giorni nostri, mostrerebbero la tendenza già evidente nel 2003 in maniera ancora più marcata

Se avesse funzionato il sistema di compensazione planetaria atteso in conseguenza della globalizzazione dell’economia, ovvero se non fossero state imposte direzioni obbligate ai flussi del “commercio liberalizzato” a mezzo di barriere doganali o protezionismo dei Paesi industrializzati, vero e proprio sistema di chiuse e dighe al libero flusso della corrente del commercio, allora i rapporti della colonna “E” avrebbero dovuto tendere verso l’unità (chimera), o – comunque – a ridursi sensibilmente. Nella maggior parte dei casi i valori dei rapporti sono, viceversa, aumentati (col. “H”), il che dimostra analiticamente e senza possibilità di dubbio il mancato funzionamento del sistema imposto, che ha finito per aiutare i Paesi più ricchi a svantaggio dei più poveri.
Determinanti, in tal senso, sono stati i tanto auspicati investimenti stranieri, elemento che ha letteralmente riscritto la geografia economica mondiale. Il freddo e cinico calcolo ha reso possibile un ruolo determinante delle multinazionali anche nel campo sociale poiché, attraverso la privatizzazione di beni e servizi entrati nel loro mirino, negli ultimi vent’anni queste hanno influito in modo profondo sui servizi di pubblico interesse e di rilevanza sociale e strategica, i cui oneri sono stati sostenuti dai cittadini in cambio di prestazioni quasi ovunque peggiorate, a fronte dell’aumento dei loro costi sociali ed individuali. Tra le vittime maggiormente compiante di tale situazione vi è lo stato sociale, in via di definitiva estinzione in favore del progressivo affermarsi dell’iniziativa privata in tutti i campi strategici (sanità, previdenza, assistenza), troppo spesso coincidente con gli investimenti in servizi di multinazionali straniere. Ulteriore ricaduta di questo stato di cose è la trasformazione culturale ed etica a seguito dei flussi commerciali. E’ noto, soprattutto ai Mediterranei, che la cultura s’incanala nei solchi dell’economia, del commercio. Era così quattromila anni fa, ha continuato ad essere così sino ad oggi. Ma le trasformazioni culturali affrettate e non metabolizzate con la dovuta gradualità, inserite in un quadro anch’esso in complessiva evoluzione, sono potenzialmente generatrici di disgregazione delle culture tradizionali. Se si considera, oltre a ciò, che il dominio statunitense nell’industria culturale è inattaccabile e che gli USA controllano il 40% del mercato audiovisivo mondiale, che garantisce grandi profitti e contribuisce all’affermazione della cultura americana nel mondo (4),  si avrà una chiara percezione di quale sia la tendenza attuale e del perché le regioni maggiormente tradizionaliste, quali quella mediterranea e mediorientale, facciano fatica ad accettarla passivamente, preferendo affidare la loro resistenza anche a forme estreme e radicali.
A titolo di curiosità statistica, i due Paesi tra i grandi dell’economia mondiale più chiusi alla globalizzazione sono Italia e Giappone, con un indice di transnazionalità (TNI, indicatore sintetico del grado di apertura e di integrazione internazionale dell’economia di un paese) con valori rispettivamente del 5% e dell’1%, a fronte del 77% dell’Irlanda. Probabilmente sono in gioco motivazioni di natura non esclusivamente economica; potrebbe esistere una forte resistenza da parte del complesso-Paese nell’accettare il metodo globale di sviluppo. Il fenomeno potrebbe essere attribuibile a motivazioni quali la datazione e il radicamento di tradizioni di segno contrario. Per completezza, occorre chiarire che a fare di Italia e Giappone i grandi malati dell’economia occidentale tra i Paesi maggiormente industrializzati è anche il crollo della fertilità, giacché l’invecchiamento della popolazione viene generalmente riconosciuto come causa di perdita complessiva di vitalità sociale, di tendenza alla conservazione, di flessione della capacità di innovazione, di calo della propensione ai consumi ed agli investimenti e di diminuzione del dinamismo produttivo.
Per concludere, siamo personalmente convinti che l’approdo finale delle future ondate di empowerment delle masse arabo/musulmane, denominato semplicisticamente «primavera araba», avverrà nella secolarizzazione della società civile di questi Paesi. Ma cercare di aiutare il processo dall’esterno, magari attaccando l’Islam ed i suoi tabù, è oggi da folli. E giustificare simili comportamenti non è da studioso noto per le acute analisi sui fondamentalismi nelle tre “religioni del libro”.
Come si fa ad affermare che «copie del Corano sono state bruciate per errore», ad auspicare di «ricostruire un Paese devastato dalla dittatura dei Taliban», a legittimare l’eventualità che l’«Iran sia attaccato da una coalizione formata da Israele, gli Stati della penisola arabica e i Paesi occidentali», onde «far cadere il regime al potere a Teheran» o scandalizzarsi se alcune «Ong americane e tedesche che incoraggiavano la democrazia sono state chiuse da un apparato militare»?
Non sarebbe meglio cercare di considerare il tutto con lenti prodotte nei Paesi dei quali continuiamo a parlare tutti con tanta presunzione e con argomentazioni molto superficiali e parecchio lontane dalle prospettive locali?

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1 – I tre brani in corsivo di questa pagina e della successiva sono tratti dal volume Geografia, Garzanti, Milano, 2006, «La globalizzazione dell’economia», p. 44, 44, e 46 rispettivamente.

2 – Contrasta con il principio della mondializzazione e con l’istituzione del villaggio globale la determinazione americana di:
–    voler tenere il pericolo terrorista fuori dai confini USA;
–    non permettere che lo stile di vita americano possa essere in alcun modo messo in discussione, così come il “procurement”, a qualunque costo, di tutto ciò che è valutato necessario a non abbassarne il livello.

3 – Se si escludono le materie prime, l’esportazione di fatturati e servizi è praticamente a senso unico, quasi esclusivamente dai paesi ricchi a quelli poveri. Raramente in senso contrario.

4 – Geografia, Garzanti, Milano, 2006, p. 54

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